Ecco che la funzione del teorico dell’arte coevo è quello di creare nessi tra la scienza della percezione contemporanea con quella della cognizione attraverso i modelli di memoria e di esperienza adottati

di Giuseppe Siano

1. Premesse generali: le nuove teorie tra percezione e esperienza

Per quanto finora illustrato il rappresentare dovrebbe permettere ancora oggi di discernere tra ciò che si reputa artistico e ciò che va considerato un “bene culturale”; anche se questa affermazione va valutata con molta approssimazione quando affrontiamo i nuovi orientamenti dell’arte a noi coeva.

Possiamo invece iniziare a fare una prima disamina sulle novità che introdussero alcuni artisti nell’arte della rappresentazione durante i primi anni del XX secolo, e interrogarci sui motivi per cui oggi quelle forme di racconto sono ancora presenti, sopravvivendo nel contemporaneo come fonte d’ispirazione per tanti tardo-epigoni che poco hanno compreso delle loro finalità.

È innegabile, infatti, che all’inizio del secolo scorso molti artisti, riuniti in vari gruppi, hanno scritto delle nuove regole tecniche e di collegamento non solo tra pensiero e arti visive, ma anche con le altre arti, come la musica, la poesia, il balletto, il teatro, e in generale con tutte le altre “forme artistiche” del rappresentare.

Le nuove regole da allora hanno reso non per tutti universalmente riconoscibile la corrispondenza che comunemente si attribuiva all’interpretazione di un rapporto tra oggetto o soggetto costituente la materia di un’immagine, di un emblema, di un simbolo o di una rappresentazione, e il suono o la parola (Logos) con cui si descrivevano o si evocavano i significati dell’azione rappresentata.

La poesia, la musica e l’arte visiva o visuale in genere furono accomunate in un unico percorso spesso intrecciato in una corrispondenza tra immagine-parola della ricerca artistica.

La sovrapposizione di modelli di pensiero, a volte anche contrastanti, invitavano da più parti a una sintesi. Tutti auspicavano di rinvenire, conciliare e stemperare le differenze con l’unificazione delle arti. Sia attraverso la percezione, sia con i segni, sia con i modelli di pensiero la ricerca fu indirizzata a risalire a un’origine comune.

La ricerca dell’origine di una modificazione di uno stato fisico, psichico, o metafisico, o l’affermazione di una visione teologica coinvolse sia l’indagine teorica che critica della produzione e della ricezione artistica di un’opera d’arte.

Si stemperò e fu annullata quasi definitivamente la divisione che dal medioevo era stata introdotta tra simbolo e allegoria, tra una produzione e messa in scena della téchne contenuta in una immagine, e la poesia che era allora ancora una musica e una rappresentazione cantata con la parola. Chiaramente permaneva la distinzione tra le arti belle e tutta quell’arte che non aveva come finalità il bello. Il termine greco arte, cioè téchne, non esprime a pieno quello che i greci pensavano di una elevazione del mero procedimento tecnico, o come maestria alla stregua delle arti della guerra o dell’artigianato. Vi era una “tecnica superiore”, che noi abbiamo chiamato le arti belle. Il bello e l’arte per i greci dovevano avere un legame con il bene e il vero. Il vero conteneva in sé qualcosa di buono, in quanto rivelazione di una verità positiva. Quando un greco esclamava: “ciò è bello!”, voleva significare che con quell’esclamazione era stata trasmessa una rivelazione realmente positiva. Reale e positivo erano considerate delle rivelazioni sulle condizioni dell’essere che avevano come finalità il bene come diceva Platone.

Dall’altra parte vi era la poesia. Per i greci non si potevano leggere dei versi senza tener conto del ritmo e della musicalità. Recitare dei versi da parte di un rapsodo, o poeta, implicava una messa in scena delle immagini attraverso il ritmo della parola accompagnata da uno strumento musicale. Per essi erano artistiche e volte al bello tutte quelle arti ispirate dalle Muse: le arti della musiché; tra cui si annoverava anche la filosofia. Questo è un modo diverso di ragionare e di avere un contatto con la realtà la quotidianità e la bellezza.

Del resto la bellezza per i greci nelle rappresentazioni poetiche era data sia dalla musicalità del verso ma anche nella comprensione dello svolgimento della messa in scena.

La concezione di arte e poesia nonostante i secoli trascorsi nell’Ottocento era ancora vicina formalmente al modo d’intendere dei greci ma non al loro pensiero, anche se con il cristianesimo permaneva la distinzione tra arti mimetiche e arti allegoriche.

Nel novecento l’arte poetica nelle sue trasformazioni storiche, col succedersi di varie teorie, iniziò ad essere concepita come racconto e non più canto.

La realtà poi non era più ispirata dal bello e dal buono, dopo i tanti inganni, le angherie dei potenti e le rivoluzioni sociali che alla fine del Settecento c’erano state. Solo una poesia scese nel mondo e illuminò di bello e vero il quotidiano; anche se con un canto “maledetto” incurante della versificazione, che divenne espressione del sentire con cui poter di nuovo raccordare “l’alba di due eternità” (Arthur Rimbaud, 1854-1851).

La percezione visiva assurse a nuova forma di realtà con un nuovo concetto di bello nelle arti visive.

All’inizio del Novecento si mise anche in discussione che si potesse rendere partecipe e condividere con un altro umano la stessa percezione ed esperienza degli eventi, o che si potessero descrivere i fenomeni e gli oggetti allo stesso modo; nonostante si fosse in grado di utilizzare un comune sistema simbolico, o dei codici linguistici organizzati secondo delle rigorose regole logiche.

Divenne per nulla esiziale e filosoficamente ininfluente attribuire la facoltà del conoscere, o la formazione della coscienza, all’intelletto o alla mente o alla ragione.

Il fine era di giungere non solo a un riconoscimento delle produzioni umane, ma anche comprendere in quel momento cosa si potesse intendere, o cosa considerare di artistico nei messaggi in esse contenute.

La ricerca di un comune intento “originario” nelle arti, infatti, allora acquisì una forma ed una espressione comunicativa nuova.

Ciò avvenne quando nel racconto, insieme ai diversi codici linguistici, furono ricercati e condivisi alcuni nessi logici che seguivano differenti procedimenti compositivi e che si ponevano sul limen tra il simbolico e l’intellettivo, o il razionale logico.

Si notò che nel corso di alcuni decenni della fine dell’Ottocento si era costruito un metodo con cui si poteva organizzare il racconto estetico-percettivo da osservatori di procedimenti logici.

Questo metodo mediato dalla scienza permetteva di creare nuovi nessi tra i modelli delle arti, l’esperienza tecnica e coloro che compivano una scelta interpretativa attraverso l’atto di osservare.

Fu così che s’iniziò ad indagare la costruzione dei racconti secondo connessioni logiche, contestuali.

Gli artisti e gli osservatori nel dispiegarsi delle loro narrazioni potevano descrivere uno stesso fenomeno, o condividere uno stesso metodo di analizzare gli eventi, o essere coinvolti in una medesima rappresentazione percepita come “soggettiva” o “oggettiva” nonostante che applicassero metodi logici o sistemi simbolici differenti.

In questo modo si affermò il principio che un osservatore è strettamente connesso al suo metodo di osservazione.

Si formulò l’ipotesi tuttora in auge che ogni osservatore di solito assume un modello di relazioni significanti che adotta per descrivere il dispiegarsi di un accidente o di un fenomeno.

Si dedusse che per questo motivo l’analisi degli eventi andava estesa anche ai modelli assunti come principî; specie quando il racconto emergeva come un “sentire” fisico. A questo sentire non interessava se aveva legami con la mente o la coscienza dell’individuo o con l’Essere o con il Divenire della parola [Logos].

Ben presto nell’arte ci si disinteressò della realtà fondata sul Logos, o sull’Essere, per seguire un racconto costruito da una logica impostata su analisi provenienti dalle serie e dalle sequenze di modelli percettivi, cognitivi e psichici.

Si ipotizzò che la stessa arte andava costruita e analizzata secondo un manifestarsi e svolgersi in modo autonomo da tutte quelle altre rappresentazioni del passato. Essa andava collegata alla percezione e alla cognizione piuttosto che a un’origine del Logos.

Il critico, il teorico e il filosofo furono investiti del compito di perseguire un’interpretazione più appropriata allo svolgersi del racconto.

Essi dovevano indagare sugli aspetti logici dei significati in un racconto.

Qualsiasi testo era costruito su modelli che inducevano a una indagine percettiva, cognitiva, sensoriale o di acuta osservazione degli eventi.

All’inizio del Novecento l’arte per alcuni artisti era diventata già il dispiegarsi di una narrazione “come esperienza singolare” che per poter essere interpretata andavano utilizzati dei modelli relazionali di una logica autoreferente.

Ogni artista riferiva di propri modelli compositivi. Per comprendere il modello compositivo di ogni racconto il teorico doveva considerare in che modo emergeva la percezione di fatti attraverso la descrizione dei nessi individuati durante lo svolgersi di un evento; sia che esso fosse di carattere fenomenico che cognitivo o fantastico.

Si palesò, infatti, che in un qualsiasi racconto, per quanto “oggettivo” fosse, erano presenti sempre anche alcuni elementi di valutazione personale.

Come se l’analisi simbolica che si avvaleva dell’esercizio dell’analogia fosse divenuta contestualmente anche analisi allegorica, di una razionalità che utilizzava il simbolo secondo proprie misure per raccontare “altro” di sé.

Elementi, questi, che furono fatti risalire alle modalità di connettere (o di mettere in relazione) la percezione a un nuovo metodo di rilevamento estetico che proveniva dall’esperienza e/o dalla memoria individuale.

Questo metodo era diventato comune già tra i poeti maledetti dell’Ottocento, che non sto qui ad illustrare, ma rimanda ad un altro mio testo inedito sulla evoluzione della poesia contemporanea fino ai movimenti artistici del futurismo, dadaismo e surrealismo che sancirono la fine anche di un attuale superato modello di intendere la poesia e il poetico.

Il metodo relazionale individuale e contestuale faceva parte già alla fine dell’Ottocento, come vi illustrerò meglio in seguito, di un patrimonio di conoscenze ed esperienze culturali che si trasmettevano spesso modificate per l’apporto di nuove teorie, o meglio di nuovi “manifesti” teorici.

Le teorie a cui mi riferisco non si erano affermate solo attraverso l’analisi della vita con la visione dialettica che permetteva di dare un’interpretazione delle vicende della storia umana, ma a quelle che costituirono un ulteriore bagaglio di analisi, in cui confluirono altre teorie innovative provenienti anche dallo studio e dall’evoluzione degli ambienti biologici; senza dimenticare, poi, quanto accadde nel Novecento quando si aggiunse l’altro background teorico-culturale riguardante la nuova realtà che stava emergendo dai dispositivi tecnici, che permisero all’uomo di analizzare gli eventi che si potevano finalmente osservare nell’infinitamente piccolo (ad esempio con il microscopio elettronico) o nell’universo immensamente sconfinato (ad esempio con il telescopio elettronico, o oggi con quello a radiazione).

I dispositivi effettivamente hanno ampliato non solo le facoltà di osservazione ma anche di percezione degli umani; e li hanno dotati di fatto di nuovi sensi.

Essi (dispositivi), infatti, hanno esteso le potenzialità dell’osservare e poi sono confluiti in quell’area nuova di una conoscenza che è mediata da una “sensorialità” che abbiamo definito dopo il 1948 del tecnologico-informazionale.

Non a caso oggi possiamo raccontare la complessità della vita stratificata e organizzata in più ambienti “organici”; ognuno è costituito da informazioni e relazioni organiche appartenenti a un ambito relativo. Ogni organismo complesso è composto da altre stratificazione di organismi più semplici. Ogni ambiente relazionale può essere narrato per mezzo di una dialettica evolutiva che non appartiene più solo alla nostra specie, ma che si organizza ogni volta in un contesto relazionale relativo specifico.

Il mondo comunicativo e cognitivo oggi, inoltre, si presenta non solo come una rete di relazioni biologico-evolutive, ma anche costituito da più antichi ed originari messaggi che sono contenuti nelle radiazioni luminose. Attraverso i dispositivi l’uomo si sintonizza sulle radiazioni di fondo sia per ricercare l’origine dell’universo e sia per decifrare gli altri messaggi che sono trasmessi in un linguaggio ancora più infinitesimale del biologico, in quanto utilizza le nuove unità di misura: bit o qbit.

Già alla fine dell’Ottocento fu stabilito, comunque, che colui che riceveva un messaggio era parte attiva nella decodifica di esso.

Era l’individuo che produceva le connessioni, attraverso un intelletto, o una ragione, o un animo, o uno spirito, … o la memoria della specie in un contesto relazionale specifico.

La storia da scrittura universale diventò una scrittura contestuale che riferiva di fatti ed eventi osservabili da più punti di vista, qui ed ora.

Dopo che fu stabilito che la percezione fosse l’unico metro comune per condividere un’esperienza e il racconto degli eventi fu inteso secondo un’ottica nuova: l’ottica dei modelli.

D’un tratto sia la visione soggettiva, sia quella oggettiva dei fenomeni costituenti la realtà e sia la visione dialettica del rappresentare persero la loro importanza filosofico-estetica. Quelle visioni o descrizioni del logos non furono più considerate universali, o come un generale comune modo d’intendere il mondo.

Il dibattito aperto sulla percezione sull’esperienza e sulla memoria introdussero anche nell’arte del “sentire” quelle forme di rilevamento e di cognizione relative a un individuo, con la trattazione di elementi sia fisici, che psicologici, che dei meccanismi relazionali, dovuti a configurazioni emergenti da un osservatore in un contesto ambientale.

Per la prima volta nell’arte e nella scienza l’artista nuovo e lo scienziato osservatore di fenomeni erano entrambi coinvolti coi propri strumenti di conoscenza nell’analisi degli eventi; determinando dal luogo in cui si ponevano e dai modelli interpretativi che sceglievano anche gli strumenti con cui organizzavano le osservazioni durante lo svolgersi di un proprio racconto.

L’individuo, infatti, non solo faceva parte di un ambiente, ma era collocato in un luogo da dove osservava e partecipava allo svolgersi dei fatti.

La realtà veniva percepita e raccontata coi modelli logici che egli sceglieva.

L’uomo divenne partecipe di una storia di fenomeni e di relazioni in evoluzione.

Ogni storia poteva essere descritta secondo un metodo emergente al momento; e l’osservatore era colui che sceglieva i modelli attraverso cui percepiva e organizzava la conoscenza in un contesto; o meglio, organizzava una narrazione costituita da una serie e da una sequenza di eventi che si svolgevano in un ambiente vitale.

Da questo insieme di elementi, che potremmo oggi definire metodo antropologico-contestuale, si stabilì che determinate informazioni organizzate in linguaggio o in segni fossero convenzioni relative a un fatto e a un modello di conoscenza; in quanto non potevano avere lo “stesso valore” per tutti i vari ambienti relazionali.

L’origine, o il Logos, si frantumò in mille rivoli di una manifestazione.

La ricerca sull’uso e sul divenire del linguaggio superò in interesse l’origine e la conoscenza fondata su una meno appetibile filosofia ispirata non più dai miti (ormai divenuti dei mythos e considerati non più una rivelazione ma una “parola efficace” ridotta già a “narrazione non obbligatoria, non implicante argomentazioni”); ma questa filosofia non era neanche ispirata da una Musa del Logos che ne aveva preso la significazione (di “parola efficace”, di “progetto”, di “macchinazione”, di “deliberazione”, la quale si trasferì quasi esclusivamente nel termine logos e che sopravvisse solo nel verbo mythiazomai. Da Furio Jesi, Il Mito, 1989)

In aggiunta l’indagine sull’analisi del racconto, anche nello stesso linguaggio, fu condotta seguendo uno o più modelli scelti da colui che chiameremmo oggi un osservatore-partecipe-degli-eventi; il quale nel proprio dispiegarsi del racconto utilizza indifferentemente sia immagini, che suoni e parole secondo quanto emerge da un proprio personale metodo di connettere le relazioni.

Si stabilì, perciò, che ogni riconoscimento di relazioni procedeva secondo regole di connessioni logiche individuali; e qualsiasi metodo era dettato da regole logiche che si attenevano alle misurazioni e alla distanza dei fatti scelte dall’osservatore.

Perciò, chiunque poteva adottare un proprio modello per descrivere un evento fantastico, verosimile o vero nella “realtà” degli oggetti o con la rappresentazione di essi. Chiunque poteva applicare un modello utilizzando una propria scala di valori in co-evoluzione con l’ambiente.

Il nuovo racconto tra l’artistico l’antropologico e lo scientifico fu costruito sulla percezione e sulla osservazione.

Questo insieme di sentire e osservare gli eventi andava connesso alla memoria e all’esperienza di un osservatore presente in un contesto relazionale. La narrazione si svolgeva già alla fine dell’Ottocento seguendo i modelli di analisi individuali adottati o attribuiti ad un consesso sociale.

Il metodo di osservare gli eventi attraverso l’automatismo dei modelli permise di abbandonare l’esclusività della visione oggettiva o soggettiva delle cose o di un universale essere-nel-mondo.

Il metodo dell’osservare divenne, così, una questione di scelta, come del resto il bello, il buono o il bene.

Con lo stesso procedimento si poté anche determinare in che modo la decisione di applicare dei modelli di relazione (invece di altri) emergesse da una percezione, e permettesse di risalire alla manifestazione di una origine prossima che l’aveva generata, ̶  e non importa se questi modelli erano utilizzati solo per segnalare come si organizzavano le interpretazioni impostate sulle composizioni tecniche (téchne) o secondo quali connessioni logiche la formazione o l’emergenza degli “accadimenti delle cose rappresentate”erano state costruite da un architetto (termine questo composto, che è costituito da due parole: árche e técton. Il primo árche dal significato di divino, originario, e il secondo técton evoca diversi significati tra cui “l’inventare”, “il creare”, “il plasmare”, “il costruire”, che equivale al concetto del creare con “poiein”, e indica anche il fare tecnico [téchne] che si riferisce a un’arte intesa come il prodotto di un fare manuale come l’artigianato)  ̶ .

Secondo questo metodo dei modelli anche l’origine non ebbe più la caratteristica di essere considerata un universale valido per tutti, ma rappresentava solo la scelta di un’universalità assunta in un contesto relativo come principio di una osservazione.

Qualsiasi narrazione poteva riferire solo come un modello potesse indirizzare e dettare delle regole in modalità logica seguendo il dispiegarsi dell’esperienza, della memoria e della percezione di un osservatore in un contesto.

Il disvelamento del Logos non aveva più un fine universale da scoprire o da raggiungere.

Questo metodo fu assunto specie nell’arte come la struttura cardine attraverso cui un osservatore, in continua evoluzione con il suo ambiente vitale, proponeva un racconto seguendo delle proprie notazioni o delle proprie descrizioni di un evento o di un fenomeno, fisico, fisiologico, psichico o di una riflessione terminologico-lessicale.

I fenomeni osservati dalla scienza o dall’arte o dalla filosofia apparvero con questo metodo come organizzati da modelli in un contesto nuovo, determinato da varie condizioni e relazioni psico-fisiche e mentali.

Da allora qualsiasi fenomeno o accidente fu considerato appartenente a una scelta momentanea che un individuo opera istintivamente in un contesto e che assume con una decisione tra i propri modelli di osservazione.

Oggi colui che affronta l’interpretazione delle opere d’arte di quegli artisti che parteciparono alle avanguardie storiche deve per prima cosa comprendere perché non può utilizzare lo stesso metodo estetico-culturale che era stato usato per decodificare i messaggi, i segni, i simboli e le allegorie del passato.

Non si può più neanche incorrere in un errore grossolano col collegare questi movimenti artistici a quelli più prossimi; come ad esempio già erano stati considerati innovatori gli artisti simbolici, o gli arrabbiati fauves, o le schematizzazioni delle astrazioni geometriche dei primi cubisti.

Le teorie su cui questi movimenti hanno fondato e costituito i nuovi modelli di rappresentazione  ̶ che dovremmo iniziare a chiamare configurazione di relazioni  ̶  sono del tutto diverse dalle altre forme simboliche o dalle astrazioni che riferiscono di un “universale” percepibile da tutti come nel passato.

Dopo questi movimenti artistici non è stato più possibile avere la contezza che s’instauri ogni volta una corrispondenza tra il conato dell’artista a rappresentare e la traduzione espressa con un percorso storico e interpretativo lineare che in modo incerto ancora oggi organizza un teorico, un  critico d’arte, o uno storico dell’arte.

(Detto tra noi non riesco ad accettare tanto volentieri, poi, quando le connessioni sono anche organizzate con cenni secondo la logica di un “pensiero a guazzo” da un allestitore, il quale recita a soggetto, senza connessione a una continuità cognitiva e percettiva che segua almeno una logica storica o anche solo una logica evolutiva con cui andrebbero evidenziati le differenze tra i modelli di percezione, di esperienza e di memoria, che comunque oggi emergono come strutture di pensiero già organizzate nelle opere d’arte. Sembra che sia troppo impegnativo per questi allestitori collocare gli “oggetti” o le performance artistiche in una storia dell’oggetto, del simbolo, del segno e della evoluzione dialettica della rappresentazione; meno che mai essi seguono una logica storicadel sentire”, o dei “modelli della percezione” che tenga conto della evoluzione dei sistemi organizzativi della materia e del riconoscimento del pensiero per mezzo di riferimenti storico-contestuali da cui nasce l’opera. Comprendo che queste persone non abbiano alcun interesse a dare una continuità storico-evolutiva alle forme connesse con le espressioni o percezioni o relazioni attuali. Essi non seguono i nessi o l’evoluzione di modelli estetici e sensoriali provenienti dalle teorie recenti o del passato. La filosofia, la scienza e l’arte poco più di cento anni fa hanno mostrato i limiti della rappresentazione, per cui è indubbio che hanno ragione a scrivere della “fine” di un modello di pensiero; però questi postmodernisti allestitori non hanno mai affermato la possibilità di pensare e di rappresentare le cose e la storia secondo nuovi modelli, come invece da tempo hanno proposto i metodi delle discipline nuove della scienza, della filosofia e dell’arte).

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2. Le avanguardie: tra percezione, memoria esperienza e movimento

La rappresentazione artistica, così, fu organizzata da questi primi movimenti di inizio Novecento secondo le regole di un racconto visivo i cui elementi storici, teorici, percettivi e cognitivi non bisognava cercarli all’interno delle tecniche e dei pensieri della tradizione comunicativa. Non furono attratti da quel tipo di comunicazione che avesse un’origine mitica, filosofica, estetica, linguistica o simbolica o energetica legata a un ricordo evocante un passato ormai lontano. Il nuovo linguaggio artistico doveva essere una espressione lontana da questa origine; e volutamente fu alienata da questi artisti. (Come se essi dovessero cercare un’altra origine delle cose, o una verità su di esse seguendo una filosofia che non avesse tutte quelle caratteristiche universali del passato).

Le forme del rappresentare per loro divennero dei collegamenti cognitivi che non rientravano nella tradizione simbolica o rappresentativa di una verità che fosse espressione solo di un mito o di un logos, ma emergevano da una pratica percettiva in cui la memoria e l’esperienza quotidiana assumessero un ruolo fondamentale. Il bello, il mito e la verità sono quelli del proprio tempo.

Gli artisti delle avanguardie, inoltre, non provarono più alcun interesse per un racconto rappresentativo costituito da elementi statici; sia che questi provenissero da una struttura linguistica dalla radice comune e universalmente riconosciuta, ma neanche da messaggi cristallizzati in un simbolico o in una figura evocata e ben identificata dal logos.

Il loro modello di rappresentare gli eventi non doveva andare oltre l’accadere fenomenico di un sensibile che emergeva dalla percezione estetica del momento.

La percezione la memoria e l’esperienza organizzano dei modelli di relazione che riguardano gli uomini che condividono lo stesso tempo e il medesimo contesto.

La narrazione delle avanguardie consisteva nel raccontare un fenomeno o un evento percepito secondo nuovi canoni filosofici ed estetici.

Essi si fondarono sul movimento fisico, psichico ed espressivo del linguaggio adottato dall’artista-osservatore, e furono considerati relativi solo a quanto già “sentito” nel comporre una specifica opera.

I modelli interpretativi del movimento permettevano di descrivere il coinvolgimento degli artisti-osservatori attenti a raccontare gli eventi secondo nuove e specifiche forme di esperienza dinamica; da cui emergeva quella nuova emozionalità prodotta dall’ambiente ma anche dal proprio ricordo dei fatti e dall’esperienza emozionale che questi avevano suscitato.

L’interpretazione della percezione assunse il carattere di connessione personalistica. Essa era la conseguenza nell’arte dell’applicazione di un metodo scientifico che proveniva da un osservatore di fenomeni.

Le produzioni degli artisti dei movimenti avevano il fine di far emergere quel nuovo modo di analizzare le dinamiche dei fatti osservati con strumenti, dispositivi e costrutti logici mai ritenuti dei modelli validi da utilizzare in quel modo fino ad allora. La filosofia e l’estetica erano ancora fondate sui modelli emergenti dalle riflessioni sul Logos.

L’arte per questi artisti diventò invece quel racconto che aveva fondamento in una percezione.

Proprio la percezione poteva suscitare in un osservatore il racconto di un’evocazione di un fatto utilizzando modelli nuovi di cognizione che, tra memoria ed esperienza, e in modo contestuale e relativo, facevano riemergere come significato dalle relazioni prodotte in un ambiente.

Le opere di questi “artisti” prendevano forma attraverso il metodo scientifico dell’osservare gli eventi secondo una conformazione contestuale.

Questo metodo coniugava l’esperienza dell’osservatore coi modelli della sua osservazione.

I canoni andavano trovati nella manifestazione della propria percezione organizzata secondo modelli cognitivi.

Alla scelta dei modelli andava aggiunto il ricordo che ognuno di questi fatti poteva evocare e con cui si collegava ad altri fatti per mezzo dell’esperienza (o del vissuto) presente in ogni singola individualità: sia in quella dello scienziato e sia in quella dell’artista, o dell’uomo comune, osservatore.

Qualsiasi rappresentazione di un evento poté finalmente essere trasformato in narrazione artistica. Essa veniva decodificata, ripeto, sia evocando una percezione sensoriale, sia un ricordo e sia un’esperienza.

Il racconto era diventato il prodotto di collegamenti logici, il cui “sentire” ora era analizzato da un teorico della scienza dei segni, della psiche, del linguaggio e quindi della nuova arte dei movimenti.

Con l’introduzione del movimento nella rappresentazione il modo d’intendere l’arte subì questa radicale trasformazione interpretativa.

L’arte, infatti, diventò uno strumento per raccontare la percezione o l’osservazione di eventi fisici che stavano modificando il modo di produrre esperienza e di pensare e ricordare gli eventi proprio grazie a delle forze dinamiche; le quali inducevano a raccontare i cambiamenti nel modo di osservare, analizzare e trovare collegamenti tra i fenomeni fisici, linguistici e psichici.

Il ricordo di un’esperienza dinamica permetteva nessi o collegamenti nuovi tra le sensazioni e le cognizioni recepite dall’artista e dallo spettatore, o fruitore dell’opera.

Vi erano dei nessi che collegavano l’uno all’altro nell’esperire un mondo in cambiamento grazie alle dinamiche provocate proprio dal movimento.

Lo spettatore assunse un ruolo centrale nell’interpretazione dell’opera.

La percezione perciò divenne fondamentale nel cogliere i movimenti fisici, psicologici e linguistici nella narrazione artistica; e con essa si aprì la discussione sulle teorie più recenti dell’estetica dei modelli con cui veniva già allora organizzato il racconto.

Arte, scienza, psicologia e filosofia insieme alla antropologia, alla sociologia e alla psicoanalisi divennero elementi centrali per risalire a un’estetica della percezione e della cognizione nella storia.

In filosofia come non ricordare ad esempio la fenomenologia di Edmund Husserl [1859-1938]. Egli ha permesso lo sviluppo coevo delle scienze cognitive, della filosofia della mente e dell’intelligenza artificiale (nonché dell’arte che ha come riferimento l’uso delle neo-tecnologie dell’informazione). Molti suoi studi sulla percezione e cognizione sono stati utilizzati nel racconto dell’arte del secondo dopoguerra del secolo scorso, che non vi narrerò in questa lettera.

Gli artisti innovatori del primo Novecento, infatti, fecero proprie alcune teorie scientifiche, psicologiche ed estetiche emerse poco prima o durante la loro permanenza a Parigi.

Essi s’interrogarono più su come si percepiscono le cose e gli eventi in evoluzione e in relazione a un ambiente.

A quel tempo lo studio dei fenomeni, giusto a pochi iniziati, già appariva sottoposto a un movimento dinamico che induceva a una scelta tra i modelli di osservazione.

Fu così che alcuni artisti innovatori si disinteressarono di rilevare, o meglio, rivelare le modalità espressive o descrittive di una “cosa in sé” o della “realtà” nelle loro opere.

In verità, molti artisti dell’Ottocento, facendo proprie alcune teorie della percezione sulla luce o sui fenomeni fisici, si erano già trasformati di fatto in osservatori di eventi dinamici che producevano emozioni e reazioni agli stimoli provenienti dal mondo esterno; ma ora  ̶  nel primo Novecento  ­̶  la percezione permetteva di collegare le forme a una propria esperienza artistica in evoluzione che si intrecciava col ricordo personale, con la memoria e con l’esperienza.

L’origine dell’azione consisteva per i teorici nel risalire allo stimolo che aveva dato impulso a una serie di movimenti energetici in coloro che si professavano artisti.

Per coloro che trovarono i fondamenti della verità, o della dialettica, nell’organismo di un osservatore non c’era nulla di metafisico o di trascendente nell’oggetto (o cosa, o res,) da raccontare.

Il Logos non serviva più a descrivere e a spiegare gli accidenti del mondo in movimento.

Vi era solo un’azione dinamica che produceva degli effetti sull’interpretazione della visione di un evento.

L’interpretazione fu connessa, allora, alla scelta di modelli o alla reazione suscitata in un osservatore.

Essa si manifestò come un racconto che emergeva tra percezione, esperienza e ricordo.

Fu evidente, così, che era sorto un nuovo modello per percepire e raccontare gli eventi.

Nell’arte delle forme era entrata prepotentemente una nuova teoria estetica; ovvero l’analisi dei modelli attraverso la percezione, o un sentire estetico che per mezzo delle rappresentazioni, da una ricerca di una origine simbolica universale valida per tutti, stava trasformando i racconti in narrazioni di esperienze dinamiche personali.

Allo stesso modo la “realtà” storica stava diventando un modello di analisi relativo a un evento, o a un’esperienza percepita in evoluzione e da uno dei tanti punti di vista da cui si potevano ora osservare gli eventi.

Il racconto che aveva come interesse un’azione dinamica, infatti, fu assunto come un metodo per rappresentare il pensiero attraverso la propria memoria e la propria esperienza in movimento.

Ecco delineato brevemente il nuovo mondo della percezione estetica nella filosofia e nell’arte delle cosiddette avanguardie storiche, che furono, ricordiamolo: il futurismo, il dadaismo e il surrealismo.

3. Il cronotropo

Del resto questo primo muoversi della materia secondo energie, dove l’unica costante di misurazione è la luce, iniziò a diventare il modello di un nuovo calcolo nella scienza, che nel 1905 fu formulato e dimostrato dalla teoria della relatività da Albert Einstein.

Solo nel 1915 Einstein estese questo metodo anche allo studio generale dei fenomeni, specie quelli astronomici; dove alle tre dimensioni tradizionali lunghezza, larghezza e profondità egli ne aggiunse un’altra il cronotropo, o lo spazio-tempo relativo  ̶  o anche, come io sono solito specificare la misurazione di uno spazio-tempo rispetto a un osservatore.

Questa nuova dimensione presto sarebbe diventata ciò che comunemente chiamiamo quarta dimensione; ovvero il palcoscenico su cui si svolgono i fenomeni fisici, in cui fu incluso anche l’osservatore coinvolto nella sua osservazione.

La percezione scientifica, infatti, nella scienza moderna iniziò a includere anche l’osservatore con il suo modello nella descrizione di un fenomeno fisico.

Per la teoria della relatività, infatti, ogni misura è relativa al punto in cui si pone un osservatore; e la misurazione emerge da una rapporto di relazione relativa a una distanza di due punti che si spostano, e che possono subire delle variazioni specie a causa delle sollecitazioni percettive suscitate in un osservatore che è collocato sempre in un luogo dello spazio-tempo, o cronotropo, e dal quale emergono in quel momento alcuni modelli di riferimento utilizzati per la misurazione.

In uno spazio-tempo relativo tutti gli oggetti si muovono e permettono a un osservatore la misurazione di un evento secondo dei modelli.

Per potersi produrre un fenomeno osservato, perciò, occorre che ci sia l’emergenza di uno stimolo in un osservatore che lo induca a percepire l’evento e ne misuri gli effetti.

Qualsiasi evento, dopo lo stimolo prodotto su un osservatore, fa emergere l’analisi di un fenomeno relativo a una misurazione di un cronotropo.

Einstein stabilì che l’unica costante con cui misurare gli eventi rispetto a un osservatore è la velocità della luce.

Questa è l’unica costante con cui si può misurare il modello di una percezione; attraverso la quale si manifesta quella descrizione dell’evento fisico o fenomenico.

Da ciò alcuni filosofi, teorici ed artisti dedussero che il nostro macro-ambiente relazionale è costituito da tanti micro-ambienti spazio-temporali quanti sono i luoghi di osservazione da cui emergono le misurazioni dei fenomeni nel cronotropo.

C’è un modello comune attraverso cui passa l’analisi e l’interpretazione in un ambiente relazionale, e ci sono modelli alternativi di analisi che possono essere utilizzati a questo stesso fine.

Con l’evoluzionismo (Charles Darwin, 1809-1882), infatti, si era scoperto una stretta relazione tra i modelli comportamentali adottati dalle specie viventi in relazione al loro ambiente vitale.

Non più uno spazio e un tempo fisico separati, quindi, ma uniti da una percezione, e con la presenza di un osservatore che sceglie anche il modello con cui analizzare gli eventi.

L’osservatore decide se analizzare l’evento secondo un tempo composto da stadi o stati relativi a una memoria analitica, o secondo un fatto che si svolge in continua evoluzione temporale, e che permette di seguire e cogliere le fasi come una unica e continua sequenza di una dinamica energetica che colpisce (o si esaurisce prima di raggiungere o) dopo aver raggiunto un bersaglio.

(Penso qui anche alla filosofia antica e alle tesi opposte già presenti ad esempio nell’Essere immutabile di Parmenide dimostrato anche con i paradossi di Zenone suo allievo; del resto questo impianto teorico era differente dalle teorie di Pitagora che avevano come fondamento la molteplicità dell’Essere in quanto numero, e di quello di Eraclito sul divenire inafferrabile. Il superamento avvenne poi con Aristotele che affermò che in potenza si può accettare che il movimento fosse un insieme di punti ma in atto il tempo e lo spazio sono un insieme non distinto tra loro).

Dopo questo metodo contemporaneo di percezione e di osservazione dei fenomeni si aggiunsero altre postille nella scienza, come la seguente: le misurazioni di un osservatore sono relative alle informazioni che egli ha, o che emergono ed egli sceglie in quel momento per analizzare gli eventi. Si pensi ad esempio al famoso paradosso del gatto (1935) di Erwin Schrödinger (1887-1961).

(Devo aprire la scatola di piombo per sapere se è ancora vivo o è morto un gatto chiuso in essa insieme a un composto che potrebbe essere letale per la sua vita in questo mondo. La miscela mefitica è contenuta in un’ampolla di vetro che potrebbe uccidere quel gatto con le esalazioni, se al momento della rottura del contenitore l’animale si trovasse proprio lì vicino ad annusarne il composto. Non so neanche quando si azionerà il meccanismo che frantumerà l’ampolla. Fino a quando non apro la scatola posso solo figurarmi il gatto vivo e allo stesso tempo il gatto morto).

Il racconto di questo episodio ha avuto la finalità di introdurre il paradosso nella realtà dell’osservazione dei fenomeni. Se ne è dedotto che se nella scienza non si hanno tutte le informazioni di un fenomeno si può procedere solo per ipotesi.

Ed è quello che ha postulato la scienza contemporanea.

Pochi anni prima c’era stato un altro scienziato che aveva dimostrato come le teorie della scienza quantistica inducono a ipotizzare “situazioni” interpretabili in un verso o nell’altro in quanto l’unica certezza è l’indeterminazione (mi riferisco al principio di indeterminazione del 1927 di Werner Karl Heisenberg [1901-1976] che poi fu utilizzato in varie altre discipline non solo della fisica dei quanti; e ad esempio da Salvador Dalí nell’arte col suo Manifesto antimaterico del 1958 , dove scrive che « il mondo esteriore e quello della fisica hanno superato quello della psicologia» e dopo questa affermazione egli ha abbandonato il “padre” Sigmund Freud per il nuovo “padre” Werner Karl Heisenberg.

L’indeterminazione dell’interpretazione scientifica è entrata prepotentemente, così, anche nell’organizzazione e nell’interpretazione delle forme artistiche.

Nel mondo della fisica subatomica, inoltre, le energie costituiscono la parte mobile della materia, e ad essa (materia) sono inscindibilmente interconnesse.

La filosofia, l’arte e la scienza dei fenomeni furono travolte da queste teorie che procedevano nell’interpretazione per ipotesi in un universo sempre più indeterminato a causa del cronotropo.

Il mondo della realtà, o della cosalità, o degli oggetti significativi simbolicamente per tutti entrò in crisi insieme al Logos e al divenire della rappresentazione attraverso la Storia.

Si affermò un diverso modo di osservare e percepire il fenomeno che emergeva non solo da un luogo o da un altro, ma anche attraverso degli strumenti interpretativi che un osservatore sceglieva per l’analisi e che avevano influenza sul modello di percezione e sulla sua distanza dall’evento. (A ciò bisogna aggiungere sempre la memoria e l’esperienza personale nell’arte, come vi illustrerò in seguito).

L’evoluzione e la relatività irruppero nel giudizio della storia, come vi ho brevemente e precedentemente descritto, e gli storici ampliarono i modelli per analizzarla e comprenderla, contestualizzandola.

Nell’immaginario della vulgata quotidiana questo insieme inseparabile di materia-energia ha modificato il nostro modo di credere circa la monotona staticità degli oggetti e della loro rappresentazione. Ha reso dinamica l’osservazione che può essere analizzata da più punti di vista nel suo emergere alla coscienza con un metodo. Ha restituito col movimento anche una visione relativa, che si forma da un luogo del cronotropo in un osservatore.

L’osservatore è perciò il nuovo metro del nostro universo percettivo e cognitivo del narrare. Egli in ogni momento, col suo grado di attenzione verso i tanti eventi che si producono nel proprio ambente esercita una scelta. Dopo decide di misurare i fatti e trova per essi un modello di esperienza secondo l’affiorare di un ricordo.

La rappresentazione da oggettiva e storica divenne la percezione di una emergenza che per un tempo ristretto permette un configurare relazioni relative a un evento o fenomeno, il cui calcolo è verificabile se si utilizzano gli stessi principî o modelli.

L’osservazione, infatti, si ritiene che oggi avvenga sempre da un punto di vista ed è misurabile secondo una misura univoca: la luce.

Essa emerge in uno spazio-tempo, e diventa relativa per la scelta degli strumenti di analisi assunti da parte di un osservatore.

La scienza come l’arte da allora hanno proposto solo ipotesi teoriche sia sulla singolarità della cognizione e sia sulle teorie relative alla ricezione, che poi insieme sono state applicate alla percezione, alla memoria e all’esperienza, di un fenomeno come di un’opera d’arte.

Questo è conseguenza dell’aver accettato nel nostro racconto scientifico, artistico e quotidiano anche la misurazione della relatività percettiva del cronotropo.

Sebbene la teoria di Einstein fosse formulata per dare una costante alla misurazione dei fenomeni, è stata utilizzata per promuovere o dare valore a originali teorie nelle rappresentazioni di altre discipline del sapere.

Ciò che è innegabile è l’influenza che ebbe in tutti i campi della conoscenza la misurazione della costante di Einstein del 1905, integrata dalla relatività generale del 1915.

È accresciuta da allora la consapevolezza che era stato attribuito un altro valore all’osservazione e alla dimostrazione scientifica, e di riflesso anche alle composizioni artistiche.

Nel campi del sapere fu introdotto non solo l’osservatore collocato in un luogo e a una distanza misurabile dall’evento, ma s’iniziarono a valutare anche i modelli e i principî da lui adottati.

Attraverso queste relazioni si poteva rendere manifesta una determinata modalità di esercizio della percezione in relazione alla memoria e all’esperienza.

Si stabilì così che dalla percezione emergeva la rappresentazione di un evento; in quanto la visione della cosa in sé universalmente riconosciuta non era verificabile se non accettando degli assiomi, mentre il divenire della rappresentazione è soggetta costantemente a una revisione storica degli eventi.

Entrambi i casi sono incompatibili o incommensurabili perché non si utilizzano gli stessi principî.

La diversità di analisi in campo scientifico fu sottolineato dal fatto che nel mondo dei macro-fenomeni non si poterono più utilizzare le stesse leggi scoperte nella scienza dalla fisica quantistica e viceversa.

Si modificò, così, in modo improvviso il metodo di osservare e di rappresentare; mentre, nel frattempo la percezione acquisì la centralità con cui si organizzò anche l’universo filosofico, cognitivo, fenomenico e storico su basi diverse da quanto fino ad allora stabilito.

Dopo la psicologia anche l’antropologia, la sociologia, la psicoanalisi, la topologia, la matematica, …, fino all’informazione (1948) entrarono a far parte delle “scienze nuove” che producevano innovative strutture di percezione e di nessi cognitivi per mezzo sempre di nuovi modelli.

Su quelle scienze trovò fondamento l’osservazione e il racconto basato su  modelli nuovi di “sentire” gli eventi per mezzo dei dispositivi energetici logico-matematici e di calcolo afferenti a un modello di percezione interrelata tra individuo e ambiente relativo, in evoluzione.

L’uomo per mezzo dei dispositivi acquisì quel nuovo “modello fisico” di analisi degli eventi e dei fenomeni, al di là dei cinque sensi.

La percezione nel tempo  ̶  attraverso i dispositivi tecnologici  ̶  ha costruito un nuovo modello di analisi e di conoscenza che l’arte non poteva e non potrà più alienare.

Ecco che la funzione del teorico dell’arte coevo è quello di creare nessi tra la scienza della percezione contemporanea con quella della cognizione attraverso i modelli di memoria e di esperienza adottati; avendo come riferimento anche quei nuovi modelli di indagine scientifica che si avvalgono di alcuni strumenti di rilevamento e di calcolo che hanno la funzione di dispositivi percettivi e cognitivi, e che sono collocati oggi anche al di fuori dal nostro apparato sensoriale umano.

4. Il movimento nell’arte e la percezione delle linee-forza

Nell’arte questo cambiamento divenne manifesto proprio quando alcuni artisti del primo Novecento introdussero il movimento nelle loro opere.

Alcuni raccontarono il movimento come un evento fisico con il progetto di elucidare con le arti la cosiddetta dinamica nella percezione delle forme; altri vollero evidenziare lo slittamento del senso che si poteva verificare anche attraverso l’uso logico della parola nel linguaggio con un significato arbitrario, convenzionale e contestuale che si manifestava con una percezione; ed altri ancora utilizzarono l’assunto di uno psichico dinamico, relativo e variabile, come quello attribuito dalla psicoanalisi al simbolo che da “oggettivo” divenne una funzione simbolica in un contesto relativo e personale.

I modelli culturali di riferimento apparvero, da allora, agli studiosi delle nuove discipline, relativi a delle congetture o cognizioni percepite dai singoli individui finalizzati a raggiungere degli obiettivi; e l’arte, la filosofia e la scienza dovettero accettare che gli eventi fossero catalogabili anche secondo dei principî percettivi e dinamici utili a determinare e descrivere delle motivazioni che potessero approdare a dei fini.

Qualsiasi funzione che assumeva un segno o si avvaleva di una parola o di una immagine significante andava inserita in un contesto e serviva per raggiungere un obbiettivo; pertanto le osservazioni assursero a modelli verificabili dall’esperienza secondo una logica relativa a un racconto che si svolgesse su connessioni di dati rilevati tra percezione ed esperienza senza dimenticare la comparazione con altri modelli similari (memoria).

I nuovi modelli di osservazione erano emersi da un mutato modo “scientifico” di considerare e organizzare la percezione sia che fosse di carattere fisico, o linguistico-concettuale, o psichico.

Non a caso la rappresentazione nelle opere degli artisti d’avanguardia emergeva meglio quando si osservava la dinamica della percezione con cui l’opera veniva assemblata per raccontare con un modello l’esperienza di una cognizione o di un fatto.

L’osservatore dell’opera d’arte fu considerato alla stessa stregua di un osservatore di fenomeni. Egli era posto al centro di un sistema di cognizione con i suoi modelli interpretativi in continua correlazione ed evoluzione tra percezione, memoria ed esperienza.

In questo modo si confrontava il modello dell’osservatore al parametro del modello utilizzato dall’artista nel suo racconto.

Quello che fu importante per le nuove forme della cultura è questo trovare i nessi, o collegamenti, attraverso cui un modo di organizzare e percepire un fenomeno si poteva condividerlo con altri, mettendo al centro e a confronto i punti di vista di uno o più osservatori.

Il nuovo metodo del conoscere e sperimentare consisteva nel considerare i fatti emergenti dai modelli scelti dagli osservatori per evidenziare dei fini da raggiungere o da dimostrare come il percorso fosse una mappa cognitiva.

Lo scopo fu quello di rendere manifesto a tutti questo nuovo modello e metodo estetico d’interpretazione degli eventi attraverso la percezione, l’esperienza e la memoria.

I nessi furono costruiti secondo le teorie di una percezione dinamico-evoluzionista, e non statica del simbolo, o dialettica della rappresentazione.

Tutta questa nuova “dinamicità relativa”, che fu introdotta nell’arte dalla percezione cognitiva dei modelli in evoluzione, fu definita appartenere al genere “dinamico” che per prima fu proposto nell’arte dalle avanguardie storiche.

Nell’Ottocento vi era già stata una palese connessione tra le teorie scientifiche della percezione del colore e della scomposizione della luce con l’arte del “fare” visivo nelle discipline pittoriche e nel disegno; ma anche della scultura (se si guardano con attenzione le opere di Medardo Rosso [1858-1928], che appaiono più come “liquefazione” del movimento barocco nonostante che le sue opere fossero esaltate come impressioniste da Edgar Degas e da Auguste Rodin. Ricordo solo che l’artista della scapigliatura milanese ebbe tra i suoi allievi anche Umberto Boccioni che portò agli estremi limiti il movimento delle forme se si considera una delle sue più grandi opere d’avanguardia “Forme uniche nella continuità dello spazio” [1913]).

Le opere di Boccioni e dei futuristi diventano significative ed espressive secondo un linguaggio nuovo quando si guardano le loro “forme uniche” come risultanti di un insieme di movimenti ripresi, esperiti e ricordati durante un’azione.

Sia che queste azioni siano prodotte da un uomo, o da un calciatore, o da un ciclista, o da un’automobile, o da un cavallo vi è sempre un’interazione tra l’ambiente e il movimento che l’artista coglie come percezione d’un insieme di forme in movimento che si spostano nello spazio-tempo.

Le forme che si ripetono e l’azione dei corpi interagiscono tra loro. Sono esse che indicando le direzioni impresse all’azione e registrate dall’accelerazione prodotta dalle forze dinamiche.

L’artista racconta la percezione e l’influenza che lo spostamento dinamico ha dal suo punto di osservazione dei fatti e che egli trasmette all’opera per mezzo dell’esperienza e del ricordo.

L’intento di queste opere futuriste è di porre il fruitore al centro del quadro con la sua percezione del movimento e del ricordo di un’esperienza.

Egli non deve cercare o evocare un racconto simbolico per dare un senso all’opera cercando la visione nascosta dell’artista, ma deve far riemergere dalle linee forza e dal movimento quella dinamicità percepita dall’artista e ora manifestata come forza dirompente di un racconto dinamico.

Per questa ragione, a mio giudizio, fondamentale nella descrizione di un’opera del primo futurismo divenne: percepire il movimento.

Boccioni decise di cogliere nella materia statica anche il movimento impresso alla vita dalle nuove macchine che trasmettevano la loro dinamicità alle persone delle grandi metropoli.

Questa forza, che si manifestò con la dinamica delle macchine, si rese palese specie nelle grandi metropoli dove erano presenti molte industrie e i trasporti innovativi che utilizzavano forze meccaniche.

Il movimento futurista fu consapevole che la nuova civiltà industriale fondata sulla forza motrice delle macchine stava modificando anche la vita degli uomini. Non solo le macchine avevano moltiplicato la forza degli uomini ma la presenza nelle grandi città di tram, di metropolitane e di automobili, insieme ai già collaudati treni permettevano una maggiore velocità nei contatti.

Le nuove macchine, specie per i sobbalzi provocati dal traino di veicoli da parte di forze motrici, ispirarono alcuni artisti ad annunciare una nuova forma d’arte che sarebbe stata costruita sulla percezione delle forze dinamiche.

Del resto, la diffusione dell’elettricità permetteva una maggiore promiscuità dei contatti, specie durante la vita notturna. Essa si svolgeva ora anche fuori dai salotti letterari e dai teatri e entrava nei bar, nelle sale da ballo, o permetteva di fare esperienza della novità del momento: il cinematografo.

Il movimento futurista fu il primo movimento che fu consapevole come la nuova civiltà industriale avrebbe modificato la percezione e la cognizione dell’uomo.

L’arte coeva non poteva ignorare questo cambiamento della percezione secondo le dinamiche del movimento.

L’artista futurista fu indotto a rappresentare il movimento con un’immagine che dovesse contenere anche lo spostamento nello spazio della forme.

Mettere in relazione la dinamicità delle macchine ai movimenti emozionali delle persone imprimeva un’accelerazione agli eventi che produceva quel “nuovo sentire” delle forze non solo in movimento dinamico, ma anche finalizzate a raggiungere e ad esaltare un fine nella vita.

Boccioni secondo queste teorie costruisce il “corpo scultoreo” in movimento nella “continuità spazio-temporale”.

Egli aggiunge all’esperienza del movimento dinamico il proprio ricordo emozionale suscitato dall’esperienza di quell’azione.

Non a caso l’artista di questa opera “Forme uniche nella continuità dello spazio” ebbe ad affermare che «Questo succedersi, mi sembra ormai chiaro non lo afferriamo con la ripetizione di gambe, di braccia, di figure, come molti hanno stupidamente supposto, ma vi giungiamo attraverso la ricerca intuitiva della forma unica che dia la continuità nello spazio». (sta in Linda Henderson, Futurismo italiano e “La Quarta dimensione”, in Art Journal, vol. 41, n. 4, 1981, pp. 317–323).

Il movimento futurista aveva l’intento di rinnovare l’arte col rappresentare la velocità e la forza del dinamismo impresso dalle macchine alla vita umana.

L’uomo anch’esso macchina sprigionava forze in movimento.

Il fine dei primi futuristi fu cogliere e fare una sintesi rappresentativa di questa forza dinamica.

Il racconto dell’arte con i futuristi trovò nuovi fondamenti estetici come proprio il movimento, l’emozione e il ricordo di quanto l’artista aveva percepito o recepito come esperienza durante un’azione.

Boccioni, anche se si era formato come pittore, iniziò la propria carriera di scultore nel 1912.

Egli prima di ultimare la sua scultura “Forme uniche nella continuità dello spazio” dipinse un’opera poco ricordata della dimensione di cm 195×200, dal titolo Dinamismo di un Footballer, ultimata nel 1913 ed oggi esposta nel Museum of Modern Art di New York. Essa è anche la prima opera dedicata allo sport del calcio in particolare.

Questo quadro viene composto nello stesso periodo della scultura. Ricordiamo cosa avevano scritto nel 1910 i firmatari del manifesto della pittura futurista: «“È vitale solo quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda (…) Noi vogliamo rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa” (U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla, G. Severini, Manifesto dei pittori futuristi, 1910)».

Boccioni per la sua scultura volle rappresentare una forma che apparisse come un “continuum sintetico” del movimento. Egli non aveva intenzione di riproporre in scultura quella “discontinuità analitica” che aveva percepito raffigurata da altri artisti. Mi riferisco ad esempio a un artista oggi quasi dimenticato come František Kupka nel suo quadro Femme cueillant des fleurs (1908) [o come in una sua opera che anticipa il periodo astrattista Les Touches de piano (1909)] o come Marcel Duchamp nel Nudo che scende le scale (1912) o come lo stesso amico Giacomo Balla nell’opera Ragazza che corre sul balcone (1912).

Quadri questi che ancora non possono essere indicativi per la rivoluzione che Boccioni aveva in mente nel comporre la più importante scultura innovativa della prima metà del Novecento.

L’intento di Boccioni fu quello di liberare la scultura dall’arte “mummificata” del passato e da qualsiasi altra forma di staticità moderna. Rimane chiaro qui l’allusione al cubismo e a Duchamp, ma anche alla rappresentazione intesa come un voler cogliere degli artisti di alcuni elementi a emblema di movimenti.

Il movimento, e solo quello, ispira Boccioni; se si prende spunto da quanto dichiarato nei manifesti che egli aveva firmato in quel periodo.

Si può anche accettare il giudizio di alcuni critici che dichiarano che la sua opera osservata lateralmente appare a molti come uno “scorticato anatomico” umano.

Si riconoscono in modo distinto alcuni muscoli, come i polpacci, l’articolazione di un ginocchio, l’altro disteso, e i piedi. La figura è percepibile come una “struttura” appartenente a un ingranaggio in movimento.

Ma chiedo invece di osservare meglio le caviglie, i piedi e i polpacci che sembrano più di uno formando una continuità di movimento. Questa memoria del movimento è la percezione di un’esperienza dinamica che si è costituito col ricordo.

L’uomo è senz’altro un uomo in corsa che è colto mentre solleva e pone i piedi sul piano d’appoggio. La sua corsa è veloce, dinamica; fatta di spinte e di sollevamenti muscolari delle gambe, che si spostano con il piegamento del ginocchio “moltiplicato” e di quello dei piedi anch’essi ripresi nello spostamento. L’insieme appare una immagine moltiplicata in avanzamento dinamico, proprio per la velocità percepita dall’artista durante l’azione della corsa.

La figura dell’uomo moltiplicato in corsa si sviluppa per mezzo dell’alternarsi di movimenti, di forze che spingono l’intera massa della sagoma umana in avanti.

L’opera può essere analizzata anche seguendo la percezione della scultura in bronzo che si presenta come l’alternarsi di cavità, di rilievi, di zone piene e di anfratti vuoti che producono una discontinuità di chiaroscuro per mezzo di alcuni repentini passaggi dalla luce all’ombra che evocano la evanescente e particolareggiata vaporosità della scultura barocca berniniana che era stata portata agli estremi limiti da Medardo Rosso.

L’insieme dell’azione dell’opera di Boccioni induce però a cogliere l’uomo (o quasi sicuramente il calciatore senza pallone) durante la sua corsa  ̶  forse ricostruendo con la memoria della corsa un altro movimento dell’atleta presente nel quadro che stava dipingendo in quel periodo, con l’aggiunta ispirata dall’immagina della scultura senza testa di Rodin, L’homme qui marche del 1907 dove l’artista francese aveva raffigurato un corpo senza testa e senza braccia per concentrare l’attenzione dello spettatore sul movimento  ̶ .

L’uomo di Boccioni però corre!

In Boccioni non sono i pieni e i vuoti a generare il movimento ma l’azione fisica. La trazione muscolare si ripete in modo sintetico e dinamico e mostra anche la potenza della corsa dell’uomo, o del calciatore.

In tal modo sembra che la figura si modelli a seconda della posizione dell’osservatore; di come egli percepisce le varie azioni della corsa e in che modo gli appare la dinamica dell’azione rilevata da vari punti dello spazio circostante.

Questo insieme di percepire i pieni e i vuoti secondo l’azione determina un modo differente di osservare il movimento, durante una continuità di spostamenti intorno all’opera.

Solo a un osservatore che cerca la forza impressa come dinamica del movimento, l’opera può apparire nella funzione voluta dall’artista.

Boccioni plasma continuamente il movimento delle forme seguendo un continuum, nel cronotropo.

Il movimento continuum è in questo caso percepito insieme alla forza impressa dall’azione di un giocatore, o di un atleta che è colto mentre corre (nel senso che sono presenti vari movimenti del corpo colti durante lo spostarsi in uno spazio-tempo).

Chi si avvicina a questo nuovo modello di percepire con l’azione un evento cognitivo e sensoriale riconosce nel futurismo le regole di un nuovo modello di pensare e osservare il mondo e gli eventi… e riconosce Forme uniche nella continuità dello spazio quale scultura che introduce nell’arte la percezione del movimento fisico che si compenetra e pervade attraverso le linee forza l’ambiente secondo i canoni nuovi che collegano la percezione all’esperienza e alla memoria dei modelli sensoriali.

Del resto Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909 aveva affermato “Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”.

Egli aveva così descritto da dove potesse emergere l’adesione alla nuova visione estetica fondata su velocità e dinamicità della percezione in un ambiente relazionale.

L’uomo moderno grazie alle teorie scientifiche era immerso in uno spazio-tempo “assolutamente dinamico”. Egli non doveva più volgersi indietro per cercare un superato assoluto ideale, o astratto, o storico, nel mondo moderno di allora.

La vita, infatti, s’ispira ora a nuovi modelli culturali insieme al progresso e all’innovazione; per questo motivo l’uomo nuovo è proiettato verso il futuro, che è dinamico.

Il passato guarda indietro mentre il futuro è rappresentato da tutto ciò che imprime forza e energia all’azione e al pensiero della vita.

La bellezza della velocità artistica ha nuovi canoni: non presenta forme chiuse che rappresentano un’azione ma forme aperte e dinamiche.

Boccioni riscontra un ossimoro nella scultura a partire già dalla Nike di Samotracia risalente al II secolo a.C. e che fu ritrovata nei pressi di Samotracia nel 1863 e poi restaurata ed esposta al Louvre. L’ossimoro di quella statua per il grande artista italiano consiste nel rappresentare il movimento stando ferma.

Il suo intento fu invece dare dinamicità e sintesi del movimento alla scultura col suo “uomo in corsa”.

Egli dà avvio a una originale rappresentazione che configura un nuovo modello relazionale e che può essere percepito solo «attraverso la ricerca intuitiva della forma unica che dia la continuità allo spazio».

Da questa sua affermazione pochi teorici dell’arte hanno osservato che le sue riflessioni innovative nel campo artistico insieme alle sue opere possono essere state ispirate o sono contigue non solo alla relatività di Einstein con la rivoluzionaria teoria del cronotropo, ovvero dello spazio-tempo inscindibile, ma anche in parte e principalmente vicine alle speculazioni del filosofo che trattò la percezione tra materia e memoria, Henry Bergson.

Per comprendere meglio cosa s’intende per dinamismo plastico nell’arte della scultura, vi rimando alla lettura proprio del manifesto del 1913 sul dinamismo plastico di Boccioni che vi riporto integralmente per la sua importanza teorica che permette di rilevare e distinguere in che termini la dinamica rientra nel progetto futurista.

Prima di leggere il manifesto vi chiedo di farlo senza prevenzioni. Tentare di scoprire nelle opere futuriste i motivi nuovi per cui “la forma in moto e il moto della forma” inducono a guardare l’architettura di una composizione non più secondo canoni o moduli statici che inducono a un pensiero astratto, piramidale. L’intento di questo movimento era il seguire una evoluzione delle forme a spirale, che doveva presentarsi come percezione dinamica, per permettere di cogliere la “vita plastica nel suo manifestarsi”.

Questo pensiero in movimento, come la dinamicità degli eventi, l’artista non deve “estrarlo e trasportarlo fuori del suo ambiente vitale”; egli deve descriverlo nella plasticità del movimento “cioè senza arrestarlo nel suo moto”.

Il pensiero che fino ad allora era considerato astrazione statica, coi futuristi inizia a partecipare al fluire dinamico dell’esistenza.

Si legge nel Manifesto della scultura: “Mi sembra che quanto affermo non sia un’astrazione pazzesca, come hanno creduto tutti coloro che hanno sorriso stupidamente sulle nostre ricerche. Anzi è la statica degli antichi un’astrazione contro natura, una violentazione, un distacco una concezione fuori della legge di unità nel moto universale. Noi non siamo quindi CONTRO-NATURA, come credono gl’innocenti ritardatari del verismo e del naturalismo, ma CONTRO-ARTE, cioè contro la statica che da secoli ha sempre dominato salvo rarissimi tentativi che riscontriamo nelle ore più calde e nelle epoche più vive”.

Il pensiero col Dinamismo Plastico diventa relativo e dinamico, al pari delle nuove concezioni sull’esistenza.

Si accede così, attraverso questo pensiero a spirale e in continuo fluire dinamico, alle nuove concezioni e visioni dell’arte dei movimenti contemporanei inaugurati dal futurismo.

DINAMISMO PLASTICO               Il dinamismo plastico è l’azione simultanea del moto caratteristico particolare all’oggetto (moto assoluto), con le trasformazioni che l’oggetto subisce nei suoi spostamenti in relazione all’ambiente mobile o immobile (moto relativo).Dunque non è vero che la sola decomposizione delle forme di un oggetto sia dinamismo. Certamente la decomposizione e la deformazione hanno in sé un valore di moto in quanto rompono la continuità della linea, spezzano il ritmo silhouetteistico e aumentano gli scontri e le indicazioni le possibilità e le direzioni delle forme. Ma questo non è ancora il dinamismo plastico futurista, come non lo è ancora la traiettoria, il dondolio a pendolo, lo spostamento da un punto A a un punto B.Dinamismo è la concezione lirica delle forme interpretate nell’infinito manifestarsi della loro relatività tra moto assoluto e moto relativo, tra ambiente e oggetto fino a formare l’apparizione di un tutto: ambiente + oggetto. È la creazione di una nuova forma che dia la relatività tra peso ed espansione. Tra moto di rotazione e moto di rivoluzione, insomma, è la vita stessa afferrata nella forma che la vita crea nel suo infinito succedersi (Canti gutturali. Trombette). Questo succedersi, mi sembra ormai chiaro, non lo afferriamo con la ripetizione di gambe, di braccia, di figure come molti hanno stupidamente creduto, ma vi giungiamo con la ricerca intuitiva della forma unica che dia la continuità nello spazio. Essa è la forma-tipo che fa vivere l’oggetto nell’universale. Dunque all’antichissimo concetto di divisione netta dei corpi; al più moderno concetto impressionista di suddivisione o ripetizione o di abbozzo delle immagini, noi sostituiamo a tutto ciò il concetto della continuità dinamica come forma unica. E non a caso dico forma e non linea perché la forma dinamica è una specie quarta dimensione, in pittura e scultura, che non può vivere perfetta senza l’affermazione completa delle tre dimensioni che determinano il volume: altezza, larghezza, profondità. (Grida: basta! non è vero! proiettili).Per la scultura abbiamo pensato di rompere l’unità della materia in parecchie materie, ognuna delle quali servisse a caratterizzare, con la sua diversità naturale, una diversità di peso e di espansione dei volumi molecolari, per ottenere con ciò un primo elemento dinamico. (Grida di pazzo, matto, ecc.).La ricerca della forma sul vero ha sempre allontanato la scultura e la pittura dalla loro origine: L’architettura è per la scultura quello che per la pittura è la composizione e infatti la mancanza di architettura è uno dei caratteri negativi della scultura impressionista. D’altronde lo studio pre-impressionistico della forma conduce fatalmente a forme morte e quindi all’immobilità: questa immobilità è uno dei caratteri principali della scultura cubista.Tra la forma reale e la forma ideale, tra la forma nuova (impressionista) e la forma tradizionale (greca) noi abbiamo trovato una forma variabile, evolutiva, diversa da qualsiasi concetto di forma fino ad ora esistito. Noi futuristi abbiamo scoperto la forma in moto e il moto della forma. Solo con questa concezione della forma si può dare l’attimo di vita plastica nel suo manifestarsi senza estrarlo e trasportarlo fuori del suo ambiente vitale cioè senza arrestarlo nel suo moto. (Cori becereschi. Carote).Quindi in scultura noi cerchiamo non già la forma pura ma il ritmo plastico puro, non la costruzione di corpi ma la costruzione dell’azione dei corpi.Noi abbiamo abolita l’architettura piramidale per dare un architettura spiralica. Un corpo in moto perciò non è un corpo fermo e poi resto in movimento, ma è un corpo veramente mobile cioè una realtà vivente assolutamente nuova e originale.Col dinamismo, adunque, l’arte sale ad un piano ideale superiore, crea uno stile, esprime la nostra epoca di velocità e simultaneità. Quando ci vengono a dire che nel mondo vi sono dei moti ma anche dei riposi e che non tutto corre con velocità, noi rispondiamo che la nuova pittura è la concezione che domina il visivo, il quale non scorge che il frammentario e perciò suddivide. Quindi  il Dinamismo è una legge generale di simultaneità e di compenetrazione che domina tutto ciò che nel movimento è apparenza, eccezione o sfumatura. Del resto noi ci siamo chiamati i “primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata”. Questo ammetteva implicitamente una chiarissima visione delle nostre possibilità creative. Dovendo tutto ricreare, noi futuristi siamo costretti a fare uno sforzo maggiore di quelli di tutti i rivoluzionari finora apparsi nell’arte.Per la prima volta con noi futuristi è apparsa nell’arte plastica la simultaneità scultorea analoga alla simultaneità pittorica. La costruzione architettonica a spirale crea davanti allo spettatore una continuità che gli permette di seguire attraverso la forma forza che scaturisce dalla forma reale, una nuova forma che determina gli oggetti nel loro moto.Con questo abbiamo potuto affermare che la forma forza esprime la potenzialità della forma viva! Con questo un’insieme scultoreo si svolge nello spazio dato dalla profondità del volume mostrando lo spessore di qualsiasi profilo e non tanti profili immobili come nelle statue tradizionali. Mi sembra che quanto affermo non sia un’astrazione pazzesca, come hanno creduto tutti coloro che hanno sorriso stupidamente sulle nostre ricerche. Anzi è la statica degli antichi un’astrazione contro natura, una violentazione, un distacco una concezione fuori della legge di unità nel moto universale. Noi non siamo quindi CONTRO-NATURA, come credono gl’innocenti ritardatari del verismo e del naturalismo, ma CONTRO-ARTE, cioè contro la statica che da secoli ha sempre dominato salvo rarissimi tentativi che riscontriamo nelle ore più calde e nelle epoche più vive. Nella realtà il gesso statico della Grecia e dell’Egitto è ben più arbitrario della nostra continuità dinamica. Non bisogna mai dimenticare che noi seguiamo una tappa del processo di compenetrazione, di simultaneità, diffusione che l’umanità opera attraverso la velocità da migliaia di anni. (In mezzo ad urla selvagge un idiota interrompe l’oratore gridando: ma ci spieghi cosa vuol dire…. Boccioni di rimando: Non potrò mai spiegarlo la sua imbecillità!… Applausi vivissimi, urla, insulti. Una pioggia di fagioli bianchi copre l’oratore sempre impassibile).Di conseguenza anche in scultura per mezzo della compenetrazione di piani noi facciamo vivere la figura nel suo ambiente senza renderla schiava di luci artificiali o fisse o di piani di appoggio. Tali procedimenti distruggerebbero la legge architettonica e dovrebbero ricorrere troppo all’aiuto della pittura secondo l’errore fondamentale della scultura impressionista. Bisogna  quindi innalzare la concezione dell’oggetto ad una risultante plastica: di oggetto più ambiente. Si  avrà così il prolungamento di un corpo nel raggio di luce che lo colpisce unendo insieme blocchi atmosferici ad elementi di realtà più concreti.Esortiamo i giovani a dimenticare completamente la figura chiusa nella linea tradizionale risultato di cultura e gli accademia, di tradizione!… La scultura futurista darà invece la figura come centro di direzioni plastiche nello spazio. (Bum! bum! fischi assordanti!).Bisogna liberarsi da tutte le vecchie formule!…Bisogna distruggere quanto c’è in noi ancora di statico, di silenzioso, di passatista ! Non mi stancherò mai di ripeterlo: non vi è più pittura che nel dinamismo plastico! (non è vero! fischi patate…. carote….).Il dinamismo in pittura e in scultura è dunque un concetto evolutivo della realtà plastica. È  l’esponente di una sensibilità che va concependo il mondo come un succedersi infinito di una varietà in evoluzione, che è la vita stessa, noi futuristi abbiamo potuto creare la forma tipo, la forma delle forme, la continuità. (Applausi da molti gruppi di giovani artisti, tempesta di urla e gli insulti).Umberto Boccioni «Lacerba», a. I., n.24, 15 dicembre, Firenze 1913.

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