Vivere poeticamente vuol dire non strumentalizzare la realtà a sé stessi, ma contemplarla, e immedesimarsi in lei, tuffarsi in lei, in un certo senso diventare lei. Quando ciò avviene la vita diventa eterna, perché ogni momento si carica di senso, e di intensità

di Marco Tabellione

Può la poesia rivelare una utilità pratica? Può l’arte della poesia tornare ad offrire delle indicazioni e delle soluzioni alla civiltà contemporanea, e in ciò affiancarsi a scienza e tecnologia, oggi molto più richieste nello svolgimento di tale compito? Nonostante venga sempre accusata di essere poco pragmatica e addirittura inutile, e il poeta di essere sempre tra le nuvole, in realtà la poesia come arte della parola e della comprensione del mondo ha ancora molto da offrire alla civiltà contemporanea.

Per comprendere ciò occorre però avere il coraggio di assumere sul mondo un punto di vista diverso, inedito, il punto di vista che si ha tra le nuvole, appunto, da cui poter guardare la realtà dall’alto. Il cambio dell’ottica e della prospettiva da cui si guarda la realtà dall’alto consente infatti di passare da una prospettiva collettiva e conformista, che oggi va per la maggiore, ad una visione non tanto individuale, la quale rivelerebbe una sete di affermazione a sua volta conformista, quanto piuttosto ad una visione intrisa di interiorità, vale a dire di individualità in senso junghiano.

Jung, infatti, intendeva per principio di individuazione il viaggio compiuto dal singolo fino alla scoperta della sua autentica individualità, la quale è sicuramente il risultato di interrelazioni, ma anche, e soprattutto, è un processo di auto-rivelamento, auto-scoperta interiore; poiché è in quella interiorità, nell’inconscio definito da Jung appunto collettivo, che si rivela la relazione autentica con l’altro. Questo cambiamento, questo recupero dell’individualità più vera, essenziale, può essere effettuato anche grazie alla poesia, nel senso che l’arte della poesia offre la possibilità di un’esperienza unica, proprio dal punto di vista della rivalutazione individuale.

Il dualismo io-società potrebbe rappresentare una valida chiave di lettura in grado di illuminare le dinamiche di una simile trasformazione. Si tratta, infatti, di una opposizione che da sempre caratterizza le organizzazioni umane, e che l’uomo ha spesso affrontato e ricomposto, magari utilizzando soluzioni sorprendenti come quelle che hanno a che fare con il linguaggio. Non per niente il linguaggio si presenta come un cardine in grado di illuminare non poco il dualismo tra soggettività e oggettività, individuo e collettività. Intendendo il linguaggio però non come strumento di comunicazione, ma come struttura di base e spirituale in contatto con l’essere profondo dell’uomo, l’essere consapevole. Non per niente il linguaggio influenza il nostro pensiero più di quanto si possa pensare, poiché noi formuliamo le nostre idee in una forma evidentemente linguistica, in pratica utilizziamo le parole non solo per comunicare le nostre idee ma anche per dar loro una forma cosciente e razionale; e se ciò è vero allora vuol dire che il linguaggio in fondo influenza la nostra consapevolezza del mondo e ciò che in coscienza crediamo di essere, e, in definitiva, il nostro essere.

Heidegger definì il linguaggio “la casa dell’essere” nella celebre Lettera sull’Umanesimo, dove tra l’altro traccia una difesa inequivocabile della poesia come custode dell’essere, e se ci si riallaccia al fondamento di Essere e tempo che individuava nella dimenticanza dell’essere la negatività principale della contemporaneità, ci si può rendere conto della potenza attribuita all’arte dei versi dal maggior filosofo del Novecento. Poesia e linguaggio possono ricollegarci alla natura più essenziale dell’essere, a patto che però tentino un percorso che non sia solo quello della semplice comunicazione. In effetti anche nella sua funzione eminentemente comunicativa il linguaggio può offrire delle soluzioni all’annientamento dell’io nella società post-moderna, ma perché ciò accada occorre intendere la comunicazione in senso non strategico, come risulta dalla teoria di Habermas. Jurgen Habermas fra i grandi filosofi della scuola di Francoforte, nel suo saggio Teoria dell’agire comunicativo elabora una idea fruttuosa di comunicazione, distinguendola in comunicazione strategica e comunicazione volta all’intesa. La prima è considerata strumentale rispetto agli interessi e ai fini più o meno subdoli dell’emittente, la seconda invece ha come scopo l’intesa, dunque la comunione e l’incontro con il destinatario. Va detto che tra i linguaggi volti all’intesa, secondo il significato di Habermas, si possono annoverare i linguaggi dell’arte e della poesia, i quali svolgono una funzione sia sublimante sia catartica, funzioni che sono riscontrabili anche nell’uso del linguaggio in generale, quando non è sottomesso alle necessità utilitaristiche, ad esempio alla logica del profitto, o comunque ad uno scopo volto al proprio interesse prima che a quello altrui.

La logica mercantilistica, prendendo il sopravvento, ha distrutto il senso del sacro, che pure la religione aveva cercato di difendere, e che la poesia cerca di conservare. Al valore del sacro è subentrato sostituendolo un altro valore: quello del denaro divinizzato, scopo e non più strumento. Il denaro e la logica del profitto agiscono in tensione con l’operosità dell’uomo e con il lavoro creativo, giungendo nel caso estremo a distruggerli. Sotto la pressione e l’urgenza dell’utile, il lavoro non è più espressione o svolgimento di un compito, ma affermazione di sé e strumento di arricchimento. Lo sfruttamento del denaro, che nasce nell’antichità come strumento volto a velocizzare gli scambi, ha sempre avuto a che fare con gli istinti di sopravvivenza degli esseri umani, ecco perché la venerazione del denaro rappresenta una pratica difficile da scardinare, perché è profondamente connessa con i meccanismi di sopravvivenza e di conservazione della specie. Nonostante la contemporaneità sembri aver tolto definitivamente, almeno per le società più evolute dell’Occidente, gli individui dal livello di sopravvivenza, la maggior parte delle persone continua a comportarsi come se fosse ancora vitale la lotta dell’uno verso l’altro. È chiaro che non si vogliono demonizzare le istanze economiche le quali rispondono ad un ancestrale e sacrosanto bisogno di sopravvivenza della specie, ma il problema sta proprio in ciò: si è ormai andati oltre la semplice autoconservazione.

Questa condizione è stata spiegata bene da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo, un saggio ancora attualissimo. Secondo i due filosofi della scuola di Francoforte, la potenza del capitalismo si è espressa ben al di là dei limiti della conservazione della specie, finendo per risolversi nel suo contrario. Secondo l’ottica del saggio l’istinto di sopravvivenza avrebbe generato il capitalismo, in una sorta di riduzione civilizzata dell’istanza istintiva. È vero, il capitalismo tende a stimolare le facoltà degli uomini, la loro imprenditorialità, per dare vita nel migliore dei casi ad una società meritocratica, in cui “chi più è in grado più ottiene”, secondo il motto che mira ad esaltare l’efficacia e la necessità della prestazione e della performance. Ma va detto che tale visione mercantilistica tende a trattare allo stesso modo meriti e bisogni; i quali invece è ingiusto considerare alla stessa stregua. Certi diritti, certi possessi, certe possibilità economiche andrebbero tarate in base ai bisogni, e non in base ai meriti, ed una società, come la nostra, che tende a confondere i due ambiti, finisce per rivelarsi incivile.

Il problema è che la meritocrazia è così radicata nella cura e nei pregiudizi delle persone che è sempre difficile mostrare la sua ingiustizia, così come è sempre difficile mostrare la barbarie che sottostà ad ogni forma di competizione. Perché è indubitabile che la ricerca dei meriti pone sempre gli individui in contrapposizione fra di essi, soprattutto quando i meriti sono esclusivi e sono concretizzati in premi. La meritocrazia dunque non è solo dannosa in quanto non assicura il soddisfacimento automatico dei bisogni di tutti, ma è alla base anche della conflittualità sociale, a volte ritualizzata all’interno degli schemi imposti dalla comunità, altre volte capace di sfociare in drammatiche contrapposizioni. In realtà la lotta e la competizione tra le persone non andrebbero mai considerate come tollerabili all’interno del consorzio umano, e l’ordine civile dovrebbe mirare ad eliminarle o comunque a ridurle, magari a circoscriverle in una dimensione esclusivamente ludica che non comporti l’annientamento dell’avversario. È evidente, del resto, che l’espressione “giocare in borsa” la dice lunga sulla considerazione ludica di un sistema che però, muovendo capitali e investimenti, agisce anche drammaticamente sull’economia e dunque sulla vita delle persone, e definire gioco l’esistenza di famiglie e comunità è quantomeno pericoloso. Per questo la dimensione competitiva andrebbe limitata ad esperienze che sono effettivamente ludiche, come lo sport, o i giochi dell’infanzia.

Sulla possibilità di un ridimensionamento della conflittualità all’interno delle collettività, la poesia, come genere artistico votato alla comunione tra autore e fruitore, può offrire molti suggerimenti. La poesia in effetti attraverso l’uso del linguaggio simbolico pone il lettore sullo stesso piano dell’autore, dando vita ad una osmosi perfetta, un’armonia in cui ogni relazione gerarchica viene abolita. In un certo senso il lettore, poiché per comprendere la poesia la deve decodificare, si fa autore a sua volta. Tra autore e lettore di poesia dunque si crea un rapporto alla pari, poiché l’autore non impone il suo messaggio e il lettore non si limita a subire la creazione del poeta, ma la ricrea, la fa sua. In questa assenza di gerarchia, in questa collaborazione paritaria, per cui si può dire che la poesia vige davvero solo su un orizzonte che accomuna autore e lettore, vige cioè solo sul momento della fruizione, si assiste alla messa in pratica di un tipo di esperienza che sfugge non solo alla subordinazione a cui gli individui sono di solito inevitabilmente sottoposti, ma anche alle logiche dello smercio che alimenta quasi tutti i settori dell’agire umano. Fatto questo assai grave, in quanto la propensione alla vendita influenza la realtà stessa del prodotto. Naturalmente l’eliminazione dell’idea della competizione, della lotta e della gerarchizzazione considerati come valori non è cosa di poco conto, presuppone un’evoluzione di civiltà, un miglioramento culturale verso direzioni che non sono proprio quelle imboccate dal progresso attuale. Occorrerebbe innanzitutto non solo dilatare il progresso, ma anche controllarlo, direzionarlo, finalizzarlo all’individuo, e non alla globalità e a una collettività diventate anti-umane.

Una maniera per avviare un tale rivolgimento degli orizzonti ideologici, potrebbe essere legata ad una riutilizzazione in forma laica del concetto di sacro. Si tratta cioè di giungere ad una nuova definizione del sacro, farlo coincidere con l’individuo stesso, con ogni persona esistente. Se si riuscisse a proiettare il rispetto sacrale dalle forme religiose, ma anche da quelle tardo-borghesi, come il mito del consumismo, sulla persona in quanto tale, e se l’individuo in quanto tale, l’unico di Stirner, potesse essere divinizzato, sacralizzato, come sembra proporre l’invito cristologico a trattare gli altri come se fosse Lui stesso, la vita comunitaria sarebbe più incline all’empatia, alla pace e alla concordia.

Naturalmente tutto ciò trova una grande resistenza proprio a causa del predominio della tecnica, la quale è a sua volta collegata con le urgenze di sopravvivenza presenti a livello biologico nella specie umana; un’istanza irresistibile che tende a creare meccanismi, schemi, razionalizzazioni in grado di assicurare la conservazione della specie. È ciò che ha trasformato la collettività, il vivere comune, la globalità, in una specie di macchina, la quale ha come scopo la conservazione di sé stessa, anche a scapito dei suoi componenti, cioè i singoli individui. Questa meccanicizzazione ha investito anche la scuola, il cui obiettivo è dare vita a studenti preparati, più che formati. Cioè abili più che evoluti, come se la collettività avesse bisogno più di strumenti umani che essere umani. Questo uso strumentale della cultura del resto deriva dal travisamento del significato principale del termine cultura, che ha la stessa radice di coltura, per cui etimologicamente cultura significherebbe coltivazione, cioè crescita, e non acquisizione di abilità o competenze. Ciò porterebbe anche ad una revisione dei concetti di utilità e inutilità. Non è solo utile ciò che è immediatamente spendibile nell’ambito concreto, ma anche ciò che permette delle preparazioni, delle progettazioni, anche in un senso ideale.

Per attuare una simile rivoluzione, che dovrebbe avere al suo centro la sacralizzazione dell’individuo, occorre un processo di presa di coscienza, di conquista di una consapevolezza superiore, capace di penetrare e razionalizzare i meccanismi perversi della collettività. La poesia in ciò può giocare un ruolo preponderante. Poiché è indubitabile che si può giungere alla piena consapevolezza solo mediante l’esercizio del pensiero, dell’idealità e persino del sogno, che sono appunto i fondamenti dell’esercizio poetico. In ciò, inoltre, potrebbe avere un gran peso la fenomenologia dell’illusione. L’illusione funge da traino, da stimolo, porta l’individuo nel campo della idealità, dove è possibile realizzare sé stessi e la propria vita secondo i desideri di ciascuno. La poesia naturalmente si nutre abbondantemente di illusioni. La poesia però coltiva l’illusione con consapevolezza, con il peso della coscienza che non ci abbandona mai, insieme alla lucidità del linguaggio e del pensiero, e ciò consente di credere all’illusione finché si può, finché è possibile cioè utilizzarla come idea, come forza ideale. La stessa auto-consapevolezza dovrebbe poi permettere di evitare, arginare o semplicemente attutire volgendolo in positivo, il dolore del disincanto e della eventuale disillusione. Ciò dovrebbe condurre ad una dimensione affascinata e positiva capace di permettere all’individuo di superare la normale tendenza alla lotta e alla competizione, causate spesso da frustrazioni, da bisogni di riscatto e altre forme psichiche riconducibili ad una basilare inibizione creativa.

Superare la logica della competizione vuol dire anche abbattere le gerarchie che sovraintendono ai rapporti sociali, per cui la lotta tra gli individui finisce per partorire la vittoria degli uni sugli altri, e dunque la subordinazione di questi ultimi e la conquista di un potere da parte dei primi. Superata la condizione gerarchica dei poteri, la relazione tra gli individui sarebbe ricondotta ad una condizione di razionalità e di uguaglianza e dunque di rispetto reciproco, che è appunto l’obiettivo della poesia e della nuova coscienza. Finalmente liberato dalla lotta, l’io potrebbe concentrarsi sui suoi sogni non per forza in competizione con quelli degli altri, cioè potrebbe coltivare i propri ideali senza dover spingersi a distruggere gli ideali altrui, poiché in un mondo pacificato ognuno avrebbe la possibilità di inseguire le proprie illusioni, che sono quelle che fanno bella la vita.

Ma come giungere alla sacralizzazione dell’individuo? Occorre innanzitutto che si raggiunga quella che si è soliti chiamare massa critica, cioè un numero adeguato di illuminati o comunque sensibili alla religione dell’individuo se così possiamo chiamarla, in grado dunque di rendere fruttuosa la diffusione e la comunicazione delle nuove idee, o meglio di una nuova forma di coscienza e consapevolezza in grado di produrre un atteggiamento diverso nei confronti degli altri. Tale atteggiamento parte da una condivisione e immedesimazione negli altri a cui il linguaggio simbolico può dare un contributo unico, proprio perché il linguaggio simbolico presuppone l’unione fra elementi diversi, la comunione tra più individualità. Il linguaggio simbolico dal decadentismo in poi è diventato quasi sinonimo di linguaggio poetico, perché è tipico della poesia abbattere le divisioni e le gerarchie che la ragione oppone alla realtà e considerare la realtà come un tutt’uno, in cui ogni elemento è in contatto con tutti gli altri, è capace di rimandare a tutti gli altri, di ritrovare sé stesso negli altri. Se uso un simbolo, la significazione che intendo scatenare non si limita all’aspetto epidermico e concreto del simbolo, ma investe orizzonti più ampi, e, in ultima analisi, l’universo intero. Non per niente è su questa strada che gli ermetici giunsero a ipotizzare la loro poesia assoluta.

Ma perché si possa compiere questa comunione tra simboli e tra individui, occorre da parte dell’individuo la resa alla realtà, la resa al mondo, o meglio ancora una visione disinteressata del mondo, quella che si definisce come contemplazione. La contemplazione presuppone un rapporto non interessato né strategico con il mondo, un rapporto cioè di osservazione non strumentalizzata. Un rapporto capace di andare oltre il funzionalismo, cioè la riduzione degli elementi della realtà, siano essi paesaggi, oggetti, animali o esseri umani, a strumenti di una funzione a cui adempiere.  La contemplazione realizza così un contatto libero con la realtà e offre la possibilità di immedesimarsi con essa. Attraverso la contemplazione si realizza insomma la vita definibile come poetica. Perché vivere poeticamente vuol dire aderire alla realtà immedesimandosi in lei, pur mantenendo le coordinate della propria individualità. Vivere poeticamente vuol dire non strumentalizzare la realtà a sé stessi, ma contemplarla, e immedesimarsi in lei, tuffarsi in lei, in un certo senso diventare lei. Quando ciò avviene la vita diventa eterna, perché ogni momento si carica di senso, e di intensità. Diviene eterna perché ogni elemento individuale, e dunque ogni uomo, smette di essere solo se stesso e si riconosce nell’altro e negli altri, trova che l’altro e gli altri siano parte di sé ed egli parte dell’altro e degli altri, supera la propria separazione e scopre che l’universo stesso è individuo, cioè indivisibile.

Questa scoperta a cui la poesia può portare con la semplice esperienza della lettura, spinge ognuno a comprendere l’assurdità e l’irrazionalità del conflitto, ad intuire quanto il conflitto con gli altri sia conflitto con sé stessi, e ad attuare immediatamente delle prassi e dei comportamenti finalizzati all’empatia, all’armonia, alla pace, non seguendo l’ubbidienza a regole e leggi imposte dalla paura di una punizione, ma seguendo un dettato interiore, una scelta profonda del proprio animo, insomma una nuova consapevolezza della vita e della vita degli altri.