Il fantasma di Beatrice è rimasto ad incubare per anni nella mente del poeta fiorentino fino ad assumere i contorni di una potenza mitopoietica, di una figura assoluta dell’amore più che umano, un amore ultraumano

di Marco Palladini

(L’ambiente è una piccola sala per conferenze. L’oratore arriva trafelato, scomposto. Depone su una sedia soprabito, cappello e una borsa di pelle scura. Ignora il tavolo ricoperto di un panno verde con sopra un microfono, rimane in piedi e si rivolge come un attore direttamente all’uditorio).


Oratore:  Buonasera e scusate… davvero, scusate tanto per il ritardo.
Voce dal pubblico:  è più di un’ora che aspettiamo.
Oratore:  Va bene, chiedo di nuovo scusa… Il taxi su cui mi stavo recando alla stazione ha avuto un incidente, ho finito per perdere il treno e ho dovuto prendere quello successivo. Sono cose che capitano.
Voce dal pubblico:  E già… direbbe il poeta: che cos’è un’ora di ritardo di fronte all’eternità?
Oratore:  L’eternità, sì, ecco una parola giusta per incominciare a parlare del nostro sommo poeta. Che cos’è, in fondo, tutta la grande, allegorica parabola della Commedia se non un viaggio dall’umano al divino per conquistare l’eternità? Per portare l’anima a trascendersi sulla soglia dell’eterno?
Voce dal pubblico:  è un tema affascinante, è di questo che tratterà stasera la sua conferenza?
Oratore:  No, veramente. O meglio, sì, ma indirettamente, arrivandoci per altre vie. Immagino che qualcuno si ricordi il verso che Dante mette a sigillo finale del suo mirabile poema.
Voce dal pubblico:  Certo: “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
Oratore:  Perfetto, dunque, tutta la ricerca di salvezza eterna che percorre la Commedia converge nel punto più alto su un’idea di amore superiore, di amore divino, cosmico. Dio, ci fa capire l’Alighieri al culmine delle sue visioni, è amore, è l’inconcepibile energia amorosa che muove in eterno l’universo e i suoi astri. Ma ad una simile coscienza del divino non si arriva pacificamente, senza contraddizioni.

Voce dal pubblico:  Che vuol dire?
Oratore:  Voglio dire che nella Commedia Dante fa un viaggio reale nella sua coscienza, attraversa vari stadi della sua coscienza, sale da quelli inferiori fino a quelli cosiddetti ‘superni’, ma questi passaggi non sono automatici, provocano dubbi, tentennamenti, stati d’animo contraddittorî. E l’amore è, a mio modesto avviso, uno dei terreni dove più sono chiare le dilacerazioni, i conflitti che scuotono la coscienza del poeta fiorentino.
Voce dal pubblico:  Ci sta dicendo che Dante dubitava della sua fede?
Oratore:  Non si tratta di questo. Ma la fede quando è viva, se non è una sorta di ottuso dogmatismo, induce domande, interrogazioni, ti mette a confronto con le tue debolezze, con le tue paure e le tue viltà, proprio per spronarti a superarle, a rafforzarti nella strada intrapresa. È quello che succede a Dante quando si inoltra nel territorio dell’amore, territorio per definizione minato, dove la sua potenza letteraria e teologica viene messa alla prova, con risultati sicuramente straordinari.
Voce dal pubblico:  Sta alludendo, naturalmente, all’amore tra Dante e Beatrice…
Oratore:  Beatrice, certo. Come si può non parlare di lei? È la figura cardine per l’ascesi del poeta dall’amore umano all’amore divino. Anche perché si tratta fin dall’inizio di un amore immaginario, del tutto unilaterale. Consideriamo i pochi dati storici in nostro possesso. I due sono praticamente coetanei. L’Alighieri nasce nel 1265, Beatrice di Folco Portinari, detta Bice, un anno dopo, nel 1266. Il fatale incontro a Firenze, la loro città natale, avviene in età impubere, lui ha 9 anni e lei 8. Per Dante è l’amour fou a prima vista, l’Amore con la A maiuscola, definitivo. Però, poi, non la rivede per altri 9 anni. E già qui, questa simmetria numerologica è sospetta, fa pensare ad un mito autocostruito: il 9 come multiplo di 3, il numero perfetto, quello della Trinità. In ogni caso, quando si rivedono la bella ragazza 17enne si degna di salutarlo e questo saluto appare a Dante un segno cruciale, la conferma della perennità del suo amore. Poi lui la sogna, sogna l’eternità di questo suo amore, ma poi nel sogno accade che Beatrice muore prematuramente. Non sappiamo come Dante elabori tale oscuro, ferale presagio della morte dell’amata, né sappiamo se abbia avuto, in seguito, altre occasioni di rincontrarla. Possiamo ipotizzare di sì, ma lo ignoriamo. Quel che sappiamo è che nel 1287, a 21 anni Beatrice, figlia di un importante banchiere di Firenze, si sposa con Simone de’ Bardi, appartenente pure lui ad una grande famiglia di banchieri. Insomma, il classico matrimonio tra rampolli dell’alta borghesia, benedetto dall’incrocio degli interessi economici. Ma Dante non si rassegna: custodisce fedelmente nel suo cuore la fiamma del desiderio, cerca ancora Beatrice con lo sguardo, cerca di rubare qualche altro cenno di attenzione. Accade, così è tramandato, che un giorno in chiesa Dante guardi nella sua direzione, ma qualcuno dei presenti ritiene che stia fissando una donna vicino a lei. Questo equivoco lo porta a creare un’immaginaria ‘donna dello schermo’ che nei suoi intenti dovrebbe appunto dissimulare la sua passione per la Portinari-Bardi e, forse, far ingelosire la giovane nobildonna neosposa. Ignoriamo se questo avvenne, sappiamo però che Beatrice da quel momento eviterà di salutare ulteriormente l’Alighieri, fino alla sua precoce dipartita nel giugno del 1290, a soli 24 anni. L’infausto sogno premonitorio del poeta si era purtroppo avverato.
Voce dal pubblico:  Ma tutta questa vicenda di passione sostanzialmente non corrisposta, non richiama i classici canoni dell’Amor cortese, dell’“amore di lontano” con cui i poeti medievali accendevano la loro fantasia e che dettava loro versi colmi di infebbrato sentimento verso un oggetto d’eros sempre irraggiungibile, puramente ideale?
Oratore:  Molto ben detto, mi complimento. Sì, è pressappoco così. Potremmo, quindi, sostiene lei, considerare questa vicenda solo un evidente caso di mero amore letterario, di fiction diremmo oggi, un puro prodotto della fantasia creativa. Ma il punto interessante, secondo me, è un altro: che in ogni caso Dante trascende la vicenda biografica della propria unilaterale passione amorosa, per trasformare l’amore per Beatrice in una sublime allegoria del cammino di salvezza dell’uomo. Ricapitoliamo: c’è una Beatrice reale e una Beatrice idealizzata. La Beatrice reale snobbò, eluse lo struggente trasporto romantico di Dante, forse persino si fece beffe di lui, come fanno tante donne ‘fatali’ adorate da maschi accecati dal sentimento, ai loro occhi anche un po’ ridicoli. La Beatrice idealizzata si tramuta, invece, nel più formidabile propellente poetico per la costruzione della Commedia. Secondo alcuni si potrebbe, finanche, avanzare l’ipotesi che Dante abbia concepito e poi scritto la più grande opera letteraria di ogni tempo, soltanto per poter descrivere il compimento del suo amore per Beatrice su un piano superiore, disincarnato. Il fantasma di Beatrice è rimasto ad incubare per anni nella mente del poeta fiorentino fino ad assumere i contorni di una potenza mitopoietica, di una figura assoluta dell’amore più che umano, un amore ultraumano. Nel gioco proiettivo del poema, quando Dante rincontra Beatrice, lei non è più la Portinari maritata Bardi, è una bellezza metafisica, stratosferica, pura allegoria della fede, ossia il ponte indispensabile per poter ascendere al divino, al cielo terminale dell’eternità. Pensiamo alla prima apparizione di Beatrice nella Commedia.

Voce dal pubblico:  è quando Virgilio prende congedo?
Oratore:  Esatto. Siamo nel canto XXX del Purgatorio. Beatrice si manifesta con questi versi: “… sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva. // E lo spirito mio, che già cotanto / tempo era stato ch’a la sua presenza / non era di stupor, tremando, affranto, // sanza de li occhi aver più conoscenza, per occulta  virtù che da lei si mosse, / d’antico amor sentì la gran potenza”.
Dunque, l’epifania di Beatrice abbigliata di rosso acceso subito richiama la potenza dell’amore che infrange le barriere dello spazio e del tempo. Dante si volta per dire a Virgilio “conosco i segni de l’antica fiamma”, ma il poeta latino, suo maestro e guida fino a lì, è sparito. C’è come una necessaria staffetta allegorica tra l’autore dell’Eneide e Beatrice. Virgilio è la Ragione che, nella visione di Dante, conduce alla Fede, incarnata da Beatrice, la sola che può introdurlo nel Paradiso e portarlo a conoscere il divino. Ecco allora che la donna lo scuote dicendogli di non piangere la dipartita del poeta mantovano, ma piuttosto di piangere altre cose, ovvero le sue molte colpe. Questa Beatrice idealizzata si presenta sferzante: “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. / Come degnasti d’acceder al monte? / non sapei tu che qui è l’uom felice?”. E poi sciorina il duro capo d’accusa verso Dante, colpevole di avere smarrito, dopo la sua morte, la via del bene, di avere seguito le strade del male e dei vizi, di essersi fatto catturare da immagini mondane false, ed invano lei gli era apparsa nei sogni cercando di metterlo in guardia, di distoglierlo dalle cattive inclinazioni e di salvarlo. Infine, gli ingiunge di spandere lagrime di pentimento.
Voce dal pubblico:  Senta, messa così, Beatrice sembra una virago spirituale.
Oratore:  Beh, non esageriamo. Certo la Beatrice che Dante personaggio della Commedia rincontra, è una figura severa, circondata dalla schiera degli angeli, lei è lì per sollevare Dante dai suoi traviamenti, per aiutarlo a ritrovare la “diritta via smarrita”, per aiutarlo a trovare la salvezza eterna. Questa Beatrice idealizzata in termini poetici ha una doppia funzione: da una parte richiama l’incarnazione dell’amore terreno, amore platonico per la ragazza Portinari, ma per Dante non meno assoluto e stravolgente, dall’altra parte è un’epifania dell’amore celeste, una protesi o travestimento del divino, e in questo senso trafigge la debolezza mondana, carnale del poeta, per condurlo sul piano superiore, trascendente della fede. Dante gioca su questa ambiguità insormontabile della Beatrice paradisiaca. E nel canto successivo il XXXI, il poeta di fronte alle rampogne della donna, ammette le sue colpe, si confessa a lei e piange calde lagrime. È questo il prezzo che deve pagare se vuole seguire Beatrice, pronta a condurlo ad ascendere nei cieli del Paradiso.
Voce dal pubblico:  Le chiedo: tra l’amore di Alighieri per Beatrice Portinari e l’amore celeste che a questo punto lega Dante e la Beatrice del Paradiso che rapporto c’è? Ovvero c’è ancora un rapporto o si tratta di una mera suggestione di noi lettori postumi?
Oratore:  Ottima domanda. A cui si potrebbero dare tante risposte. La faccio breve. Io credo di sì, ovvero che un rapporto continui ad esserci. La Beatrice del Paradiso è certamente una trasfigurazione allegorica, ma da qualche parte nella mente visionaria del poeta io penso che sopravviva la primigenia, umana traccia d’amore per Beatrice Portinari. Anzi è quella la matrice, la ragione prima, come ritengono alcuni, di tutto l’immenso sforzo di edificazione del grande poema. Vorrei al riguardo porre la vostra attenzione sulla seconda, definitiva staffetta che si verifica nel cammino di ascesa di Dante giunto all’Empireo. È la staffetta tra Beatrice e San Bernardo.

Voce dal pubblico:  Siamo nel XXXI canto del Paradiso, vero?
Oratore:  Siete preparatissimi, mi compiaccio. Cosa accade in sostanza in questo decimo cielo del Paradiso? L’apparizione di San Bernardo è contestuale al farsi da parte di Beatrice. Perché questo nuovo avvicendamento? Perché per arrivare al punto culminante del viaggio ultraterreno di Dante, la fede, la conoscenza teologica incarnate da Beatrice non sono sufficienti. È necessario quel quid supremo esperito dall’abate di Clairvaux, ossia la forza calma e traslucida della contemplazione, la sola che può condurti al cospetto di Dio. Ma Dante ha qui un soprassalto di inquietudine, cerca ancora una volta con gli occhi Beatrice – “ov’è ella?” grida. Lei sta presso di sé nel terzo giro della rosa paradisiaca (torna il fatale numero 3), Dante la vede coronata dei raggi della luce eterna e la guarda come un uomo sprofondato negli abissi marini guarda la regione più elevata del cielo. A significare una distanza ormai incolmabile che c’è tra loro. Nondimeno Dante le rivolge un’ultima, amorosa orazione di devozione e di ringraziamento: “«O donna in cui la mia speranza vige, / e che soffristi per la mia salute / in inferno lasciar le tue vestige // di tante cose quant’i ho vedute, / dal tuo podere e dalla tua bontate / riconosco la grazia e la virtute. // Tu m’hai di servo tratto a libertate / per tutte quelle vie, per tutt’i modi / che di ciò fare avei la potestate. // La tua magnificenza in me custodi, / sì che l’anima mia, che fatt’hai sana, / piacente a te dal corpo si disnodi.» // Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò all’etterna fontana.” Ecco l’estremo congedo di Beatrice è condensato in quest’ultimo sorriso di soddisfazione e di plenitudine, che giunge da un’altezza e da una lontananza irraggiungibili. Ora lui si ritrova da solo con il vecchio santo. Il passo terminale prima di accedere alla luce del divino ha come prezzo la separazione dell’anima dal corpo e la rinuncia definitiva alla visione di Beatrice.
Voce dal pubblico:  E questo, secondo lei, è un prezzo troppo alto? Nella vittoria della fede e della beatitudine si nasconde una sconfitta?
Oratore:  Questo lo dice lei, io affermo soltanto che qui c’è, non detta, una lacerazione profonda, la più dura per il poeta. Se è vero che egli ha scritto la Commedia per ritrovare nella trasfigurazione paradisiaca di Beatrice, l’immagine della Beatrice Portinari, ecco che per arrivare a completare il disegno del poema, si autocostringe ad abbandonare anche questa figurazione immaginaria ed allegorica, per obbedire al comando assoluto della fede. Ma questa distruzione dell’amore terreno oggi noi riusciamo realmente a comprenderla, ad accettarla? La fede in Dio che si dice essere l’apice dell’eterno amore deve necessariamente comportare l’annullamento dell’umano sentimento per l’amata o per l’amato? Per salvarci dobbiamo transumanarci, ci dice in sostanza Dante. Siamo tutti convinti di essere d’accordo?
Voce dal pubblico:  è un dilemma forte, provocatorio quello che ci sottopone. Anche per la sua inattualità. Oggi mi sembra che persino i preti faticano ad essere coerenti con quanto vanno predicando. Bisogna essere degli asceti o dei mistici per, come dice lei, transumanarci.
Oratore:  Molto giusto. L’amore che alla fine del Paradiso ci propone Dante è l’amore dei mistici, di coloro che fanno esperienza di contemplazione trascendente. Ma è un amore che a noi persone comuni risulta estraneo, incomprensibile, lo possiamo riguardare dalla stessa distanza da cui Dante guarda Beatrice immersa nella fontana di luce del divino. Per questo propongo di fare un passo indietro, anzi molti passi indietro e tornare all’Inferno. E più precisamente al canto V.
Voce dal pubblico:  Quello celeberrimo di Paolo e Francesca?
Oratore:  Esattamente. Quello dove Dante incontra gli spiriti dannati di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta. Siamo nel girone secondo, quello dei lussuriosi. Quello che colpisce in questo canto è che il poeta colloca i due amanti fatali tra le fiamme dell’Inferno e, dunque, tra quelli che non si possono salvare, condannati in eterno, ma insieme li racconta con una tale forza espressiva di partecipazione e di pietà che, si direbbe, sotto sotto invidi la loro sorte.
Voce dal pubblico:  Addirittura?!
Oratore:  Sì, addirittura. Non vi paia una mia forzatura. Ripercorriamo l’arco narrativo del testo. Dante dopo avere visto storiche figure di lussuriosi, da Elena di Troia e il suo seduttore e rapitore Paride alla regina egiziana Cleopatra, al cavaliere della Tavola Rotonda Tristano che, folle di desiderio, uccise la regina di Cornovaglia, Isotta, moglie di suo zio Marco, viene attirato da due spiriti che procedono invincibilmente uniti e si rivolge a Virgilio: “… «Poeta, volentieri / parlerei a quei due che ’nsieme vanno / e paiono sì al vento esser leggieri».” Dante dà una voce di richiamo ai due spiriti e dice il testo: “ Quali colombe, dal disio chiamate, / con l’ali alzate e ferme al dolce nido / vegnon per l’aere dal voler portate”. Val la pena di sottolineare che gli spiriti dei due dannati sono paragonati a due candide colombe, uccello simbolo dell’innocenza e della pace. Va anche notato che a parlare è sempre e soltanto la donna, Francesca da Rimini, figlia di Guido da Polenta, andata sposa al signore della città, Gianciotto Malatesta, uomo zoppo e deforme. Francesca tradisce il marito con il cognato, Paolo Malatesta, a sua volta sposato con Orabile Beatrice di Ghiaggiuolo e padre di due figli. I due adulteri sorpresi in flagrante da Gianciotto furono immediatamente uccisi, senza avere tempo di pentirsi. E forse è questa, dicono i teologi, la ragione per cui Dante non può fare a meno di precipitarli all’Inferno.

Voce dal pubblico:  Ci vuole spiegare meglio questo punto?
Oratore:  Voglio dire che i due amanti trucidati muoiono in stato di peccato mortale e, dunque, non possono più essere redenti. Ma io credo che Dante li metta lì di contraggenio, la forza poetica che presta alle meravigliose parole di Francesca ne è, secondo me, una prova chiarissima: “… «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui dalla bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. // Amor ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. // Amor condusse noi ad una morte: / Caina attende chi a vita ci spense.»” Il canto di Dante in gloria dell’amore terreno e sensuale, qui si leva altissimo. E Francesca non mostra il minimo segno di pentimento per essersi abbandonata al piacere della carne tra le braccia del cognato e anzi rivendica la perennità del loro amore anche post-mortem, anche lì nel buio infernale.
Voce dal pubblico:  E questo nell’ottica cristiana, salvifica del poema, non è una contraddizione?
Oratore:  A mio giudizio sì, ma questo aumenta, non diminuisce la dismisura poetica di Dante. Che continua a far raccontare a Francesca come avvenne che i due caddero nel destinale, irresistibile gorgo dell’eros. “E quella a me: «Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. // Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice. // Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse: / soli eravamo e sanza alcun sospetto. // Per più fïate li occhi ci sospinse / quella lettura, e scolorocci il viso; / ma solo un punto fu quel che ci vinse. // Quando leggemmo il disïato riso / esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi baciò tutto tremante. / Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante.»”
Voce dal pubblico:  Sono versi conosciutissimi, ma che toccano e commuovono ancora oggi, dopo settecento anni.
Oratore:  Senza alcun dubbio. In poche terzine la suprema maestria di Dante ci rappresenta la scena, con i due amanti che lasciano cadere il libro che ha infiammato i loro sensi e lui che, tremando di libidine e di ardimento, bacia la donna e tutto il resto giustamente si tace. Ma è in quel verso che arriva al culmine dell’idea di amore totale ed eterno: “questi, che mai da me non fia diviso”, ribadisce Francesca. I due amanti sono, sì, all’Inferno, ma anche eternamente insieme, eternamente allacciati l’uno all’altra, niente e nessuno li potrà mai più dividere. Né Dio né Lucifero. E, allora, mettete a confronto questo amore, pure tacciato del peccato di lussuria, perverso se si vuole, ma anch’esso eterno, dunque infinitamente indivisibile, con l’amore tra Dante e Beatrice, che mai si sono sfiorati, un amore tutto di testa, che porta, infine, Dante sulla via della salvazione, ma anche alla definitiva separazione, anche mentale, dalla donna amata. Non credete che l’Alighieri, da qualche parte, avrebbe voluto scambiare il proprio destino con quello di Paolo e Francesca?
Voce dal pubblico:  Ci sta dicendo che Dante o una parte della sua anima avrebbe preferito stare per sempre all’Inferno con Beatrice, piuttosto che salvo in Paradiso senza di lei?
Oratore:  Considerate come finisce l’ultima terzina del canto V. Mentre Francesca finisce di parlare, lo spirito sempre muto di Paolo incomincia a piangere, Dante viene sopraffatto dalla pietà e dall’emozione e scrive un verso immortale:  “E caddi come corpo morto cade”. Dante si sente morire e sviene. È la sola volta che succede in tutto l’Inferno. Eppure di orrori, supplizi e cose terribili ne vede a iosa nel regno di Satana. Ciònondimeno, è soltanto qui, di fronte a questo intreccio ineffabile di amore e dolore, di colpevolezza e di pura trasparenza della passione umana che egli cede e viene meno. Qualcosa deve significare.
Voce dal pubblico:  Significa che egli s’identifica con i due sventurati e sublimi amanti?
Oratore:  Qualcosa del genere. La vicenda di Paolo e Francesca trancia per un momento i fili della coscienza del poeta, lo precipita nel magma oscuro dell’inconscio dove tutto il rimosso per ciò che avrebbe potuto essere e, invece, non è stato, riemerge e lo sommerge. Dante non regge a cotanto strazio che è, nel profondo, anche il suo. “E caddi come corpo morto cade”: sentite come è plasticamente concreta qui la lingua del poeta, come la ripetizione geniale del verbo ci fa pressoché sentire il rimbombo del corpo di Dante che va giù esanime al suolo.
Voce dal pubblico:  La sua lettura è sottile, raffinata, intelligente, ma dimentica che poi Dante rinviene e riprende il proprio cammino. Dunque, riesce a superare le ragioni temporanee del suo improvviso crollo.
Oratore:  Io, come ho cercato di argomentare, non ne sarei così sicuro. Certo il poeta fiorentino ha in testa un programma salvifico e lo deve e vuole mantenere sino al compimento del passaggio estremo di fronte al supremo essere che “move il sole e l’altre stelle”. Ma alla luce sovraesposta, sovrapotenziata del divino che invade e acceca quasi l’ultima parte del poema, io mi permetto umilmente di opporre o quanto meno di rammentare il buco nero, infernale del canto V, dove l’epifania dei due fedifraghi, lussuriosi romagnoli per un attimo fa balenare un amore senza fine, senza freni, senza rimorsi, che sconvolge e travolge Dante. Qui c’è un apice di sentimento umano che è quanto di più vicino si possa immaginare all’assoluto del sentimento della fede.

Voce dal pubblico:  La dissolutezza sarebbe, secondo lei, una forma dell’assolutezza?
Oratore:  Perché no? L’amore dei sensi è l’amore di corpo e psiche, è mera fusione materiale-mentale, e questa è un’esperienza universale che si può facilmente riscontrare presso culture e civiltà le più diverse e distanti. Io credo che la grandezza di Dante stia proprio nell’aver disseminato la sua Commedia di innumeri tracce, non tutte concordanti e automaticamente mirate ad un unico scopo salvifico. Nelle supreme opere letterarie le defaillances sono, molto spesso, assai più interessanti e rivelatrici dei blocchi monolitici o delle proposizioni a senso unico.
Voce dal pubblico:  Si dice che solo chi cade può risorgere. Secondo me la caduta di Dante alla fine dell’incontro con Paolo e Francesca serve a marcare i passi successivi della sua resurrezione fino all’incontro con Beatrice.
Oratore:  E chi lo nega? Nondimeno quella caduta, non in tentazione, ma in choccante autosuggestione, c’è stata, e quella caduta è un atto conoscitivo, cioè lucidamente autoconoscitivo delle vie misteriose e insormontabili dell’amore umano troppo umano. E quella conoscenza rimane, non viene cancellata, annullata dal successivo tragitto di ascensione al cielo del poeta. Ma questa è una mia personale opinione, non voglio convincervi a tutti i costi. Mi basta stasera avere instillato in qualcuno di voi un piccolo dubbio, avere minimamente incrinato la vostra visione del divin poeta,  avere sollecitato qualche ulteriore riflessione sul già visto e già sentito. Del resto, l’arte dell’interpretazione come la terapia psicanalitica è virtualmente interminabile. Tanto più con un’opera come la Commedia che da sette secoli non cessa di interrogare e di interrogarci sulla nostra natura di uomini deboli e peccatori e sulla sfida di oltrepassarci e di risorgere in Dio.
Voce dal pubblico:  Va bene, ma allora questa conferenza?
Oratore:  Già c’è stata, che non se n’è accorto? Io, come vede, non faccio lezioni ex cathedra, io dialogo, mi pongo domande, cerco indizi e vi interpello.
Voce dal pubblico:  è che siamo abituati a dei conferenzieri che ci forniscono delle certezze, non che seminano dubbi e sospetti, tanto più su un tema come l’amore divino e quello terreno.
Oratore:  Ma è quello che deve fare la cultura, abituare a pensare, a dubitare, a non prendere mai per oro colato le presunte verità calate dall’alto. Quali certezze pretendete quando si riflette sull’amore? Non lo dice pure Dante in quell’attacco folgorante nel Convivio? “Amor che nella mente mi ragiona / della mia donna disïosamente, / move cose di lei meco sovente, / che lo ’ntelletto sovr’esse disvia”. Ogni volta che si discorre di questo eterno tema facilmente ci si confonde, ci si smarrisce. Anche un grande poeta tentenna, non ha soluzioni o risposte sicure, precotte.

Voce dal pubblico:  Ma questo “amor che move il sole e l’altre stelle”, allora come dobbiamo interpretarlo?
Oratore:  Come ho cercato di dire questo verso è una possente, suprema allegoria, ma quello è il livello più elevato, l’approdo terminale di un lungo percorso di ricerca. Perché per Dante l’amore è ricerca, è il terreno più nobile dove cercarsi, dove cercare di autosuperarsi. Ma questa ricerca ha molti, moltissimi livelli e ciascuno deve, a mio avviso, trovare quello che più gli corrisponde. E, così, stasera vorrei lasciarvi con il livello dell’amore tra Dante e Beatrice che, personalmente, sento più vicino. È fissato nel più celebre sonetto della Vita Nuova: “Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta, / ch’ogne lingua deven tremando muta, / e gli occhi no l’ardiscon di guardare. // Ella si va, sentendosi laudare, / benignamente d’umiltà vestuta; / e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare. // Mostrasi sì piacente a chi la mira, / che dà per gli occhi una dolcezza al core, / che ’ntender no la può chi no la prova: // e par che de la sua labbia si mova / un spirito soave pien d’amore, / che va dicendo a l’anima: Sospira”.
Credo di non avere altro da aggiungere o da commentare.
Voce dal pubblico:  Grazie.
Oratore:  Prego.
(L’oratore si inchina all’uditorio, sorride e si rimette il soprabito, il cappello e riprende la sua borsa. Una parte del pubblico si alza in piedi ed applaude, un’altra parte resta seduta perplessa. L’oratore esce quasi di corsa. Buio).