Fino a quando, insonne come un cane rabbioso, la vede distesa a letto, nuda sotto le coperte, la spalla eburnea e il lungo braccio candido che affiorano dal lenzuolo

di Luigi Fabio Mastropietro

Il mondo è sottile e piano:
pochi elefanti vi girano, ottusi.

(Amelia Rosselli, da Documento, 1966-1973)

II

Lui nasce con una malformazione doppia del cuore, curvo e biforcuto nei rebbi ribelli, a inforcare l’esistenza come un pesce d’argento all’amo.

In fondo al suo petto batte a dirotto il diapason che lo mantiene in vita, accordato sulla frequenza di 432 Hz. e ogni singola pulsazione al secondo compie il miracolo di 9.192.631.770 oscillazioni complete delle onde di luce emesse dall’atomo di cesio 133 tra due particolari livelli iperfini.

Questa è la vita, ma Lui non lo sa e non immagina che se un giorno perdesse tutto il vuoto che lo divora dall’interno, tutto lo spazio vuoto presente all’interno dei suoi atomi, si ridurrebbe ad una particella di polvere di piombo e svanirebbe senza lasciare traccia.

E sono ormai lontani i giorni della stella marina, quando Lui affrontava la vita quotidiana con lo stomaco di fuori e impugnava la parola fatica come un proietto pirotecnico.

“Buongiorno e ben trovata, Tristana!” diceva ogni mattina alla sua edicolante, una bruna effervescente e rotonda come una Perrier da 20 cl. “Quale giornale le do, questa mattina che è bello e raggiante come il sole?”, chiosava Tristana e Lui di rimando “Il solito … fresco di giornata come Lei e sempre in grande forma, Tristana … le farà bene vendere catastrofi e magari l’avere una certa clientela …”, concludeva sorridendo.

Dopo tanti giorni immolati sull’altare del domani, e le notti bianche di pece, una afasia scettica e fatale gli ha legato la lingua e di Lui adesso rimane veramente poco, la fiamma guizzante nelle orbite stanche e un fascio di nervi scordati.

Poi c’è il pensiero di Lei, l’ombra inesorabile dello sferragliante Golem che oscura il sole.

Si può amare chi non esiste?

Lui non ci pensa ma sente che questa aspettativa é insulsa e lo sta sfibrando.

Lei non farà mai niente altro che continuare a fissarlo, come si fissa il vuoto, senza mai aprire bocca o muovere un dito.

Eppure Lui non può mancare al diuturno appuntamento con questa dannazione spicciola e quando, dopo aver salutato a voce alta senza che mai Lei gli risponda, spinge la porta a vetri che dà sulla strada, già si sorprende a pensare all’incontro dell’indomani.

Per se stesso prova una pena cupa, che lo fa vergognare come un ladro.

A volte, rientrando in ufficio, si blocca per strada, confuso dall’incessante tinnito auricolare, e getta indietro uno sguardo rapinoso. Poi si porta la mano destra al petto, per ascoltare l’eco immortale della caverna che lo abita.

Un giorno che é fermo all’angolo del palazzo degli uffici delle Assicurazioni Ecumene, con il respiro corto e il ruggito sordo nella testa, intuisce dietro di sé un movimento rapido e leggero, appena uno sbuffo d’aria, come se qualcuno fosse passato a pochi centimetri dalle sue spalle. Allora si gira lesto piroettando sui piedi, ma vede solo il marciapiede deserto.

Quando  torna a guardare davanti a sé, coglie una figura di spalle mentre infila il portone del suo ufficio. La sagoma scura gli è  familiare in un modo che gli procura una stretta allo stomaco.

Accelera il passo e, quasi correndo, arriva davanti agli ascensori del palazzo. L’androne è vuoto e silenzioso ma l’ascensore di servizio sta salendo e ora si ferma al suo piano, il quarto.

Lui imbocca il corridoio del quarto piano già con il fiato mozzo e si barrica dentro la sua stanza con i sensi in allarme, come se fosse inseguito da un assassino.

D’improvviso, seduto dietro la scrivania, lo aggredisce un furore buio, il mondo gli si rivolta dentro sferrando colpi alla cieca, e vorrebbe urlare a squarciagola per svuotare i polmoni dalla rabbia che lo soffoca ma riesce solo a piangere qualche lacrima stenta di acido solforico, mentre i battitori della carotide gli percuotono selvaggiamente i timpani.

Anche quella mattina è stato incapace di leggere nei suoi occhi diaspri un qualsiasi messaggio, un codice, seppure sotterraneo, una traccia di misericordia umana da seguire per strappare il bozzolo di vischio che lo lega quando Lei lo guarda.

Poi l’epifania.

Insperata e repentina come ogni miracolo che si rispetti.

Di colpo Lei gli sorride, senza motivo e senza espressione, scoprendo i denti bianchissimi come per controllarli la sera davanti allo specchio o come per sorridere al vuoto che puntualmente lo ingoia quando è davanti a Lei.

Con la fronte umida e lo stomaco in tumulto, Lui tenta allora una goffa manovra di avvicinamento alla cassa, per raccogliere la saetta della murena fino all’ultimo bagliore e dirle una cosa qualsiasi, non perdiamo il contatto altrimenti è la fine, ma viene miseramente respinto da spalle e gomiti mescolati e la scena, patetica e irripetibile, si chiude quando cade l’ultimo granello di sabbia e le labbra di lei si stirano nella suprema indifferenza di sempre, mentre Lui si congela sui propri passi, definitivamente inchiodato alla teca del suo sguardo.

Portfolio (Opere di Angiolo Mantovanelli, 1920-1981)

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L’inconoscibilità della realtà sensibile segna un clamoroso punto a proprio favore, con buona pace di trecentocinquanta anni di filosofia empirica.

Ma se l’empirico piange, lo stoico certamente non ride.

Al contrario, non si arrende alla sventura matrigna e rilancia la tensione narrativa, raddoppiando la posta gnoseologica.

Così, dopo il rimarchevole ma riprovevole episodio, Lui prende a spiarla ogni sera, immobile sul marciapiede di fronte, sicuro che presto Lei gli sorriderà di nuovo o comunque lo guarderà attraverso la vetrina, mostrando di riconoscerlo.

Eccolo in fervente attesa della seconda epifania, rammemorata nel prossimo futuro  anche con il nome di Primo Avvento, che anzi si sta già magnificamente rappresentando davanti ai suoi occhi infervorati. Lei lo nota e lo riconosce subito. Mentre lo guarda, sporgendo la testa corvina oltre la cassa, con un movimento aggraziato e molto femminile, gli indirizza con la mano un confidenziale quanto regale cenno di saluto.

Peccato che invece le sere corrano scivolose e rapaci l’una nelle braccia dell’altra, fino a confondersi perfettamente l’una con l’altra e imperfettamente sovrapporsi l’una sull’altra, come l’immagine di Lei che gli occhi stremati dalla diplopia gli rimandano ormai sdoppiata.

Ogni sera Lei resta immancabilmente incollata alla cassa, statuaria nella posa oltre che nelle forme. Rare volte, per i rari clienti notturni, inarca passi lenti e studiati fino alla macchina del caffè e sembra non accorgersi mai della presenza poliziesca che staziona sul marciapiede di fronte.

Poi, la mattina, ritorna l’immortale rituale degli occhi e Lei riprende a guardarlo senza mai colorare lo sguardo di alcun sentimento, fosse anche curiosità o almeno, ti prego, noia.

Nei suoi occhi niente, appena l’antica assenza della pietra.
La notte invernale brucia la città, accartocciandola come una vecchia cartolina nel fuoco, mentre il gelo della coscienza  sbarra ogni via di fuga nei purificanti paradossi del pensiero, presidiando trucemente le scalinate rovesciate di Escher.

Un enigma della percezione che Lui sta sperimentando proprio ora in tutto il suo orrore sovrano, stringendo i denti sotto la pioggia gelida, da sempre là, impagliato nel suo cappotto fradicio a non sentire più freddo né disagio, godendo perfino del sordo distacco per quello che gli sta accadendo dentro e per i rari sussulti di un mondo in agonia, sentendo appena il fiele dell’attesa viziare i suoi nervi, esaltarli consumandoli in un languore prelibato, benedicendo il buio precoce di dicembre e la luce elettrica, la Grande Esorcista, che dissipa il diabolico riflesso del giorno sui vetri e accende i riflettori sull’ennesima liturgia dell’Ascensione, potendo finalmente gli occhi profani del devoto scandagliare le sacre mura e ritagliare la sua santa icona.

Gli sfolgoranti abiti natalizi dei negozi del corso principale sono eccentricamente lontani dalla vetrina del bar, che resta spoglia e inetta. Una cruenta macchia di luce bianca racchiude e illumina a giorno l’altare sul quale la santa reliquia officia i suoi prodigi. Quella macchia barbara di fulgore ultramondano imprigiona l’anima di Lui, lacerandone i contorni, e lo muta nello schiavo del divino teatro, provvidenzialmente isolato dal resto del creato.

Le domeniche che il bar è chiuso per turno, Lui resta a casa sotto le coperte annodate, a fissare il bacio di due bocche concentriche sulla carta da parati.

Ciclicamente è scosso da violenti accessi di febbre, accompagnati da un incontrollabile tremore diffuso, che Lui addebita al fatto di mangiare sempre meno, perché gli pesa prepararsi anche solo un surgelato nel microonde.

Ma la madre di tutte le malattie è un’altra ancora e gli ricorda con incredibile precisione la condizione di Tarabas, il protagonista del romanzo di Joseph Roth.

“Anche nei meriggi caldi dei giorni d’estate lo prendeva ora, sempre più di frequente, il gelo. Il suo grande corpo, ancora forte, doveva cedere alla febbre che nei dolci giorni estivi lo accompagnava come un suo proprio inverno, tutto speciale. Lo assaliva inaspettata, ogni volta secondo il suo imperscrutabile capriccio. Tarabas non si difendeva più, come non ci si difende più dall’ombra che accompagna ogni uomo.”

E poi c’erano le notti, quando il sonno, prima appena frammentato e poi sempre più frantumato, comincia a mutare in uno stato di sopore aspro e dolente che gli paralizza le gambe, due legni abbandonati, in un generoso assaggio di inferno, la stanza si piega e si deforma in angoli impossibili che acuendosi allo stremo gli danno la caccia dall’alto, cecchini ciechi dell’incubo, mentre i cuscini si gonfiano ritmicamente al battito della bestia sovrana assoluta di tutto il mondo che pulsa all’unisono con l’acufene che lo atterra e lo fa sprofondare nel letto, pozzo senza pareti di alghe scure, risuonandogli nella testa con l’impronta atavica di scure creature che lo azzannano al culmine della tregenda.

Da qualche tempo, poi, ha smesso di lavarsi i denti prima di mettersi a letto. Una sera che il tinnito alle orecchie è più feroce del solito, si trascina in bagno e comincia a spazzolarsi i denti davanti allo specchio. Dopo aver sciacquato la bocca, rialzando gli occhi, vede se stesso allo specchio guardarlo fisso negli occhi, il volto immobile e tetro, con le mascelle tirate e le sopracciglia corrugate  in una espressione colma di odio.

In piena notte si risveglia in bagno, sdraiato sulle piastrelle e con la faccia gonfia come un annegato.

La privazione del sonno lo sfianca al punto che ormai in ufficio si assopisce sulla scrivania, cadendo in uno stato comatoso che gli attacca le labbra con una colla amara. Le prime volte, terrorizzato dall’idea che qualcuno possa entrare nella sua stanza trovandolo addormentato, si sveglia di soprassalto, il cuore in tumulto, sicuro di aver udito bussare, soprattutto i primi tempi, quando qualche collega, incrociandolo nei corridoi, mostra segnali d’allarme per il suo aspetto di uomo morto che cammina.

Ma presto tutti finiscono per ignorarlo e allora lui comincia ad addormentarsi anche nei bagni.

Brandelli di sonno virulento, rubati al delirio, che durano solo pochi avari minuti.

Riacquista una traccia di lucida veglia, solo quando, come un cristo risorto controvoglia, si trascina nel breve tragitto che lo separa dal bar, ogni volta deciso a parlarle, sempre animato da bellicosi propositi di incontri ravvicinati del terzo tipo destinati puntualmente a incagliarsi nelle secche della giornata.

Nel tardo pomeriggio, appena uscito dal lavoro, va di nuovo a incartocciarsi nella parete di fronte alla vetrina e, incurante delle occhiate allarmate dei passanti, aspetta, tremando a tratti, l’orario di chiusura del bar.

Alla fine di una eternità sempre uguale a se stessa, le luci interne si spengono e, dopo qualche minuto, si accende la luce di una finestra del piano di sopra.

Solo più tardi, sulla strada di casa, è colto da un frugale senso di liberazione, come se fosse appena guarito da una misteriosa malattia senza nome.

Una volta a casa, si lascia cadere seduto davanti al televisore spento e resta a lungo immobile, la testa reclinata all’indietro, gli occhi pietosamente chiusi.

Fino a quando, insonne come un cane rabbioso, la vede distesa a letto, nuda sotto le coperte, la spalla eburnea e il lungo braccio candido che affiorano dal lenzuolo.

La accarezza con lo sguardo e, serrando i pugni, si concentra allo spasimo, sforzandosi di tirare via quelle coltri con la mente, ma non riesce a cogliere un solo lembo cutaneo di quel corpo che ha sempre visto coperto, anche in sogno.

Dopo settimane di buio perfetto, una domenica che c’è il sole, ha un impulso ferino e sente montare dentro di sé un’energia di origine ignota, il canto del cigno, dicono, e allora decide di uscire di casa e di prendere l’auto per andare fuori città, verso il lago che ritorna sempre nei suoi sogni.

Perde mezza mattinata per radersi una barba vecchia di giorni con movimenti faticosi e appannati, ma alla fine è in auto.

Percorrendo la strada del suo ufficio, afferra con la coda dell’occhio il baluginare di un’ombra dietro la vetrina del bar.

Allora ferma l’auto nell’angolo deserto e scende di corsa.

La porta è sprangata per il turno di chiusura domenicale, ma Lei è dentro, appoggiata come sempre alla cassa e la sta spolverando, fissando distrattamente i tasti.

Per la prima volta da quando l’ha incontrata, non indossa il camice di lavoro ma una gonna scura al ginocchio e scarpe di vernice con i tacchi.

Lui si sforza di mettere a fuoco lo sguardo ma non riesce a scorgere bene oltre il riflesso del sole sul vetro se le gambe di lei sono nude o velate dalle calze.

Quasi inavvertito e leggermente polveroso come il tocco di una falena, qualcosa scivola con uno scatto morbido dentro di lui e spalanca gli occhi illibati e vede la pelle bianca e piena delle cosce e la sfiora, sentendola appena ruvida sotto le dita.

Lo stomaco gli si aggrappa alla gola e lo spinge in avanti, verso la porta chiusa. La mano bussa in fretta, le nocche sudate.

È tempo che un religioso silenzio congeli per una frazione di secondo la rotazione della Terra perché Lei si gira a guardarlo attraverso il vetro e, senza dare l’impressione di riconoscerlo, scuote stancamente la testa, come farebbe la madre con il figlio di un’altra, e poi si alza dandogli le spalle e infine scompare in fondo al locale.

Lui rimane fermo per un poco, come stordito da un’esplosione, poi, finalmente esausto, si accovaccia sul gradino, la testa reclinata contro il vetro e la bocca aperta, come un morto nell’attesa che il mondo finisca.

Più tardi, a casa, è inginocchiato in bagno a vomitare l’anima, e pensa di non meritare una malattia incurabile come questa, ma poi crolla a dormire profondamente e a lungo, per la prima volta da mesi.

Dal pomeriggio del lago mancato, è trascorso quasi un anno, durante il quale Lei ha smesso di fissarlo la mattina al bar e Lui di spiarla alla sera.

Lui ha ripreso a vivere seguendo distrattamente il filo delle trame quotidiane, con la diligenza della carta assorbente, sentendosi un sopravvissuto che è stato colpito a morte e si è salvato casualmente, per niente in colpa ma forse con il cuore appassito perché non avrebbe mai vissuto i momenti furenti di labbra e di denti che lo avevano perduto.

Ma si sa, il tempo non è mai lineare. Può essere circolare o spiraliforme e qualche volta può essere anche una voluta di fumo che si alza a toccare il cielo.

E allora, quando il sole è già alto, Lui sta attraversando la strada.
Il suo riflesso è un lampo nella bruma del mattino, una pennellata appena più densa nell’ultimo paesaggio destinato a perdersi per sempre nella storia che si ripete.
Tra un momento spingerà la porta del bar, da poco rinnovato, e questa volta le parlerà.
Come tutte le notti che ancora lo aspettano.

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