Il prima e il poi degli artisti aquilani dopo il terremoto delle 3.32

di Antonio Gasbarrini

Due soli minuti hanno sradicato e imbrogliato le vite di circa 70.000 aquilani. Nel velocissimo baluginamento di 120 secondi, la storia plurisecolare dell’intera città dell’Aquila (fondata nel 1254, subito dopo rasa al suolo da Manfredi cinque anni dopo, nuovamente riedificata nel 1266) è stata ridotta in cumuli e cumuli di macerie, che sono ancora tutte lì, imbrattate di grida, polvere e sangue. 

Dopo le 3.33 del tragico 6 aprile, cosa è realmente successo nella mente e nel cuore di quella orgogliosa collettività per metà ammucchiata nelle tendopoli e per l’altra metà dispersa negli alberghi della costa abruzzese?

A questo lancinante interrogativo si è cercato di rispondere tentando di trasmutare la malefica onda sismica, in pura, fresca energia creativa immessa nella Rassegna d’arte contemporanea Dalle 3.31 alle 3.33. Il prima e il poi degli artisti aquilani dopo il terremoto delle 3.32.

L’Aquila, sin dalla sua fondazione e prima delle 3.32, è stata una città d’arte e di cultura: chiese, piazze, fontane, monumenti, affreschi, quadri, sculture costituivano uno scenografico museo a cielo aperto messo su, secolo dopo secolo, da architetti, pittori, scultori e da Maestri della pietra, del ferro e del rame. Gli artisti, come Raffaello Sanzio, sono stati sempre di casa: è sufficiente qui citare i pittori rinascimentali Saturnino Gatti, Francesco da Montereale, Pompeo Cesura e lo scultore Silvestro Aquilano, o, tra i numerosi stranieri, il padre celestino Carlo Ruther, seguace del Rubens, morto forse in città durante il terremoto del 1703. Per venire allo scorso secolo, il pittore Teofilo Patini o, per i tempi più vicini, l’artista Remo Brindisi, il cui monumentale dipinto “Omaggio ai Nove Martiri Aquilani” faceva bella mostra di sé nella indimenticabile Mensa del Popolo.

Non sarà un caso se nell’immediato dopoguerra la rinascita civile e culturale della città capoluogo verrà firmata, se così si può dire, dal Gruppo Artisti Aquilani. Si deve a quel manipolo di coraggiosi, audaci sostenitori di una modernità che bussava alle porte, la fondazione della Società dei Concerti, del Teatro Stabile, dell’Istituto d’Arte, dell’Accademia di Belle Arti, e così via.

Due spazi culturali, il Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea diretto da Enrico Sconci e il Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea “Angelus Novus” da me fondato e diretto, negli ultimi due decenni hanno inoltre garantito, grazie alla loro intensa attività espositiva, l’allineamento della cultura visiva cittadina a quella nazionale e internazionale.

I due spazi operavano nel pieno centro storico della città: il sisma li ha chiusi per sempre. Analoga sorte infausta hanno subito le abitazioni e gli studi di quasi tutti gli artisti presenti in questa Rassegna genovese. Più di uno ha perso tutto: opere comprese, sotterrate dalle macerie.

 

Riannodare il filo di una memoria individuale e civica spezzata, ridotta in frantumi.

 

Con questa parola d’ordine si è cercato di motivare gli artisti invitati (la maggior parte dei quali tuttora vive e nel prossimo futuro vivrà tutto il disagio dell’esilio) a non darsi per vinti, a ricominciare. Punto e a capo. Anche con strumenti inadeguati (pennelli, colori, scalpelli…) racimolati qua e là, pur essendo lontani dagli studi, senza computer o libri. Una sfida che all’inizio sembrava temeraria e che invece, in una manciata di giorni, ha preso corpo e consistenza.

Il leitmotiv della Rassegna scorre così lungo l’impetuoso torrente dello sconvolgimento psichico subito personalmente e collettivamente dagli aquilani, mediante un cortocircuito diacronico visuale scaturito dalla giustapposizione, più che dalla fusione, tra il prima ed il poi, con la “messa in mostra” di una sorta di dittico ideale costituito da un’opera realizzata prima del terremoto e da un’altra successivamente.

Un dittico (non solo pittorico) in cui è possibile percepire, per ogni artista, almeno i trasalimenti dell’accaduto, come è avvenuto nel Ritratto di Battista Sforza e di Federico da Montefeltro (1472 ca.) di Piero della Francesca: qui vita e morte si rispecchiano crudelmente, pur se il pathos del dolore è stemperato dai dolci declivi del paesaggio.

Nelle opere proposte non ci sono scorci paesaggistici: è piuttosto la dilatazione dello spaziotempo congelato in quei 120 secondi (dalle 3.31 alle 3.33, appunto) a far emergere – senza peraltro ricorrere ad una facile retorica di matrice espressionista (l’Urlo di Munch) – tutto il disagio esistenziale patito.

La modernità lessicale di questi atipici dittici, è rintracciabile proprio dalla prevalente versione soft della tragedia, quasi gli artisti ne avessero voluto prendere le distanze, per ridare fiato, con una respirazione praticata bocca a bocca, ad una creatività messa tra parentesi. Anche da chi sta scrivendo. È stata dura, molto dura ricominciare: le parole avevano perso consistenza, erano diventate fluide e senza alcun senso. Fuggivano anch’esse in tutte le direzioni, come gli aquilani terrorizzati dal terremoto. Poi, lentamente, lettera dietro lettera, carattere dietro carattere, l’“antica fisionomia” del testo si riappropriava della corposità evaporata.

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A livello anagrafico, la Rassegna è intergenerazionale. Lo zoccolo duro è costituito da quegli artisti che sono sulla scena espositiva da molti decenni: Sandro Arduini, Pasquale De Carolis, Augusto Pelliccione; nella generazione di mezzo potremmo inserire Lea Contestabile, Franco Fiorillo, Stefano Ianni, Carlo Giancarli, Antonio Rauco, Rezakhan, Raul Rodriguez, Angela Rossi; tra i giovani ed i giovanissimi Domenico Boffa, Cristiana Califano, Attilio Cianfrocca, Marco Cardone, Fabio Di Lizio, Danilo Maccarone e Pietro Pelliccione.

Le poetiche e le tecniche dei singoli artefici, rispecchiano quasi sempre le coordinate culturali generazionali.

Nei pittori-scultori Arduini, De Carolis e Augusto Pelliccione, colore e materia sono alchenicamente combinati nella neofigurazione segnico-gestuale di Arduini, robotica e surrealizzante di Augusto Pelliccione, astraente e iperdinamica di De Carolis.

Più sul versante neo-concettuale sono posizionate le fabulatorie opere di Contestabile e le irridenti icone di Fiorillo. Se in Rauco il dato figurativo è riassorbito dentro i binari di una malinconica rilettura della storia dell’arte moderna, nei lavori di Rossi prorompe tutta la musicalità delle covers jazzistiche, mentre in Giancarli l’urgenza dell’immagine schizza da tutti i lati come un fuoco d’artificio; in Ianni, poi, una neofigurazione lievitante ripercorre i labirintici anfratti di un segno-sogno dis/velatore.

Il materiale povero, di scarto, assemblato da Rodriguez e la texture aniconica di Rezakhan (i due artisti trapiantati a L’Aquila, sono rispettivamente, argentino e iraniano), certificano l’ibridante trasversalità dell’arte contemporanea.

Tra i giovani ed i giovanissimi, mentre Di Lizio, Cardone, Cianfrocca e Maccarone vanno a collocarsi sul filone post-pop, poverista e graffitista, con scorribande anche nel digitale, Boffa, Califano e Pietro Pelliccione prediligono quest’ultimo, sia nell’output della fotografia o del video, sia nella circuitazione della più socializzante rete di facebook.

I titoli delle opere non sono mai neutrali. In poche altre occasioni, come questa, hanno reso conto della cesura temporale-esistenziale avvenuta tra le 3.31 e le 3.33. Per tutti, mi limito a citare quello dato ad una delle due opere di Rezakhan: Dal ciclo Divieto di accesso: “Archeologia della memoria”, anno 0 giorni 131, tempera e acrilico + foglia oro + stucco + vuoto + juta di sacco, su parte di uno scaldino in legno donato all’artefice dal Maresciallo in pensione dei Vigili del Fuoco Antonio Salvatore, vittima n° 1 del sisma del 6 aprile 2009, diametro cm.76”.

La mostra fotografica di Danilo Balducci Tra cielo e terra (Under a cloudy sky) è un reportage. Consta di 21 fotogrammi scattati a L’Aquila nel mese di maggio tra tendopoli, macerie, processioni e cimitero monumentale.

Anche in questo caso, la discrezione e la sensibilità dell’artista, si limitano a sfiorare, piuttosto che a

indugiare sul pietrificato dolore degli aquilani e sulle slabbrate architetture.

Avrebbe senz’altro aderito alla Rassegna genovese Ennio Di Vincenzo, recentemente scomparso: la sua luministica figura di uomo e di artista è stata comunque recuperata con l’Omaggio dedicatogli e la presentazione postuma della sua cartella di grafica (stampata nel 2006) recante tre poesie inedite di Edoardo Sanguineti.

Nei magri tempi della scomparsa del cervello collettivo gramsciano e dell’avvento regressivo di quello etilico-cocainomane di matrice leghista-berlusconiana, la Rassegna cerca, alla fin fine, di riaprire le sbrindellate porte a strozzate utopie rivoluzionarie e, perché no, ad empatici sogni volanti.

Non ci sembra poco, nonostante la perdurante sciagura aquilana continui ad essere oscurata dai massmedia: ma, anche dileggiata, con i diversivi favolistici “messi in campo” del ridente sig. b. Felicemente accompagnato nelle sue propagandistiche passeggiate aquilane, da ben due angeli custodi abruzzesi, da annoverare tra i principali “responsabili” delle sue fortune elettorali: il marsicano Gianni Letta e l’aquilano Bruno Vespa.

Nel centro storico della città morta, intanto, ad oltre cento giorni dal sisma, il silenzio degli esiliati umani si fa sempre più assordante.

Dalla costa teramana, un critico aquilano terremotato, 16 agosto 2009

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