Quando manca un solido canone della tradizione, già distrutto da tempo dalle avanguardie storiche, la produzione del nuovo è impossibile e anacronistica come  sono gli archivi digitali che pretenderebbero di soppiantare il vecchio

di Francesco Correggia

Il processo di digitalizzazione è ormai in corso e sembra portare con sé una svolta epocale e rivoluzionaria nelle relazioni sociali, nella cultura, nelle nostre esistenze e nello stesso rapporto fra arte e web. Certo non è un fatto nuovo. Da quando è nato il computer, l’arte si è sempre cimentata con questo mezzo, penso alla computer arte, all’illustrazione digitale in 2D e 3D,  ma ora con l’accelerazione prodotta dalla pandemia e la lotta per fermare i cambiamenti climatici e lo stesso sviluppo dei social media la stessa  sta assumendo un aspetto per certi aspetti inedito  aprendo la via a interrogazioni che investono il linguaggio e lo stesso rapporto fra conoscenza e informazione, conoscenza e sapere,  performance artistica della conoscenza e  teoria .

Una di queste problematiche che mette insieme la performance artistica e la comunicazione visiva dell’immagine è quella aperta di recente dall’esplodere della  Crypto art. Sono  bastati qualche articolo sui giornali di tendenza e la sua messa in scena sui media che il fenomeno è diventato virale. In modo particolare si è scatenata una specie di rissa mediatica dopo la vendita all’asta di un’opera di Michael Joseph Winkelmann conosciuto come Beeple diventato ora  il terzo artista vivente più quotato dopo Jeff Koons e David Hockney. L’opera venduta da Christie’s a una cifra astronomica (69 milioni di dollari) a parere di molti pensatori della critica ufficiale dell’arte  segnerebbe  l’entrata  di questo tipo di “oggetto digitale” nel mercato dell’arte tradizionale. Siamo proprio entrati nella dimensione della crypto mania, della crypto fashion nel nome dell’universo digitale e della lotta ai cambiamenti climatici. Bisogna dire che l’NFT non è altro che un certificato elettronico con un codice criptato e la firma dell’artista che attesta l’unicità e la proprietà dell’opera. Se fino a qualche mese fa la vendita degli NFT apparteneva esclusivamente al mondo della crypto art questa vendita sembra ora caratterizzarsi per  l’entrata  di questo tipo di nuovo oggetto smaterializzato nel mercato dell’arte tradizionale. La novità della Crypto arte  risiede nella formazione di comunità creative specifiche e soprattutto nelle forme di mercato che la supportano. Il suo funzionamento è trasparente, impalpabile come è il mondo digitale. Le criptovalute esistono su una blockchain, ossia un registro pubblico digitale a prova di manomissione. Come le valute reali, anche le criptovalute sarebbero “fungibili”, ossia interscambiabili.  Un pezzo di crypto art è invece non fungibile, da qui la sigla NFT  non fungible token  per distinguerlo da altre risorse crittografiche intercambiabili (come Bitcoin ed Ethereum). La caratteristica di quest’arte sembrerebbe essere la sua unicità. Gli artisti che vogliono vendere la loro opera come NFT devono registrarsi su un mercato, quindi coniare” (minting) i token caricando le loro informazioni su una blockchain. La tentazione di fare della crypto art il nuovo baluardo dell’arte liberata dal suo sistema è forte e si fonda sul fatto che da ormai molti decenni quel che chiamiamo il sistema dell’arte è in crisi soprattutto nella sua componente più sensibile che sarebbe quella del mercato. Fare dell’NFT un sostituto simbolico della forma artistica tradizionale dell’opera capace di  creare una specie di status simbolico senza produrre alcun oggetto materiale sembrerebbe a prima vista una svolta epocale, una specie di atto rivoluzionario, una nuova avanguardia, un atto di auto sostentamento economico libero dal sistema dell’arte. Questo è ciò che sostengono alcuni critici. Scrive Vincenzo Trione su La lettura del Corriere della sera: i crypto artisti provano a saldare arte e web. Non metadati né documentazioni di quadri, sculture , fotografie o installazioni, ma opere vere, eseguite in alta definizione, difficili da trasmettere, destinate a stare dentro  l’oltremondo, capaci di riattivare, pur se su un registro diverso, il ritorno dell’idea di aura di Walter Benjanin. Il fine ultimo conclude Trione è quello di mettere in crisi il sistema dell’arte e superare ogni mediazione (critico, gallerista, mercante) per riaffermare con forza l’eterna  attualità di valori come quelli di originalità e di non replicabilità.  In realtà non  è così e questo modo di intendere le cose dell’arte è fuorviante. Intanto bisognerebbe interrogarsi oggi sulla verità delle immagini, sulla loro trasmissione e replicabilità sul web, poi occorrerebbe, prima di qualsiasi richiamo ad una specie di meccanismo rivoluzionario nuovo che una macchina simbolica come il web mette in campo, cominciare a riflettere sul che cos’è dell’arte e il che cos’è oggi il nuovo e il ruolo che possono avere i musei dell’arte moderna e contemporanea, se possa ancora esistere una qualità formale, estetica dell’opera. La domande apparentemente scontate non lo sono affatto. Come nella filosofia ci si chiede che cos’è oggi la filosofia anche per l’arte vale la stessa interrogazione e non vale il fatto che l’arte contemporanea non è fatta per essere contemplata nei musei bensì deve circolare negli archivi digitali. Certo le forme di conoscenza sono cambiate come lo sono quelle del rapporto fra spettatore e opera d’arte, vedere e veduto.  Rimane però il fatto che il chiedersi che cos’è ha sicuramente a che fare con lo stesso significato e, dunque, con un sistema di valori che dobbiamo rivedere proprio oggi dopo la pandemia e la necessità di fermare quei cambiamenti climatici che sconvolgeranno la Terra nei prossimi decenni. Il che cosa del significato non può più basarsi sul fatto che la questione del linguaggio è spostata sul significante, sulla sua materialità o sulla sua sparizione. Non è più questa la questione, ma è  la stessa origine del senso, la sua escandescenza significativa, filosofica,  trascendente, pur nella finitezza della vita, a porsi come questione ineludibile dell’arte e non la sua messa in scena nei circuiti mediali. Essa cioè non sta nel superamento del sistema dell’arte, nell’abbatterlo e al suo posto costituirne un altro, parallelo seppure smaterializzato, bensì nella fondatezza epistemologica dello stesso linguaggio che usiamo per dire le cose dell’arte. Web e finanza si toccano  e la cypto art non fa che riprodurre lo stesso sistema che pretenderebbe di annientare. Essa non fa che riprodurre i modelli di riferimento scambiandone i valori simbolici per esempio fra arte e web, azione performativa e nuovo,  ma infine rimanendo saldamente ancorata a quei valori che pretenderebbe di confutare. E allora dov’è la novità ? Alla fine  l’opera rimane come oggetto   presso l’artista che l’ha fatta, rimane, cioè,  come cosa materiale  al di fuori della rete. Secondo quanto sostiene  Boris Groys seguendo la prospettiva foucaultiana, il corpo umano vivente, l’animalità umana, ha bisogno di manifestare se stessa attraverso la deviazione dal programma, attraverso l’errore, la follia, il caos e l’imprevedibilità. Questo è il motivo secondo Groys per cui l’arte contemporanea tende a insistere nell’esibire deviazioni ed errori, ovvero tutto ciò che rompe con la norma, interferendo con il programma sociale stabilito. Questa è anche la ragione per cui  l’avanguardia classica si schierava  più dal lato della macchina che da quello dell’animale umano. Tutto ciò sembra collocare l’arte in una dimensione di anti sistema, anti apparato. Ciò è falso  poiché è proprio questa posizione radicale, infine, che si riconverte a sua volta in norma, in sistema.

Bisogna, dunque, dire che l’opera è  pur sempre  un qualcosa  che risponde a determinati contesti e non solo del  presente; contesti storici e metastorici e ha sempre a che fare con un corpo.  Il suo corpo è la storia, potremmo anche aggiungere  il  significato. Tra l’artista e l’opera c’è sempre un corpo a corpo che sempre si rinnova e che ha come testimone la storia.  La sua ermeneutica è l’altro. Questo altro non è un osservatore qualsiasi presente, un altro che mi consente di dire che esisto nella relazione, una persona non necessariamente collezionista che guarda, socializza, si specchia sugli schermi riproducendo se stesso e il suo essere nel mondo, accedendo così ad uno spiraglio di mercato in rete e non è neppure uno spettatore immaginario. Esso è l’assolutamente altro. È quel che, sempre Groys, nel libro intervista Politica dell’immortalità chiama l’osservatore utopico, possibile, non esistente, il suo opposto. L’arena di confronto dell’arte oggi non  sono che i  morti, gli artisti morti che sembrano guardarlo dall’aldilà. Ciò a cui il filosofo o l’artista aspirano è una buona sepoltura, un posto sotto il cielo dell’aldilà, Non vogliono nessun paradiso o inferno ma aspirano alla ricerca dell’immortalità. Essa non significa un’entità esterna come quella di Dio, di uno spirito,  del web e neanche una fuga dalla realtà bensì che  l’immortalità viene perseguita con determinati oggetti del tutto reali  come le opere d’arte e i discorsi filosofici.

Slides (a cura di Francesco Correggia)

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L’artista e il filosofo scrive  Groys  che sembrerebbe confutare quel che lui stesso aveva sostenuto, non si preoccupano delle loro anime come fanno i santi, si preoccupano solo per  il loro cadavere che però può continuare a vivere , in quanto cadavere dopo la morte. Ma l’artista è anche colui che  non solo lavora sul cadavere, ma ne cerca ancora le metastasi che lo hanno colpito  da vivo. Ne disseziona le parti, infila il bisturi  in profondità e non sulla superficie affidandosi alle immagini, ad un’altra tipologia di mercato finanziario che fa uso del web. È in questo senso che l’arte riprende il suo ruolo sociale nel suo insistere nel luogo, direbbe Baudrillard, dove si è consumato il delitto. Non si risponde alla crisi dell’arte che è crisi del mercato e del suo attuale sistema (galleria, museo, pubblico, mercato, finanza)  con una altro sistema seppure apparentemente immateriale e rispettoso dell’unicità dell’opera.

Lo stesso museo tradizionale intanto à cambiato. Complice la fine della contemplazione ora il museo di arte moderna e contemporanea si rivolge alla dimensione contingente, defunzionalizzante dell’arte. Il museo è sempre più un luogo di sperimentazione e di ricerca e insieme alle mostre permanenti ora accoglie mostre temporanee che mettono in gioco lo stesso spazio architettonico del museo, la stessa logica fruitiva dell’opera. Le mostre ruotano intorno a progetti curatoriali che hanno come finalità il sociale, la lotta ai cambiamenti climatici, l’ambiente, le nuove tecnologie. Il museo diventa un luogo dove si nega lo stesso concetto di conservazione. Conservare non è più un prendersi cura dell’opera d’arte e farla fruire a un pubblico attento  ma una continua sua messa in crisi, un  continuo svuotamento, una continua sottrazione, uno spazio vivente di logiche contingenti e di confronto fra diverse teorie  inglobando tra le loro stesse attività la possibilità del fallimento, dell’irrilevanza storica e della distruzione. L’arte pertanto non può più essere sorpresa da ciò che osserva nel finestrino posteriore del progresso ma si limita a portare questo processo di disfacimento, questa  dimensione del  processo di disgregamento della vita  ad evidenza, toccando l’ambito sociale e usando in particolare i  social media.

Ciononostante non si risponde con un altro archivio digitale totalizzante al posto del museo, un archivio delle offerte di crypto art ad un mercato estasiato e sedotto per la novità, ma  cercando l’essenza stessa dell’arte, del che cos’è un’opera d’arte, della sua stessa esistenza in quanto opera non divina, ancora una volta ricercando il suo valore non economico ma assolutamente altro, quando l’altro è pensato in maniera radicale e cioè l’assolutamente nulla. È con questo altro che l’arte moderna e contemporanea sembra fare i conti, là dove il capitalismo finanziario che ha invaso quel che è rimasto dell’arte, arretra ed è costretto a replicarsi in nuove forme di dominio.

La logica dell’arte, dobbiamo ancora osservare, non è quella espansiva  del mercato finanziario, della logica mediatica, della presenza nei paradisi digitali bensì una forma di vita che presuppone un certo diritto sulle cose spirituali, una certa  Kenosis, parola  che apparteneva all’ambito religioso e che ora  è passata a quello dell’arte. Il  mondo dell’arte  è  essenzialmente una competizione non solo con i vivi ma anche e soprattutto con i morti ed è tale competizione che necessita di un pubblico. Non un pubblico del presente ma quello possibile, quello di un’alterità, dell’assoluto altro. D’altra parte non possiamo riconoscere il nuovo se non sappiamo esattamente quale sia l’aspetto del vecchio. Quando manca un solido canone della tradizione, già distrutto da tempo dalle avanguardie storiche, la produzione del nuovo è impossibile e anacronistica come  sono gli archivi digitali che pretenderebbero di soppiantare il vecchio. Certo ora la discussione su questi argomenti potrebbe aprirsi  e indicare nuovi varchi, nuove uscite alla questione complessa del rapporto fra arte e media digitali, arte, linguaggio e nuove tecnologie. Ed è proprio questa riflessione che oggi si pone come radicalmente urgente per ciò che chiamiamo il mondo dell’arte.