Il fulcro di queste opere, in base alla sezione aurea, è rappresentato dall’incunearsi della luce nei posti più oscuri e, nello stesso tempo, più pregni di valore simbolico: il disegno di due storpi (di cui uno quasi nascosto) in un’opera, una serpe e un fanciullino visto di spalle e poco visibile nell’altra

di Massimo Pamio

Nel mio studio di recente pubblicazione, “Chi era Francesco Paolo Michetti. Interpretazione critico-estetica e grafologica” (Edizioni Mondo Nuovo), scritto con Monica Ferri, ho cercato di allargare gli orizzonti ermeneutici riguardanti l’opera dell’artista, soffermandomi sulle qualità leonardesche di Michetti, cercando anche di approfittare dell’applicazione di rapporti matematico-geometrici all’interno dei quadri.

Michetti usa tele fuori formato (le assembla lui stesso) con l’idea di mostrare palcoscenici. In primis, la sua è una scelta tecnica. Quel che illustra, è prodotto da un’immaginazione scientifica, rigorosamente tecnica, determinata da misurazioni numeriche e geometriche. Di fronte a un’opera michettiana, si dispiega la volontà di un inventore che manipola, che si affida a una proiezione meccanica, a un’elaborazione matematica. Se La raccolta delle zucche, Il Corpus Domini, I Morticini sono macchine scenografiche teatrali, Il Voto, La figlia di Iorio, Le Serpi e Gli storpi sono proiezioni cinematografiche. Il motivo che le accomuna non è da rintracciare nella narratività, piuttosto nella captazione del movimento ai fini narrativi. Michetti anticipa il movimento meccanico (e matematico-geometrico) futurista di Boccioni e Balla, che privilegiano la movimentazione del colore e la scomposizione del disegno per ottenere quei risultati che invece Michetti aveva già conseguito in modo più semplice e produttivo. Si potrebbe dire che l’Abruzzese sia interessato più al mezzo tecnico che al contenuto. Ed è così, perché per lui quel che conta è l’impianto scenografico. La narrazione ne è la conseguenza. Si tratta di un sogno della perfezione tecnica, un sogno che trascina le forme e i colori e la luce in una teatralizzazione funzionale. Dall’analisi dell’applicazione della sezione aurea (che ho effettuato grazie all’architetto Mario Rispoli) a Le serpi e Gli storpi, però, si desume un’altra verità: il perfetto connubio tra mezzo tecnico e raffigurazione ideale. Ne scaturisce un altro elemento: che la luce e la sua proiezione siano un’idea dell’arte, siano un a priori del vedere e che da questi conseguano naturalmente le visioni, cioè il mondo reale. Il fulcro di queste opere, in base alla sezione aurea, è rappresentato dall’incunearsi della luce nei posti più oscuri e, nello stesso tempo, più pregni di valore simbolico: il disegno di due storpi (di cui uno quasi nascosto) in un’opera, una serpe e un fanciullino visto di spalle e poco visibile nell’altra. Gli ultimi sono i veri protagonisti delle opere di Michetti, grazie al loro comparire e scomparire nella luce. Gli ultimi – gli storpi, i bambini – sono il sale del mondo, sono la luce che si fa mondo ideale, in virtù di una rappresentazione della rappresentazione, di un guardare attraverso, di un consegnarsi alla visione per venirne restituiti nello sguardo dell’oggetto che interroga il vedente. La luce al servizio di un’idea dell’arte: è la sintesi della poetica michettiana. Se si osserva da questa prospettiva, la rappresentazione del paesaggio e dei popolani d’Abruzzo non impallidisce, non più sacrificata sull’altare della messa in scena dell’opera. C’è da chiedersi: la storia della pittura non è forse questa? I pittori non hanno voluto rappresentare la guerra o la santità attraverso la luce corrusca di un’armatura o per mezzo di una relazione spaziale tra il Santo e il devoto? La storia dell’arte non si configura forse in base ai concetti dello spazio e della luce, del colore e delle forme, che una civiltà fa propri per il tramite dei suoi artisti e di altri fattori ambientali, sociali, scientifici, culturali? Ebbene, Michetti indica il passaggio da un’epoca a un’altra tramite la esposizione della mutazione della concezione della orizzontalità, egli percepisce e descrive nelle sue opere l’estendersi di quella percezione verso l’infinito che viene innescata dai nuovi mezzi tecnici (la macchina fotografica, la cinepresa). Anticipa non solo lo sguardo dall’alto del pianeta ma anche quello che imprigionerà l’uomo in uno schermo dello smartphone, e, nelle sue opere astratte, presuppone il sopravvento dell’idea rispetto al sentimento, il progressivo restringersi dell’uomo nel suo pensiero, in un ambito sempre più cervellotico e concettuale, che si manifesterà con la desertificazione del suo rapporto con la Natura, sostituito da quello con la città.

Slides (a cura della redazione)

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L’ultima fase michettiana è rivoluzionaria. Michetti dipinge quadri che oggi si definirebbero “astratti”, concetto che al suo tempo nessuno poteva esprimere, neanche lui, che non coglie il suo gesto profetico, la svolta epocale che prefigura. La pittura della luce implode, il movimento scompare, l’inquadratura e lo spazio cinematografico vengono sostituiti dal supporto; la carta o la tela emergono come unica verità della rappresentazione. Si tratta dell’ennesima scoperta michettiana: dell’essenziale, della pittura come arte della cattura della traccia del passaggio della forma sul pianeta. Non c’è più alcuna prospettiva, e nemmeno la proposizione di un’orizzontalità frontale che guida lo sguardo; se c’è movimento, è solo quello della luce e del gioco dei colori e dei contrasti, la rivincita del nero e delle ombre che sono il tramonto dei colori, il loro depositarsi dopo il movimento; ecco che cosa sono le ombre: la luce che si è depositata per sempre in un colore fino a fermarsi. Lo spazio è dato dunque dal fermarsi della luce, dal donarsi della luce sulle cose, fino a svanire in ombra. Michetti però sceglierà di non voler passare alla storia per questo tipo di scelta estetica, egli resta fedele allo sguardo dell’infanzia e di un mistico che sviluppa nelle prime quattro fasi della sua opera, in cui sprigiona la gioia di dipingere, la gioia di esserci senza motivi e senza alcun fine, la gioia di essere amore puro senza saperlo, di offrirsi senza sapere di essere un dono, ed è quel che non solo i quadri delle pastorelle e il cielo stesso e perfino gli sposi e le processioni, ma anche le file delle persone in movimento espongono: il loro appartenere alla loro infanzia come a un tempo dorato, gioioso, un sentire che non si dovrebbe mai smettere se veramente si voglia essere mondo nel mondo, senza separazioni, senza distanze, senza discriminazioni, senza la volontà di conoscere, a ogni costo. È l’appartenere umano all’infinito e all’animalità che l’attuale sistema economico sta dimenticando.

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