Il testo, nella sua qualità bidimensionale, non potrà mai coincidere con il suo «avatar» spazio-temporale, che ovviamente ha caratteristiche perennemente mutevoli; tuttavia ogni performance eseguita avrà la capacità di trasfigurare il testo di base, pur conservandone l’unicità e l’identità
di Giovanni Fontana
Partendo dal presupposto che il corpo è il luogo di relazione tra intelletto e mondo, la performance si presenta come una speciale cerniera tra l’individuo e la collettività, dove tutti i segni implicati nella dinamica dell’evento sono organizzati dall’artista in piena libertà, senza dover rispondere a schemi procedurali prestabiliti, senza dover seguire un certo programma piuttosto che un altro, un filo logico piuttosto che un altro, una sequenza tecnica piuttosto che un’altra.
Prendendo come riferimento il concetto di «formatività»[1] di Luigi Pareyson, possiamo affermare che il poeta performer [«colui che fa», il «poietés» (ποιητής), l’artista, colui che opera, colui che trasforma, il poeta d’azione] fa confluire nella performance la forma e il metodo. Di conseguenza dobbiamo ammettere che, nell’azione poetica (nel processo di trasformazione), tutti gli elementi implicati abbiano la stessa dignità: essi infatti intervengono, in generale, indipendentemente da una gerarchia di valori, essendo tutti indispensabili, nello stesso modo, alla realizzazione dell’opera, alla configurazione dell’evento creativo. La nozione di «formatività» appare particolarmente utile se si osserva il percorso costruttivo di un’opera intermediale, dove tutto si deve legare secondo precisi valori, in rapporti stretti, quasi come avviene tra gli atomi in una reazione chimica, ma dove, tuttavia, il gesto e l’azione fanno parte integrante del prodotto artistico.
D’altra parte la «formatività […]è nesso inseparabile di invenzione e produzione: formare significa fare, ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare»[2]. C’è simultaneità, c’è reciproca causalità tra l’idea, l’azione e il metodo, quasi come in un processo alchemico. L’alchimista ricerca, sperimenta, agisce sulla materia, il suo gesto trasforma, dà forma, il suo percorso attraverso tentativi che sfidano il caso dà coscienza e conoscenza. Fare significa, dunque, mettersi all’opera alla ricerca di convergenze materiche, di nuovi equilibri, in un groviglio di conflitti e di corrispondenze, in un sincronico gioco generativo, assolutamente dinamico, dove formare è un «eseguire, realizzare, poiein, ma non qualcosa di predeterminato secondo una regola predisposta, bensì qualcosa che si inventa facendolo, secondo una regola che si scopre nel corso del fare»[3].
Si procede per tentativi, agendo sulla materia in un labirinto di percorsi inestricabili, sempre pronti a correre il rischio dell’imprevisto tecnico e delle sorprese del caso nei meccanismi di senso. Ci si trova quindi totalmente immersi in un processo di creazione e disfacimento, trascinati da una sorta di «furore poetico» di matrice tecnologico-performativa: è la passione dell’ingegno creativo che accende l’immaginazione, ma senza mai perdere il controllo sulla materia linguistica. Materia e forma si connettono nel gesto performativo: esso stesso materia di questa materia e forma di questa forma. Nell’iconologia di Cesare Ripa [1603] il «furor poetico» era rappresentato come un giovane uomo vivace e rubicondo, con la testa alata coronata di alloro e il corpo cinto di edera, mentre scrive con lo sguardo rivolto al cielo[4]. Ma piuttosto che al cielo, il poeta di oggi non deve distogliere l’attenzione dalla specificità materica dei linguaggi. Il suo furore deve essere praticamente tellurico.
Così come è possibile cogliere oggetti di realtà attraverso la scrittura, nell’atto stesso di scrivere (esercizio in cui la scrittura si fa sguardo proprio nel momento stesso in cui viene scritta), così, anche quando si fa (qualcosa), si procede verso la forma, che diventa senso nel momento stesso in cui si fa. È il gesto del fare, quindi, che esalta la condizione dell’essere nel mondo, che è un modo di guardare il mondo e che è un modo di dire il mondo. Il gesto è parola, l’azione è parola, anche nel più profondo silenzio. In questo quadro, quindi, il corpo diventa un palpitante nucleo di senso. D’altra parte, Maurice Merleau-Ponty scrive che il corpo è un nodo di significazioni viventi[5]. Quando poi, tra i diversi elementi in gioco, interviene la voce, le relazioni diventano ancora più dinamiche. La voce si manifesta e trasmette numerose componenti di senso al di là della parola; gli aspetti prosodici e paralinguistici si legano agli elementi linguistici: intonazione, ritmo, intensità. Le qualità melopeiche, logopoietiche e fanopoietiche, nei loro intrecci variabili e nelle loro sovrapposizioni, fanno dell’atto fono-poietico uno strumento che informa e conforma: un vettore configuratore, produttore di senso.
Per quanto riguarda l’insieme testo-voce-pensiero-senso (un insieme che non costituisce una sequenza linearmente ordinata, ma fa pensare piuttosto a un involucro o, a volte, a un sorprendente, assurdo guazzabuglio) appare ancora illuminante Merleau-Ponty quando egli scrive che
L’oratore non pensa prima di parlare, nemmeno mentre parla; la sua parola è il suo pensiero. Allo stesso modo, ciò che l’ascoltatore concepisce non è semplicemente occasionato dai segni. Il «pensiero» dell’oratore è vuoto mentre egli parla, e, quando si legge un testo di fronte a noi, se l’espressione è riuscita non abbiamo un pensiero al margine del testo stesso, le parole occupano tutta la nostra mente, vengono ad appagare esattamente la nostra attesa e noi avvertiamo la necessità del discorso, ma non saremmo capaci di prevederlo e non siamo posseduti da esso. La fine del discorso o del testo sarà la fine di un incantesimo. A questo punto potranno sopraggiungere i pensieri concernenti il discorso o il testo, mentre prima il discorso era improvvisato e il testo compreso senza un solo pensiero, il senso era presente ovunque, ma in nessun luogo posto per se stesso.[6]
Il rapporto tra il testo, inteso come input, come progetto, e l’azione, intesa come performance intermediale che trae energia da quel testo, è, a mio avviso, uno dei temi più interessanti che caratterizzano oggi le arti d’azione. Ho parlato del testo come progetto, perché, in quest’ambito, la scrittura deve dare suggerimenti, deve fornire chiavi, deve aprire porte, deve organizzare percorsi, deve scandire tempi, deve prefigurare spazi. Ma non deve necessariamente assumere forme complesse, ingombranti, articolate come un testo drammaturgico; a volte basta un piccolo disegno (nello spirito della poesia concreta), un dato elementare, una nota, una sola parola, una manciata di fonemi, un segno illuminante. A volte ho fatto lunghe esibizioni, variamente articolate, partendo da una singola lettera o da una sola parola. In questo campo Arrigo Lora Totino è stato un maestro. Adriano Spatola ha basato tante esibizioni su un semplicissimo chiasma concreto: solo due parole disposte in modo incrociato. Ma come dimenticare i “poèmes affiches” di Raoul Hausmann, dove il flusso sonoro scaturiva da un piccolo gruppo di lettere?
Portfolio (Giovanni Fontana)
Si potrebbero citare molti altri poeti sonori che hanno lavorato a partire da poche lettere. Ma mi piace soprattutto ricordare la particolare interpretazione che Arrigo Lora Totino è riuscito a dare rivisitando Fisches Nachtgesang di Christian Morgenstern (Poema del silenzio per eccellenza), dove i movimenti della bocca generavano suoni labiali infinitesimali corrispondenti a segni prosodici fluttuanti in una pagina senza testo e dove, contemporaneamente, le labbra riprendevano le forme geometriche di quei segni.
Come è facile intuire, il testo ha un valore fondamentale, anche quando è ridotto all’osso, alla quasi totale inconsistenza, ai limiti del silenzio, anche quando non restano che poche tracce materiali di scrittura, ma sussiste un’idea da elaborare e sviluppare, anche quando il campo di intervento riguarda l’espressione non verbale. Questo per dire che al di là di ogni possibile consistenza testuale, quando la scrittura è volutamente dedicata all’espansione, la performance è da considerarsi come lo sviluppo di un progetto che mobilita il corpo e lo guida nella sfera multisensoriale.
Nell’idea di Arthur Rimbaud, ad esempio, la poesia mobilita tutti i sensi. Il poeta inventa il colore delle vocali. Regola la forma e il movimento di ciascuna consonante. Applica al linguaggio un metodo vicino all’alchimia per inventare un verbo poetico accessibile a tutti i sensi, che non è più solo rappresentazione della realtà ma nuova verità. Come l’alchimista, nel suo silenzio notturno, vuole cogliere l’inesprimibile e fissare vertigini[7].
Ma il meccanismo della percezione si pone come una festa dei sensi (al di là delle suggestioni sinestetiche di risonanza puramente mentale, squisitamente ripiegate sul testo) e rappresenta il principale responsabile della materializzazione delle forme nell’azione performativa, se non altro perché la sollecitazione mentale segue immediatamente quella che coinvolge gli impulsi viscerali e il battito cardiaco, la vibrazione muscolare, fino al fremito, al brivido a fior pelle. Si attivano sequenze di input, che sollecitano e orientano l’azione. Ciò è evidente nella poesia d’azione, dove il testo, con i suoi valori ritmici, genera e guida l’articolazione vocale e il movimento del poeta. Possiamo pensare alle performance di Serge Pey. Ma a volte è vero il contrario, quando il gesto e la cadenza del corpo alimentano la voce. A tal proposito, al convegno «Arte Orale – Poesia, musica, performance», tenutosi allo IULM di Milano nel 2019, Nicola Scaldaferri (dell’Università degli Studi di Milano) ha fatto riferimento allo strano rapporto tra memoria, voce e movimento nei vecchi cantori epici del Kosovo. Seduto di fronte a un intervistatore, anche se a suo agio, il cantore non riusciva ad articolare in modo adeguato e completo le composizioni del suo repertorio orale; lasciato libero di muoversi e di scandire i suoi passi, in quella che si presentava come una sorta di promenade creativa, che, evidentemente, a tutti gli effetti è parte integrante del flusso voco-orale, ha correttamente formulato tutti i poemi della tradizione locale[8]. Ma, certamente, in questo caso la situazione è molto diversa da quella in esame. Qui non c’è scrittura. Il testo è puramente orale: viaggia sulle ali della memoria naturale. Quando il testo è invece affidato alla memoria della scrittura e deve staccarsi dalla bidimensionalità della pagina per attraversare il tempo e lo spazio, allora le cose cambiano. La scrittura supporta la composizione verbale, non solo dal punto di vista semantico, sintattico e pragmatico, e ovviamente ritmico e sonoro, ma anche visivo, plastico, gestaltico. In questa prospettiva anche l’immagine del testo fornisce la spinta per il salto performativo. Per semplice curiosità scientifica, possiamo citare la ricerca di Raoul Hausmann al riguardo. L’artista dadaista viennese aveva inventato un dispositivo, l’optophone[9], che trasformava le onde visive in onde sonore e viceversa. La scrittura, quindi, avrebbe potuto trasformare le impressioni visive e corporee in materiale sonoro. Oggi, nell’elettronica, questa pratica è diventata molto semplice. Basta un’interfaccia. Tuttavia qui vogliamo ragionare con un altro spirito: ci interessa principalmente l’impressione diretta sui nostri sensi, senza alcuna mediazione. Si pensi, per esempio, alla scrittura optofonetica, nel senso più semplice e immediato, attraverso la quale si possono suggerire corrispondenze tra testo e voce, tra testo e azione, adottando caratteri e corpi diversi, cornici cromatiche e strutturali per cui l’estensione vocale oppure i tempi di esecuzione possono essere regolati in modo compatibile. È particolarmente interessante avvicinarsi a questa tecnica di scrittura anche al di là di rigorose codificazioni. Ad esempio, un carattere scritto in una dimensione molto grande può corrispondere a un volume alto, una dimensione piccola può corrispondere a un volume basso; un’iscrizione in minuscolo e un corsivo sottile può corrispondere a un sussurro, mentre una sequenza straziante di caratteri che fuggono in prospettiva può corrispondere a un urlo perduto nello spazio. In questo campo, i creatori di fumetti e le loro spalle che si occupano di letterling sono diventati grandi maestri della libera interpretazione. Ma, per fare riferimento ai codici, è sicuramente utile e interessante ricordare il lavoro degli americani Ernest Robson e Larry Wendt. Nei loro scritti di “musica fonetica” (una particolare area della poesia sonora), adottano una notazione prosodica che esprime la durata dei fonemi in base alla lunghezza delle lettere; l’intensità attraverso la densità dei caratteri più o meno pronunciata; il tono attraverso l’innalzamento o l’abbassamento delle vocali e le pause attraverso la lunghezza dello spazio bianco. La sovrapposizione delle vocali indica una modulazione del tono[10].
In uno dei più grandi capolavori della poesia, Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, Stéphane Mallarmé aveva già sovvertito i confini della pagina, immergendo in un abbagliante silenzio teatrale dei testi che anticipavano lo spirito opofonico. È nel 1897 che il poeta consegna alla rivista “Cosmopolis” la sua opera più singolare, quella che, più di tante altre, avrebbe segnato i percorsi poetici del Novecento. Lì, il testo assume per la prima volta una nuova forma tipografica. Si dispone liberamente sulla pagina, occupando gli spazi secondo i ritmi che la logica della composizione vuole regolati con cura, rispettosi del vuoto, del bianco della pagina. Qui, infatti, i bianchi sono di fondamentale importanza. Suggeriscono silenzi e ritmi di silenzio. «Les blancs» invadono la composizione; fungono da guida, ma allo stesso tempo si pongono come un grande sfondo, così che il verso assume la forma di una costellazione che si muove sulla pagina. Realtà del nero: realtà del bianco. Il nero dell’inchiostro tipografico ha la stessa dignità del bianco della pagina. Il pieno ha la stessa importanza del vuoto. Il foglio di carta acquista un valore poetico che non ha mai avuto prima. La pagina si presenta nella sua unità, in visione simultanea, ma nello stesso tempo si lascia attraversare all’interno, tra il bianco e il nero, come una vera e propria partitura musicale, dove il pensiero messo a nudo si carica di valori tonali, di linee sonore. Le variazioni del carattere tipografico suggeriscono al lettore l’intensità della parola parlata; l’inquadratura del testo sulla pagina, in posizione alta, media o bassa, indica un’intonazione verso l’alto o verso il basso. Mallarmé sostiene la ricerca poetica nel campo del verso libero e del poema in prosa sotto il segno della musica, facendo sì che certi procedimenti entrassero a pieno titolo nell’universo delle lettere. Il poeta se ne appropria per plasmare il corpo sonoro delle parole e nello stesso tempo assegnare al silenzio un valore linguistico; introduce nella composizione pause variamente articolate, estese oltre le convenzioni della punteggiatura, così da sviluppare una nuova struttura poetica che finirà per amplificare, in direzioni fino allora imprevedibili, gli spazi della prosa. Mallarmé attribuisce una forma al tempo attraverso la forma dello spazio. La bidimensionalità si apre alla terza e quarta dimensione. A questo punto la reciprocità grafica (da sempre appannaggio della musica) diventa patrimonio della poesia. Ecco, infatti, che il valore del bianco della pagina (inteso come silenzio o come pausa di respirazione), ma anche il valore del segno tipografico nelle sue qualità formali (corpo, carattere, disposizione, ecc.), assumeranno un peso fondamentale, in tutta la ricerca poetica del Novecento, per arrivare ai nostri anni. Se, da un lato, l’avventura formale dell’arte moderna sarà «sempre tentata dall’assenza, dal silenzio, dalla pagina bianca, intese non come fallimenti, ma come realizzazioni assolute di un voler sentire solo l’essenziale»,[11] dall’altro, la rinuncia alla linearità della disposizione tipografica tradizionale e alla composizione visiva del testo costituiranno le premesse per l’introduzione nel campo letterario di nuovi concetti tecnici che avranno l’effetto di coinvolgere nella «lettura» tutti i sistemi sensoriali.
Nessuna delle avanguardie emergenti potrà ignorare la lezione di Mallarmé, tanto più che da un lato la crescente generalizzazione della comunicazione non verbale, dall’altro la spinta dei poeti a cimentarsi in questo tipo di comunicazione, porteranno gradualmente a un nuovo modo di concepire il testo, inteso come territorio di intersezione delle arti, come luogo di contaminazione. All’inizio del secolo i segni del linguaggio invertono i rapporti di comunicazione lineare: viene annullata anche la necessità di trasmettere un senso logico. Le avanguardie storiche hanno teorizzato e prodotto modelli visivi e sonori del linguaggio, ribaltandone le funzioni. La manipolazione del linguaggio, inteso come «materia» e non come strumento di comunicazione, diventa un principio stilistico costante. Tutto ciò appare esaltato nella scrittura verbo-visiva, nei poemi-partitura e in molte forme di scrittura multimediale. Al primo impatto, prevalentemente visivo, l’occhio sembra trovare soddisfazione, fino a quando non si accorge che, all’interno dell’opera, giocano un ruolo visivo anche segni di estrazione molto diversa, come la parola o la notazione musicale. Solo allora questi elementi prestati al gioco visivo vengono interpretati secondo i loro codici specifici. Quindi la parola viene letta e la notazione musicale riferita ai suoni. Ma poi sono i suoni che si presentano come parole e le immagini che si presentano come suoni, e così via. Si tratta di nuove dimensioni: si aprono nuovi spazi e altri sistemi.
La «lettura» avviene secondo differenti intuizioni e attraverso un confronto costante di segni, ciascuno proponendosi a più livelli interpretativi. Il percorso della percezione diventa allora molto tortuoso, fatto di continui andirivieni. E tutti i sensi possono essere coinvolti, direttamente o indirettamente, in questa avventura. Dietro gli esercizi di notazione si intercettano dimensioni acustiche, dietro la parola si aprono veri e propri orizzonti sonori, così come le sensazioni tattili possono corrispondere ai possibili valori materici e plastici di superfici e volumi. Insomma, la «nuova scrittura»,[12] specie se verbo-visiva, riesce ad innescare meccanismi che rendono effetti di tale ambiguità da confondere il lettore, che dovrà sperimentare associazioni diverse, tentare decostruzioni e ricostruzioni, intraprendere percorsi diversificati, nel tentativo di uscire dall’avventura che sta vivendo. È come se l’artista, un nuovo Dedalo, avesse voluto creare per il lettore esperto un labirinto di ambiguità sensoriali per la realizzazione di un viaggio iniziatico.
Sottolineando le prodigiose valenze di una sensibilità acuta e raffinata, Novalis osservava che «la magia è l’arte di usare arbitrariamente il mondo dei sensi»[13]. La sua lezione, ma anche quella dei suoi «fratelli elettivi»[14] Hugo, Nerval, Baudelaire, Lautréamont, Rimbaud, Mallarmé, che è stata pienamente accolta dalle avanguardie del Novecento[15], arriva fino a noi, investiti come siamo da un flusso continuo di sinestesie generate dall’universo tecnologico interattivo odierno, che ci immerge in una virtualità labirintica. Ci troviamo a dover seguire le parole in immagini e le immagini in parole: i segni si estendono nel tempo e nello spazio; parola e immagine diventano voce e gesto.
La voce, il respiro, il «flatus» sono elementi fondamentali nella ricerca poetica, e più in generale nell’arte della performance. Per fortuna sono in molti a pensare che non sia più sufficiente, oggi (io l’ho sempre pensato), considerare la poesia come una forma di creazione artistica legata esclusivamente alla tipografia, o almeno a una scrittura inchiodata una volta per tutte a un foglio di carta. Fortunatamente oggi la poesia vola nella fonosfera. Ma qualcuno vuole ancora una scrittura muta, immersa nel silenzio, forse temendo una certa destabilizzazione dei poteri o semplicemente avendo antipatia per lo scandalo della vocalità, compromessa nel chiacchiericcio mediatico, come se alla vocalizzazione del testo corrispondesse una volgare desacralizzazione e come se al silenzio tombale della pagina corrispondesse un aura sacra. Inoltre, la voce assume un significato chiaro nell’ambito della politica di comunicazione per la forza del suo impatto, soprattutto se è immediata, diretta.
Sappiamo che la voce in sé ha un senso (nel bene e nel male), è una presenza attiva, quindi «temibile», soprattutto se contiene germi antagonisti. In generale, le pratiche associate a quella che è stata chiamata la «nuova oralità» innervano il repertorio di una schiera di artisti che certamente non lavorano per generare consenso nei circoli mainstream. Basti pensare allo spoken word o al poetry slam.
Questo modo di vedere (o meglio di ascoltare) ha incontrato nel tempo forme di ostracismo (soprattutto in certi circoli accademici, popolati da critici sordi e poeti muti). Ma, comunque si voglia affrontare la questione, c’è sempre il fatto (inequivocabile) che la poesia è soprattutto un fatto sonoro (ritmico e fonico).
Il testo, per tutti coloro che hanno scelto di confrontarsi con le nuove dimensioni orali, non può che essere uno spartito, perché la «musica» è tutta dentro il testo e bisogna saperla estrarre. Non si tratta di inventare una melodia di accompagnamento. Musica di sottofondo, come spesso sentiamo. Ovviamente sarebbe una banalità. Un errore imperdonabile. Si tratta, al contrario, di organizzare e armonizzare il flusso sonoro insito nella struttura testuale attraverso l’uso sapiente della voce (strumento principe, generatore di senso).
È la voce che sostiene il testo, ma che può anche abbandonarlo temporaneamente, dissolverlo nello spazio, zittirlo, o scomporlo in gruppi di fonemi, in frammenti infinitesimali di corpi sonori, in «particulae» volanti, in germi temporali, in pure vibrazioni capaci di riorganizzarsi attorno a un concetto, un’idea, con un gesto poetico supplementare, in una sorta di corpo glorioso, che diventa corpo di poesia. Tutto questo deve essere fatto senza mai perdere di vista il progetto, senza mai perdere il controllo della situazione performativa, che è (ripeto) essenzialmente una riscrittura in termini spazio-temporali, sonori e non solo, che fa i conti con i metri, misure, durate, pause, cesure.
In questa prospettiva, il testo è un pre-testo. E un pre-testo, per un poeta-performer, deve essere sempre affidato al flusso orale (pur non escludendo momenti speculativi di lettura mentale) tenendo conto del fatto che «la grana della voce» di cui ci parlava Barthes ha un peso fondamentale nell’atto creativo, come tutti i parametri legati alla qualità del suono (timbro, volume, armonie, riverberi, ecc.). La poesia nasce con il teatro e implica un’esecuzione. Ma ovviamente, fare operazioni come queste non significa solo creare poesia sonora. Per me questo significa fare poesia tout court, che, nell’accezione più corretta, ha una dimensione performativa: una dimensione necessaria. D’altra parte, la nozione di poesia sonora è legata a un passato storico segnato da volontà dissacratrici rispetto al linguaggio allora corrente, ritenuto usurato e compromesso, obsoleto e inefficace. Ciò aveva spinto alcuni poeti, particolarmente attratti dalle risorse delle tecnologie magnetofoniche, a lavorare quasi come musicisti concreti. Nel mio lavoro ho sempre sostenuto la funzione del testo, ne ho sempre difeso l’importanza, anche se, in certi casi, l’ho ridotta all’osso, a una parola, alla sola idea di progetto, appunto. E in quei casi, allora, ecco che scatta la registrazione diretta su nastro o l’improvvisazione totale.
Queste tipologie operative hanno caratterizzato stili e scuole di pensiero. Ad esempio, François Dufrêne ha lavorato sull’improvvisazione, Henri Chopin si è impossessato del magnetofono per creare composizioni direttamente su nastro, mentre Bernard Heidsieck ha sempre considerato i suoi testi come trampolini di lancio per tuffarsi nello spazio-tempo.
Ma c’è di più, perché il testo è un organismo vivente che inizia a palpitare ogni volta che entra in relazione con il performer. Ciò avverrebbe in realtà anche nella relazione con un semplice lettore, se si considera la mobilità naturalmente insita nel testo: una sorta di vibrazione innescata sulla pagina dalla forza del nostro cervello, che allo stesso tempo funge da cassa di risonanza, per ulteriori elaborazioni. Si tratta dell’indeterminazione del rapporto tra espressione e contenuti, più volte teorizzata, che assicura la dinamicità del testo, strutturalmente ambiguo, instabile e, proprio per questo, sempre fonte di sorprese, di risultati inattesi. Del resto questa mobilità è ormai ampiamente condivisa. Serge Pey, per esempio, nelle sue «Storie sarde», la attribuisce perfino alla sapienza popolare espressa per bocca del curioso personaggio di Zia Bachisia: «Non bisogna credere che un libro sia immutabile, come se fosse stato scritto su una lastra di marmo. Un libro è un essere vivente. Un libro è infinito e si riscrive in maniera differente ogni volta che lo si rilegge. Ciò che è raccontato si modifica in funzione dei tempi e dei luoghi in cui il libro viene sfogliato. […] Un libro è un essere vivente che reagisce agli spazi, alle stagioni, agli amori e perfino alle sedie sulle quali ci sediamo per leggere. È una finestra o uno spiraglio che inventa la sua casa e le sue segrete, un corridoio che i luoghi si scelgono per entrare in sé stessi»[16].
La composizione testuale trae nuova energia da ogni nuovo incontro. Ma ogni relazione che si instaura rappresenta un’opportunità per la rigenerazione del testo, che, pur non modificando la sua struttura sequenziale di segni, subisce una sorta di rimodellamento. Se la scrittura è segnare il mondo e aprirlo al senso, la lettura e la rilettura indagano nella scrittura per rinnovarne il senso. Il testo è, sì, una specie di partitura, ma, entrando nell’azione performativa, assume un ruolo strutturale specifico. L’esecutore agisce sugli «input» testuali; istantaneamente la scrittura, richiamata dalla sua voce (dalla sua azione), assume una funzione plastica nel dominio dello spazio-tempo. È un gioco sincronico, in cui il performer dà slancio all’organismo testuale inerte, ma nello stesso momento l’organismo testuale alimenta l’attività del performer, il quale, rilanciandosi, rimodella il testo, a tal punto che ad una lettura ulteriore, pur apparendo identico, non sarà mai più lo stesso.
È un gioco di ruolo che si svolge con sostegno reciproco. Il testo, nella sua qualità bidimensionale, non potrà mai coincidere con il suo «avatar» spazio-temporale, che ovviamente ha caratteristiche perennemente mutevoli; tuttavia ogni performance eseguita avrà la capacità di trasfigurare il testo di base, pur conservandone l’unicità e l’identità.
Potremmo prendere l’esempio delle api, dove un organismo si manifesta con strutture e funzioni sociali diverse da forme con lo stesso genoma. L’ape regina che genera un intero alveare o l’ape operaia sterile provengono da embrioni identici. Insomma, in questo tipo di performance poetica, registriamo un processo evolutivo del testo secondo l’esperienza performativa e viceversa.
Sappiamo che per la vita di un organismo non sono importanti solo i geni, ma anche tutti i meccanismi che governano l’espressione genica. Nel miracolo epigenetico, che è continuamente influenzato dai rapporti con l’ambiente, l’esperienza è impostata dai processi di metilazione del DNA. Allo stesso modo, la performance costruisce un nuovo codice, il codice epigenetico, che dà origine al poema spazio-temporale, utilizzando quello che potremmo chiamare DNA testuale, cioè il codice già noto, il codice genetico.
Il testo (o meglio il pre-testo), apparentemente sempre identico a sé stesso, è lì in attesa di una lettura, una rilettura, una ricostruzione epigenetica, attraverso tappe più che interpretative, anche plastiche, che costruiscono e ricostruiscono il poema spazio-temporale. Nel processo, la variabilità delle condizioni del contesto, incluso ogni eventuale incidente, le luci e le ombre, gli ostacoli, i viaggi, il pieno e il vuoto, i rumori e i silenzi, le fasi interpretative, la verve dell’improvvisazione, la variabilità dell’azione performativa (da cui il «furor poetico», cui si accennava prima) portano a risultati di volta in volta diversi, tutti riconducibili in seconda, terza, ennesima misura al pre-testo, che ne trae vantaggio. Il pre-testo avrebbe quindi la capacità di trattenere gli echi provenienti dal suo analogo dinamico. Si tratta, quindi, di un gioco cooperativo con uno specchio prospettico, anche anamorfico. È infatti un errore pensare che di fronte alla fluidità dell’evento performativo ci sia l’immobilità di una pagina testuale. La statica è solo apparente: la pagina si rinnova completamente ogni volta che il poeta affronta una nuova performance. L’azione implica necessariamente una lettura rigenerativa, che coinvolge il dato nel vortice delle esperienze. Il testo genetico è controllato dall’azione e quindi dall’ambiente in cui viene trasferito. Potremmo praticamente dire che, anche per il testo, è fondamentale il «modo di vivere», definito di volta in volta dal modo di leggere, già modificato dalle esperienze precedenti. In pratica, ogni esercizio di lettura, ogni esecuzione è inscritta nel testo che, proprio per lo slancio sempre nuovo che dà all’esecuzione, conserva la sua qualità di pre-testo. Mentre l’organismo e l’ambiente creano interazioni cooperative, il testo preliminare e la dimensione della performance si sviluppano insieme. Come in biologia, abbiamo il controllo epigenetico della situazione. Il lettore può leggere l’impronta originale per ristrutturarla di volta in volta e produrre qualcosa di diverso: qualcosa che non solo si mostra diverso, ma che lo è, in pieno, in tutta la sua struttura materiale. La forza trainante del processo è quella ingaggiata dal poeta-performer, che in questo quadro si trasforma in un poliartista. Si appropria delle pratiche elettroniche e videografiche, del cinema, della fotografia, dell’universo sonoro (oltre la musica), della dimensione teatrale (oltre il teatro), dell’universo ritmico. Agisce poeticamente utilizzando tutte le tecniche, tutti i media, tutti gli spazi, senza rinunciare a ricondurre nell’equilibrio creativo il proprio corpo, quindi il suo gesto e la sua voce. Sono questi gli elementi che, legati alle nuove tecnologie, alimentate dal substrato energetico dell’elettronica, anche riorganizzato in una dimensione digitale, costituiscono la base del nuovo atteggiamento poetico.
Il poeta diventa il materiale stesso della poesia: cresce con la sua stessa poesia, o meglio, con le due facce della poesia: il pre-testo e il poli-testo dinamico. Le due facce della stessa meraviglia alchemica.
Certo, non è da trascurare che questi eventi, tutti questi processi, avvengano in un contesto ambientale, di cui il poeta è necessariamente un recettore, ma nel quale è anche colui che effettua i rilanci. La sfera della creatività poetica sarà quindi contenuta in diverse sfere, in molteplici e complesse combinazioni, al punto da potersi produrre anche in una prodigiosa ipersfera dove la dimensione digitale può giocare un ruolo di primo livello.
Ecco allora che, nel rapporto testo-azione, i tratti distintivi delle forme risiedono proprio in un meccanismo di tipo epigenetico, che fornisce tutta la memoria dell’esperienza. Memoria tangibile che si materializza nel linguaggio, in tutte le sue forme, tanto che, rispetto alla struttura «genotipica» del pretesto / partitura, si possa parlare, per le fasi evolutive spazio-temporali, di poesia epigenetica.
[1] Luigi Pareyson, Esistenza e persona, Genova, Il Melangolo, 1985, p. 222. La nozione di « formatività » è stata introdotta a da Luigi Pareyson. La « formatività » non è un mezzo, ma un fine in sé di ogni esperienza umana.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Cesare Ripa [1560-16045], Iconologia, ouero, Descrittione di diuerse imagini cauate dall’antichità, & di propria inuentione, In Roma: Appresso Lepido Facij, 1603, p. 178 [Getty Research Institute].
[5] Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione, Milano, Bompiani, 2003, p. 216.
[6] Id. p. 250.
[7] Arthur Rimbaud, Œuvres complètes, Une saison en enfer, « Délires II Alchimie du verbe », Paris, Librairie générale française, 1999 (1873), p. 428.
[8] Nicola Scaldaferri, Il canto dei passi. Voce e ritmo del corpo nella performance dei canti epici del Kosovo. Si attende la pubblicazione degli atti del convegno.
[9]Il congegno è stato brevettato, ma mai realizzato.
[10] Ernest Robson & Larry Wendt, Phonetic Music with Electronic Music, Primary Press and Dust Books, Parker Ford (PA) and Paradise (CA), 1981.
[11] Mario Perniola, Del sentire, Torino, Einaudi, 1991.
[12] «Nuova scrittura» : definizione di Ugo Carrega.
[13] Novalis, Frammenti, in Opere [a cura di Giorgio Cusatelli], Milano, Guanda, 1982,p. 560.
[14] Gustav. R. Hocke, Il manierismo nella letteratura, Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 157.
[15]Basti pensare al Surrealismo e al Dadaismo, ma anche al Futurismo, all’ambiente Bauhaus, alla cerchia dello Zaum russo, ecc. e in particolare ai nomi di Breton, Artaud, Marcel Duchamp.
[16] Serge Pey, Histoires sardes d’assassinats, d’esperance et d’animaux particuliers, Le Castor Astral, Begles, 2017.
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