Poi, una notte, nella mia camera, Pablo mi si avvicinò alle spalle e mi strinse a sé con le braccia intorno alla vita. Aveva le braccia forti, i palmi ruvidi, la pelle abbronzata. Mi sollevò senza fatica, mi depose sul letto e si gettò sopra di me

di Mari de Iesu Correa e Luigi Fabio Mastropietro

   La Luna e il Minotauro – nel labirinto di Pablo Picasso, è un reading teatrale scritto appositamente per Picasso, l’amore e l’eros.  Attraverso la lettura drammatizzata di frammenti di testi inediti e di documenti editi di vari autori (lettere poesie diari) e la colonna sonora originale composta per l’evento da Mari Correa, evochiamo un percorso a due voci che indaga secondo canoni da art-fiction la relazione triangolare arte / eros / thanatos nella vicenda esistenziale di Pablo Picasso (Malaga, 25 ottobre 1881 – Mougins, 8 aprile 1973).

Il sestante del viaggio è rappresentato dallo sguardo tenero e crudele di Dora Maar (Parigi, 22 novembre 1907 – Parigi, 16 luglio 1997), all’anagrafe Henriette Theodora Màrcovitch, fotografa e pittrice ben introdotta nella cerchia parigina dei Surrealisti, donna colta, spregiudicata, indipendente, artista di grande talento e sensibilità, eclissata perché musa e compagna di Pablo Picasso e passata alla storia come Donna che piange – Femme qui pleure, dal ritratto del 1937 nel quale appare sfigurata dalle lacrime e in preda all’angoscia mentre morde un fazzoletto. Ma Dora non voleva che il mondo la ricordasse per questo: “Tutti i miei ritratti di Picasso sono bugie”, disse una volta, “Nessuno è Dora Maar”.

Picasso la induce ad abbandonare la fotografia per la pittura (dobbiamo a Dora Maar tutta la documentazione fotografica delle fasi di realizzazione di Guernica) ma poi la deride con critiche distruttive: «Tanti segni per non dire niente…». Pablo, da rabdomante dell’animo femminile, coglie subito il suo lato fragile: «Dora, per me, è sempre stata la donna che piange… l’incarnazione stessa del dolore… le donne sono macchine per soffrire». Dopo sette anni condivisi con altre amanti, Dora viene lasciata e cade in una depressione dalla quale si riprende a stento dopo gli elettrochoc e le sedute di psicanalisi con Jacques Lacan.

«Non sono stata l’amante di Picasso. Era solo il mio padrone», dirà poi nei lunghi anni trascorsi in totale solitudine, da autoreclusa. «Solo io so quello che lui è veramente … uno strumento di morte … non è un uomo, è una malattia».

Dopo le tormentate relazioni con la coetanea Fernande Olivier (1881-1966) e l’amica di lei Eva Gouel (1885 – Parigi 14 dicembre 1915), dal 1904 al 1912, negli anni della miseria, nell’abitazione studio al Bateau-Lavoir, a Montmartre, nel 1918 Pablo Picasso, alla presenza di testimoni d’eccezione, Apollinaire, Max Jacob e Jean Cocteau, sposa nel 1918 Olga Kokhlova (Nižyn 17 giugno 1891 – Cannes 11 febbraio 1955), danzatrice nei balletti russi di Diaghilev, e nasce il suo primogenito, Paulo.

Ma quando Pablo presenta Olga alla madre, Doña María dice: «Oh mia povera piccola, non sai a che cosa vai incontro. Nessuna donna potrà essere felice con mio figlio, perché lui è già sposato con la pittura – ya esta casado con la pintura».

Ben presto fa irruzione nella vita matrimoniale la modella diciassettenne Marie-Thérèse Waltèr (Le Perreux-sur-Marne, 13 luglio 1909 – Juan-les-Pins, 20 ottobre 1977). Picasso la sistema in una casa di fronte alla sua così da imporre un supplizio quotidiano a Olga che alla fine chiederà il divorzio e lo porterà in tribunale imponendogli la divisione del patrimonio. Olga morirà vent’anni dopo, ormai impazzita, mentre Marie-Thérèse, si suiciderà impiccandosi quattro anni dopo la morte di Picasso. Nonostante gli avesse dato un’altra figlia, Maya, anche Marie-Thérèse è tradita da Pablo con l’avvento di Dora Maar la quale a sua volta è poi soppiantata da Françoise Gilot (Neuilly-sur-Seine, 26 novembre 1921 – New York, 6 giugno 2023), una pittrice di ventidue anni.

Solo che, contrariamente al solito, dopo dieci anni e due figli, Claude e Paloma, per una volta è la stessa Françoise a lasciare Picasso. Lui minaccia il suicidio, ma lei si mette a scrivere le memorie della sua vita e Picasso si vendica ripudiando i due figli.

E nel 1952, Picasso conosce e poi più tardi sposa in segreto a quasi ottant’anni la trentacinquenne Jacqueline Roque (Parigi, 24 febbraio 1926 – Mougins, 15 ottobre 1986). Alla fine anche Jacqueline si suiciderà, con un colpo di pistola alla tempia, nel 1986.

Solo quel che arde diviene cenere.

Sacra è la cenere.

Tu mi sfiorasti e io divenni cenere.

Il mio io,

il mio essere divenne cenere,

consumato da te.

Così dice l’amante e il credente.

Tu mi sfiorasti.

Io sono sacro.

Non io ma la mia cenere è sacra.

(Pär Lagerkvist)

Conobbi Picasso una notte d’inverno del 1936, alla prima del film Il delitto del signor Lange di Jean Renoir. Mi presentai al cinema Aubert Palace, come fotografa ufficiale del set. Con Pablo ci stringemmo la mano. La sua stretta era forte e calda, tuttavia non gli sorrisi e in nessun momento mi sforzai di essere gentile, anche se ero consapevole della sua grandezza e della sua fama.

Slides (a cura di Luigi Fabio Mastropietro) 

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Quando finalmente ci incontrammo al caffè Les Deux Magots, rimasi colpita dai suoi grandi occhi neri. Fissava le persone al punto da farle sentire a disagio ma più che altro per la sua innata curiosità. Veramente trovavo ridicola la sua acconciatura, a cui lui teneva moltissimo.   All’epoca aveva 54 anni e si pettinava i capelli ormai grigi da destra a sinistra, in modo da coprire la calvizie con una specie di ciuffo. Ricordo che quella volta, mentre lui mi fissava, il mio primo pensiero fu che avesse l’aspetto di un vecchio un po’ patetico.

E invece, l’amore incondizionato delle donne intorno a lui aveva creato uno scudo impenetrabile quasi tangibile, facendo crescere in lui indisturbato il Minotauro: un essere mostruoso, egoista e viziato.

Quando quel giorno mi vide al tavolino del caffè, il suo sguardo penetrante si fermò su di me più di quanto fosse necessario, forse perché lo ricambiai allo stesso modo. Avevo pensato bene a come sedurlo. Non era la prima volta che mettevo in scena uno spettacolo del genere: la misteriosa ed elegante giovane donna che si presta al volgare gioco maschile del lancio del coltello tra le dita allargate sul tavolo.

Sfilai lentamente il guanto nero che indossavo perché l’impressione risultasse ancora più potente, mentre Picasso mi osservava con grande interesse. Con la mano nuda, afferrai il coltello e diedi inizio al gioco che avevo visto fare a Jacques Prévert. Ero rapida ma non abbastanza allenata da evitare che la punta del coltello finisse per sfiorarmi il dito e insanguinasse il guanto. Paul Eluard, che lo accompagnava, gli sussurrò il mio nome e Picasso alzò le sopracciglia e disse a voce alta, in modo da farsi sentire anche da me: “Ah, è lei, quindi, la famosa amante di George Bataille … il filosofo del desiderio …”

Con quel gioco brutale ero evidentemente riuscita a impressionare il grande pittore. Una danza pericolosa e una scena di sangue che gli ricordavano la corrida che lui adorava. Allora, mi si rivolse in francese, chiedendomi di regalargli il mio guanto insanguinato. Ed io, con un gesto plateale, gli risposi in spagnolo: “Toma mi mano también, soy toda tuya”.

In quel momento, allungandogli il guanto insanguinato, mi sentii come se stessi per lanciarmi in un tango. Come se avessi di nuovo 13 anni a Buenos Aires e mi avvicinassi al partner con un atteggiamento di sfida seducente. La testa alta, il collo teso, lo sguardo impaziente e vidi che anche lui era impaziente, vigile, teso. Ci sfiorammo prima con gli sguardi, poi lui prese la mia mano e io mi abbandonai alla danza.

Tus Ojos

lentas proas al borde del agua

aran mi sueño

en la ola de la melancolía que sube

y tu boca

Silene sedosa por la sombra

se abre a mi aliento

en drapear de la luz moribunda

pero aun cuando estás atado a mí

paraíso desbordante de piel radiante

sueño con deslizarme lejos de ti

para trasvolarte mientras me abrazas

manos y brazos de río indolente

fluyendo desde tu espalda desplegada

dentro de mí y más profundo aun

en la fibra de la tierra que me abraza

y despacio desgasta

el latido del mundo

Tú nunca duermes

amor bárbaro sin ojos

con tu mirada callada

y tus manos perdidas

mi piel lames distraído

ola suave e inadvertida

y secas mis lágrimas

como un viento que sopla fiebre

marcas el momento de la vida

como sangre que late en la garganta

pero como fuego que se traga el aire

ardiendo me matas.

I tuoi occhi

lente prore a fior d’acqua

solcano il mio sonno

nell’onda della malinconia che sale

e la tua bocca

Silene vellutata dall’ombra

si apre al mio respiro

nel drappeggio della luce che muore

eppure

quando sei legata a me

paradiso in piena di pelle radiosa

sogno di scivolare via da te

per sorvolarti mentre mi tieni

mani e braccia di fiume indolente

che scorre dalla schiena spiegata

dentro di me e ancora più in fondo

nella fibra della terra che mi tiene

e piano sfinisce lontano

il battito del mondo

Tu non dormi mai

barbaro amore senza occhi

con il tuo sguardo muto

e le mani tue perdute

la mia pelle lambisci distratto

flutto morbido e inavvertito

e asciughi le mie lacrime

come vento che spira febbre

scandisci il tempo della vita

come sangue che batte in gola

ma come fuoco che ingoia l’aria

bruciando mi uccidi.

Ci incontrammo nuovamente solo nella tarda estate del ‘36, quando, come al solito, Picasso si unì ai suoi amici al mare, Paul Eluard e sua moglie Nusch, Man Ray, Lee Miller e suo marito Roland. Da anni, tutta la sua compagnia si trasferiva d’estate al sud della Francia, a Mougins.

Trascorremmo la prima sera da soli, passeggiando lungo la spiaggia di Saint-Tropez.  Il sole non era ancora tramontato e il vento si era calmato. Il mare era piatto e appena raggrinzito in lontananza. Ogni tanto la sua voce veniva interrotta dal grido di qualche gabbiano che volava basso sulla battigia. La nostra prima sera insieme, Pablo mi raccontò delle sue donne di allora. Di Olga, dalla quale aveva avuto il figlio Paulo e dalla quale voleva divorziare, che lo minacciava con gli avvocati.

“Sai, Olga è impazzita … mi ferma per strada, mi tira per le mani, urla e impreca al vento …” Sembrava volesse confidarsi con me e poi addolcì il tono, raccontandomi della giovanissima Marie-Thérèse, dalla quale un anno prima aveva avuto la piccola Maya: “C’è anche lei, ma è un segreto … e tutte queste donne sono completamente dipendenti da me!”.

Quella sera non avevo in mente alcun progetto preciso. Godevo della sua calda confidenza, del profumo del mare, della sua mano intorno alle mie spalle, della sua vicinanza emotiva e spirituale. Mi facevo cullare dal suono dello spagnolo, la nostra lingua segreta che nessuno della compagnia dei suoi amici parlava.

Poi, una notte, nella mia camera, Pablo mi si avvicinò alle spalle e mi strinse a sé con le braccia intorno alla vita. Aveva le braccia forti, i palmi ruvidi, la pelle abbronzata. Mi sollevò senza fatica, mi depose sul letto e si gettò sopra di me. Dalla finestra aperta sentivo sul terrazzo la voce di Paul e la risata di Nusch. In quella stanza, ancora calda per il sole pomeridiano, attraverso gli occhi socchiusi, vidi baluginare sopra di me il suo volto e sentii il suo peso, tutta la sua forza.

All’inizio della nostra relazione, ero attratta dalla sua brutalità: mi ci abbandonavo volentieri. Il modo in cui si avvicinava a me all’improvviso, si impossessava del mio corpo come se fossi una sua proprietà, lo interpretavo all’epoca come un gesto d’amore.

Quella stessa notte, più tardi, la sua voce mi scosse e mi svegliò. “Dora, guarda cosa ho disegnato oggi!”

Accese la luce e sul letto davanti a me, comparve un grande disegno di una donna e di un uomo con la testa di toro. “Questi due, siamo io e te, Dora! Io e te siamo Dora e il Minotauro”, disse orgoglioso con il dito puntato sul foglio, in attesa della mia reazione.

   L’arte non è mai casta. Dovrebbe essere vietata agli innocenti e agli ignoranti. Non si dovrebbe mai avvicinarla a chi non è abbastanza preparato. Perché l’arte è pericolosa. E se è casta, vuol dire che non è arte.
   Questo disegno, Dora e il Minotauro è brutale. Lei lo odia, ma in fondo lo adora. Non potrà mai separarsi da quell’immagine: dallo sfondo rosso emerge un corpo femminile con le gambe divaricate sul quale si erge il corpo minaccioso e scuro di un essere dalla testa di toro. Il Minotauro spinge con forza le gambe della donna e allunga una mano verso il suo seno. La donna non si oppone, ma evita di guardarlo. Resta passiva. In primo piano si vede la sua mano con un bracciale e le unghie smaltate. La donna non riesce a fare altro se non abbandonarsi alla forza dell’animale–uomo, che da un momento all’altro la azzannerà o forse l’amerà.
   Si intuisce che la scena si sta svolgendo sotto lo sguardo di un pubblico invisibile, sotto gli occhi di tutti: nell’atto che sta per compiersi non c’è niente di intimo. Il Minotauro ha bisogno del suo pubblico, brama una moltitudine di sguardi. Vuole esibire il proprio potere, perché ama farsi applaudire, esaltare.  Bravo, sei il migliore, forza, falle vedere chi sei! A momenti sembra di sentire le urla della gente, il loro esultare, il crescere dell’eccitazione come in una corrida in cui il toro è destinato a vincere e la donna a soccombere.

Ormai era quasi l’alba e io mi coprii la testa con un cuscino e sprofondai nel buio, nel silenzio. Non avevo più un posto sicuro, un luogo dove rifugiarmi. Ma la cosa peggiore era che non lo volevo nemmeno. Il pericolo si faceva solo presagire ma era già presente, sentivo chiaramente la sua vibrazione oscura incendiarmi la pelle.

Comunque fosse, quel disegno raffigurava me, non Olga, né Marie-Thérèse, né nessun’altra delle sue amanti occasionali di cui ricordava a malapena il nome.  Ero io la prescelta, la vittoriosa, la predestinata. In quel momento, solo io, ero sua.

Certo, quando vidi quel disegno, la prima cosa che mi venne in mente fu il mito del Minotauro. L’uomo con la testa di toro, rinchiuso nel labirinto.

   Il labirinto è un luogo terribile, desolato, senza via d’uscita. Una trappola perpetua. L’uomo Toro ne è ben consapevole e per questo è malinconico. Una bestia triste che si nutre di carne umana per sopravvivere.
   Ma il Minotauro è colpevole della sua natura bestiale?
   Anche un artista, come il Minotauro è rinchiuso nel dedalo e prigioniero della propria natura creativa. Ha paura della morte e pur di sopravvivere e di creare accetta di vivere chiuso nel labirinto. Anche lui si nutre degli altri, divorando l’energia degli esseri umani, che nel suo caso si sacrificano volontariamente. Solo che per le sue vittime è forse più facile, perché non capiscono di essere vittime.

D’improvviso ho una rivelazione: Dora e il Minotauro non è solo il nome del quadro, ma è anche una premonizione. Tutti gli aspetti oscuri della nostra relazione sono raffigurati nel dipinto. Il mio sguardo rigido e il suo corpo forte, che incombe sopra di me. I famelici occhi invisibili che ci fissano. Dominazione e sottomissione.

Mentre Pablo mi disegnava, era come se sapesse già cosa sarebbe successo. Questa intuizione lo rendeva un pittore geniale o forse semplicemente, Picasso conosceva bene sé stesso.

Ricordo che con lui ero gelosa da morire, ma fingevo di non esserlo. Sapevo che nella sua vita ogni nuova donna segnava l’inizio di una nuova fase di creatività. Il Minotauro si nutriva non solo della mia, ma anche della loro carne.

Lui era superiore a tutti, lui era il dio dell’arte. Mostrava con il comportamento e con i suoi quadri che per lui il rapporto con le donne non aveva nessun significato se non quello cannibalistico. Lui doveva consumare i corpi ma anche possedere le anime.

Chi come lui si nutre della carne viva delle donne, porta dentro di sé il Minotauro. Le personalità creative sono pericolose per gli altri, perché sono egocentriche: prendono, si impossessano, rubano, divorano, bruciano tutto intorno a sé per alimentare il fuoco dell’arte. E prendono senza chiedere, senza porsi problemi morali. L’assenza di empatia è un sintomo grave, tipico di una personalità disturbata.

Forse la sola differenza tra la malattia dell’anima e la malattia dell’arte è che l’artista utilizza tutta la violenza e il dolore come materia da plasmare nell’opera d’arte.

Il disordine della sua vita sentimentale, gli amori segnati da innamoramenti fulminei, le sostituzioni dissimulate, le compresenze dolorose, gli abbandoni plateali, sono vissuti con una dinamica così simile al processo di creazione artistica che è fatto di indigestioni e restituzioni, e sono tutti puntualmente rappresentati nelle sue opere. La biografia dell’artista non è divisa per capitoli, ma per opere d’arte.

Ma la causa del mio malumore non erano solo le altre donne, che Pablo approcciava continuamente con disinvoltura. Ero triste anche perché avevo capito che non avrei mai potuto averlo solo per me e questo non tanto per gli altri quanto per lui stesso, per la sua dedizione all’arte che io ammiravo infinitamente ma che non lasciava spazio a nessun’altra persona.

Dipingere per lui era un atto magico, come per me lo era fotografare. Una relazione sentimentale e sessuale non era sufficiente a colmare il suo sconfinato e tirannico desiderio di possesso.

Eppure, mai con nessuno, come solo con me, Picasso si era aperto all’attività creativa e allo scambio artistico. Fu di fatto lo stesso Pablo a propormi di documentare con le fotografie la progressiva trasformazione di Guernica. Fu così che partecipai sin dall’inizio alla realizzazione dell’opera più famosa di Picasso. Persino prima di riconoscere nel suo sguardo quello che sarebbe stato il tema della grande tela per l’esposizione universale.

Mi fu consentito ciò che non era stato concesso a nessun altro mortale, nemmeno a Brassaì, l’Occhio di Parigi, ovvero non solo di assistere e fotografare le varie trasformazioni ma anche di partecipare di persona a tutte le fasi della divina creazione, dalla predisposizione della tela alla realizzazione dei primi disegni.

Sì, è un fatto: la mia mano ha lasciato una traccia indelebile su Guernica.

Concentrati sulla grande tela, i nostri corpi e le nostre mani erano tutt’uno con i nostri pensieri. In quei momenti mi sentivo più amata e appagata di quando ci abbracciavamo. Pensavo che per noi due il sesso fosse un elemento di disturbo nel farci sentire veramente uniti. Perché, quando sentivo questa celeste vibrazione di vicinanza creativa e spirituale, il contatto con la pelle diventava solo una manifestazione secondaria del nostro rapporto.

Forse mi sentivo così perché mentre Picasso dipingeva Guernica e io lo fotografavo, lui non era il Minotauro. In quelle settimane eravamo alla pari.

Tuttavia, perfino in quei giorni, un evento mi turbò profondamente. Siccome in quelle settimane, per via del lavoro su Guernica, Picasso non aveva tempo di andarla a trovare, Marie-Thérèse venne di persona all’atelier. Fu la prima volta che vidi la sua giovane amante bionda, colei che soddisfaceva tutte le sue fantasie, docile e carezzevole come un peluche.

Pablo la salutò come un padre che, sentendosi colpevole, trova subito un regalo per il bambino insoddisfatto. Così le disse con enfasi che Guernica, il quadro al quale stava lavorando, era tutto per lei. Tuttavia, Marie-Thérèse guardò a malapena la gigantesca tela, intuendo che Picasso voleva corromperla e tenerla buona con un regalo che per lei non aveva nessun significato speciale. E non solo non lo ringraziò per questo ma fece una scenata epica, mentre Pablo continuava a dipingere.

Adesso so che la fine della nostra relazione coincide con la fine di Guernica. Dopo Guernica e la scenata con Marie-Thérèse, cominciai a interrogarmi sul nostro rapporto, non solo sentimentale, ma anche artistico. Il mio desiderio più grande era da sempre essere riconosciuta da lui come artista.

Quando in seguito, ripensando ai giorni trascorsi insieme nell’atelier di Rue des Grands Augustins, ricordavo il momento in cui mi aveva permesso di toccare con il pennello il suo quadro, e mi aveva dichiarato sua allieva, mi rendevo conto di quanta spietata ironia ci fosse in quel suo gesto, apparentemente benefico.

È vero: lui era il gigante dell’arte moderna, ma io ero più di una semplice allieva. Così, alla fine, ho scoperto che Picasso, anche mentre dipingeva Guernica, era sempre il Minotauro. Solo che all’epoca, a differenza di oggi, ancora non percepivo che quel mostro voleva risucchiare anche la mia creatività, la mia arte, le mie idee, tutta la mia vita, per poi sputarmi fuori come un guscio vuoto.

Tutta donna, mela carnale, luna ardente,
denso aroma di alghe, fango e luce insieme,
quale oscura chiarità le tue colonne dischiudono?
Quale antica notte tocca l’uomo con i suoi sensi?
Amare è un viaggio con l’acqua e con le stelle,
con l’aria soffocata e furiose tempeste che imbiancano:
amare è una guerra di lampi
e due corpi da un solo miele sconfitti.

Bacio a bacio percorro il tuo breve infinito,
le tue rive, i tuoi fiumi, i tuoi piccoli villaggi,
e il fuoco genitale mutato in delizia
corre dentro i sottili labirinti del sangue
fino a precipitarsi come un fiore notturno,
fino a essere e non essere che un lampo nell’ombra.

Chi potrà mai cantare la volta stellata del mio amore?
Dire quanto coincida con il mio senso di cielo e di pace?

Se sapessi la mia povertà e la mia gioia
e il senso di sete che mi tiene in vita.

Lo porto in me, immenso e invisibile,
scorre in ognuna delle mie ossa
assorbito dalla spugna dei polmoni,
trattenuto dai reni
e ormai così vicino al cuore da spaccarlo.

Che io l’abbia inghiottito è provato dalla mia gravità.
Non solo il corpo, ma l’anima
prima leggera e cava ora pesa col peso dei sassi.

Ho talmente amato da diventare pietra,
non fuoco come si immagina,
ma uno dei grandi macigni a guardia dei templi pagani.

Niente più profeti,
niente più Messia,
niente più attesa,
solo colonne che affondano nella terra,
nessun sacrificio.

Il vento scuote le querce e io aspetto solo lui
un minotauro notturno,
metà uomo e metà buio,
perduto nel labirinto mortale.

È così grande da uccidermi,
le mie ossa tremano e si frantumano.

Non ho più un corpo, non ho più pelle,
c’era un appiglio invisibile
che lasciava mi inclinassi
continuando a sopravvivere,
lui l’ha spezzato.

È notte ormai,
vedo i secoli sfilare uno davanti all’altro.
Sono la terra,
come la pensò Dio.