New York, dicembre 1950

A stento credevo ai miei occhi nel vedere il mio nome e il mio incubo, il mio kholem, trasformati in una storia di letteratura fantastica – resa anche in modo piuttosto inattendibile, a mio modesto parere – e mischiati ad elementi biografici della sua vita privata

di Luigi Fabio Mastropietro

Mi chiamo Gregor Samsa e sono famoso – o forse dovrei dire famigerato – come l’uomo scarafaggio oppure l’uomo piattola. Non ricordo bene, ma mi piaceva quando la gente, scherzando, mi diceva che per essere una blatta ero proprio un bell’uomo.

Certo, lo ammetto, non è la stessa cosa che dire “sono stato un famoso inventore” o “un presentatore di telequiz”. Oh, dear God! di scarafaggi e lombrichi travestiti da presentatori televisivi ce ne sono tanti. Pure, lasciatemi dire che sono orgoglioso di questa mia fama, in un certo senso. Se non altro sono passato alla storia come il primo ebreo del ghetto di Praga che sapeva camminare sul soffitto della propria stanza. So di qualche concittadino che ha tentato inutilmente di imitarmi trent’anni più tardi, dopo che la Gestapo aveva sfondato il portone del suo caseggiato. Per mia fortuna in quei giorni mi ero già trasferito a New York da molto tempo.

Ma andiamo con ordine. Doveva essere nell’inverno del 1912, quando il mio nome fu destinato a finire sulla ribalta mondiale a causa – potrei dire – di un sogno arrivato durante una notte piuttosto agitata, dopo un’abbondante cena ungherese a casa di certi amici. A quell’epoca il mio amico Franz conduceva una vita piuttosto grama. Mi sembra ancora di vederlo con quelle sue enormi orecchie a sventola, il colorito terreo di un meysim e il respiro rantolante. Ricordo ancora quando andai a trovarlo a pochi passi da casa mia, in quella cantina grigia e maleodorante sull’Alchimistengasse che lui chiamava pomposamente “la mia dimora”. Scendendo le scale alla luce tremolante di una candela rischiai di rompermi una zampa, voglio dire una gamba.

Povero Franz! Era veramente disperato: il suo terribile padre, Hermann, una specie di patriarca dell’apocalisse con una gran barba scura e gli occhi fiammeggianti e che sembrava più un rabbino Haredì che un commerciante, lo aveva cacciato di casa perché diceva di non sapere cosa farsene di un figlio inetto e fuori di testa, uno che invece di pensare a costruirsi una vita decente, a ventinove anni suonati passava il suo tempo a rosicchiarsi le unghie con una penna in mano, senza mai combinare niente di buono.

E già, perché il mio buon Franz in quel periodo pensava di lasciare un eccellente e sicuro impiego presso Le Assicurazioni Generali di Boemia – che io stesso gli invidiavo – per fare lo scrittore a tempo pieno, nonostante fosse tutt’altro che una miniera di idee e nonostante non avesse praticamente pubblicato ancora niente. Ditemi voi se si può essere più matti di così.

Ricordo anche che più di una volta, mentre parlavamo seduti su due seggiole mezzo spagliate intorno ad un vecchio scrittoio di quercia con sopra l’unica candela dell’interrato, il suo respiro si faceva più affannoso e, incassando la testa nelle spalle come per difendersi da un nemico invisibile, mi chiedeva improvvisamente di fare silenzio: “Li senti? Sono qui! Tutt’intorno …”.

Portfolio (Opere di Mario Serra)

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E, quando gli rispondevo di non udire proprio niente, cominciava ad agitarsi e a tremare tutto: “Come non li senti? Zampettano nei muri … corrono sotto il pavimento. Sono in tanti, sono legioni! Presto o tardi verranno fuori a decine e mi divoreranno!”.

Già perché Franz aveva una paura fottuta, oh, pardon me, volevo dire un’inguaribile fobia per i topi.  Li vedeva dappertutto, allineati in squadroni della morte pronti ad attaccarlo.  Allora io gli chiedevo di risalire alla superficie, alla luce e all’aria pulita, di fare una passeggiata nel ghetto che era anche una bella giornata per essere inverno e magari di bere una birra da U Fleků, vicino al Teatro Nazionale, che gliel’avrei offerta volentieri, ma lui niente, si irrigidiva e mi diceva con lo sguardo fisso sui muri: “Ma non capisci? Non posso muovermi di qui. Mai! Altrimenti vengono fuori tutti e diventano loro i padroni!”  Oh, Mame lib! Diceva proprio così, il mio povero Franz, diventano loro i padroni, come se si trattasse di una disputa condominiale tra lui e i topi del ghetto.

Fu proprio durante una di quelle allucinanti visite di fine dicembre del 1912 che gli raccontai del kholem, o meglio dell’incubo tanto vivido, che avevo fatto al mattino, certamente un effetto indesiderato della cena della sera prima. Veramente avevo alzato un po’ il gomito, come suol dirsi.

Ero stato a casa di certi colleghi di origine ungherese che vivevano fuori del ghetto e che spesso incontravo per lavoro – io facevo il commesso viaggiatore per una grande ditta di lucido da scarpe – e avevo fatto onore alla buona cucina di Ilse, la consorte di uno dei miei colleghi, che aveva preparato un’irresistibile cena a base di gulyás, crauti e birra scura alsaziana.

Raccontai a Franz che avevo sognato di risvegliarmi trasformato in un enorme insetto, uno splendido esemplare ciclopico di coleottero dalla lucente corazza antracite e con una miriade di antenne e antennine che vibravano palpando l’aria.

Come raccontai a Franz, il vero problema del sogno fu che io non sapevo di stare sognando, al contrario sentivo lucidamente di essermi appena destato in quelle condizioni dopo una notte di sonno piuttosto agitato. Infatti fu proprio il ricordo presente nel sogno degli altri sogni precedenti, incubi confusi avuti quella notte che sul momento mi diede la netta impressione – meglio, la certezza – di essermi appena svegliato trasformato in uno scarafaggio.

Franz, che all’inizio del nostro colloquio aveva tenuto il solito atteggiamento distaccato e assorto, si animò improvvisamente quando sentì della mia metamorfosi onirica e i suoi occhi neri e incavati si accesero di una luce febbricitante. Allora cominciò ad interrogarmi con insistenza su tutti i particolari del sogno e volle sapere quanto fosse durato – cosa che non seppi dire – e che cosa avessi percepito nelle membra e se nel sogno mi fossi alzato per guardarmi allo specchio e mille altre cose.

Da parte mia potetti solo dirgli che la sensazione di realtà era talmente violenta e scontata che la certezza di vedere la mia stanza come scomposta in un caleidoscopio vorticante e di avere al posto di mani e braccia due gruppi – molto funzionali in verità – di quattro lunghissime zampe articolate ed estremamente mobili, a momenti mi fece perdere il lume della ragione, oltre che scoppiare le coronarie. Per non parlare della montagna rossastra e pulsante che in quel momento era il mio addome. Gonfio come un dirigibile e protetto lateralmente da grandi, lucide scaglie corvine che danzavano su e giù al ritmo del mio respiro. Dissi anche a Franz che tentai, con un estremo dolorosissimo sforzo della volontà, di riprendermi dalla paralisi totale che mi aveva afferrato e di aggrapparmi a quella che – anche nel sogno – mi sembrava l’unica speranza di salvezza: lo specchio del mio armadio.

E fu proprio tentando di spostare quel corpo così alieno da me e nello stesso tempo così atrocemente mio, per raggiungere lo specchio che era posto lateralmente al mio letto, fu proprio per lo sforzo sovrumano di muovere quello spaventoso addome rigonfio – non so attraverso quali muscoli – per rotolarmi fuori dal letto e salvarmi recuperando la mia vera immagine allo specchio, fu proprio per quell’innaturale movimento che caddi dal letto e mi svegliai – sì, mi svegliai sul serio. Voglio dire non mi svegliai nel sogno, come prima, ma finalmente nella vera realtà di tutti i giorni. Mi destai ai piedi del mio letto, fradicio di sudore, dolorante e con il cuore che voleva sfondarmi il petto.

A quel punto della narrazione Franz era diventato incontenibile, come preso da un raptus di ignota origine, si era alzato e messo a camminare a grandi passi, schivando per un soffio le travi basse e la scala umida del suo lokh, quella specie di bugigattolo.

Incredibilmente, per la prima volta da mesi, mi chiese di uscire con lui per una passeggiata all’aria aperta e per una birra, dimenticando le guerre condominiali con i topi e – devo dire – anche di pagare il conto in birreria. Nonostante questo suo repentino cambiamento, ricordo che non riuscii a cavargli una parola sull’idea che lui aveva del sogno né a farmi spiegare la causa di quella sua specie di frenesia da Golem invasato.  Rammento, però, che quando lo lasciai, a sera inoltrata, mi chiese con aria di mistero – e riuscì a farmi promettere – di non far parola con nessuno, del sogno e dell’incredibile esperienza che avevo vissuto quella mattina, nemmeno con mia sorella Grete.

Due mesi più tardi vide la luce il racconto di Franz Kafka La metamorfosi, con l’incipit forse più famoso della storia della letteratura contemporanea: “Quando Gregor Samsa si svegliò una mattina da sogni inquieti si trovò trasformato nel suo letto in un immenso insetto”.

È inutile che vi dica la mia meraviglia quando mi mostrò con aria trionfante il testo del racconto pubblicato in prima stesura breve sulla rivista di letteratura Hyperion. A stento credevo ai miei occhi nel vedere il mio nome e il mio incubo, il mio kholem, trasformati in una storia di letteratura fantastica – resa anche in modo piuttosto inattendibile, a mio modesto parere – e mischiati ad elementi biografici della sua vita privata.

Per questi motivi decisi di non vedere più Franz e mantenni il mio proponimento fino alla fine.  O meglio fino alla sua fine.  Che cosa avreste fatto voi al posto mio? Che cosa avreste detto, vedendo il vostro onorato nome – e cognome – divenuto oggetto dello scherno e del raccapriccio del mondo intero e, per di più, per mano di chi consideravate un amico? E con l’aggravante che quell’atto proditorio di diffamazione gli diede la fama immortale che sappiamo?

Per quanto mi riguarda, posso solo giurare che, dopo quell’orribile incubo ad occhi aperti, non assaggiai più una sola foglia di crauti alla sera.

 

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