La sfida, come detto, è usare la sensorialità edonistica per involarsi oltre, per dare all’istante l’illusione dell’eternità
di Marco Tabellione
La luce apice
L’alba sfocerà forse dal mare
o forse spargerà i suoi flauti
da una nebulosa
Che cos’è la luce ? da dove viene?
Perché nevica semi ovunque
Perché a volte tace
come se non esistesse
come se la notte non dovesse finire mai ?
Possibile che non mancherà? la luce il giorno
Possibile che ci sarà sempre un mattino sulla nostra strada ?
e se non è volo ma solo un solco corto
che importa? la veste irradiata respira sempre
come l’onda respira
su e giù in cielo e in terra
respira di luce
tutta la luce dell’universo
in un punto apice
in cui stai
Tornare
Tornare lì dove l’orizzonte
smette di essere linea per farsi spazio
Siamo fermi da qualche parte
In qualche luogo non cambiamo mai
Lì il tempo non ci consuma
Lo spazio non ci contiene
Quel luogo è tutti i luoghi
Quel tempo tutti i tempi
Chiamo pura pace quel luogo
la benevolenza all’altro
Lo stare del cielo nell’azzurro
come l’anima nei corpi
come l’altro che è me
Mi vedrai
Mi vedrai aleggiare verso il sole
Quando non avrò più guerre
Quando il sorriso che vedi
sarà il sorriso che senti
Quando la musica udrà sé stessa
E dai cerchi usciranno archi aperti
E il tuo piangere sarà pura gioia
L’idea di un nuovo sorgere di amore
Il mio dolore la punta di un mare sereno
Riprendiamoci il sole
Riprendiamoci il sole
Riabbracciamo il disordine e l’ala che sbatte
Scompigliamo la morte e la noia
che annebbia il fuoco
Esploriamo dove rivivere
Urliamo di nuovo al vento
Che non sia il rigore e il freddo la nostra via
O linee nette senza errori
Invadiamo i fiumi e i suoni
Perché il pensiero non si contiene
Le idee non hanno confini
E le anime non ammettono dighe
Ti porterò sulle ciglia
Ti porterò sulle ciglia gelose del cielo
dove non c’è dolore
dove tutto è luce e musica
e ogni voce è udita
Dove le ore brillando schiudono scrigni
e regni di sogno
Moltiplicherò la tua luce
nei mille istanti di un istante
centuplicherò il respiro
lo invererò nel vento
inventerò per te una nuova vita
che sia vuota e piena
come l’infinitesimale istante di buio
fra una luce e l’altra
come l’assenza dei morti che si fa presenza
la loro ombra che diventa lume
***
“Il passaggio alla luce” è la chiave di lettura di queste liriche. In esse vige una scelta di base, una predilezione per il lato spirituale dell’esistenza, o meglio la considerazione che ciò che di davvero esaltante c’è nell’esistenza sia spirituale, e lo spirituale è ciò che ci differenzia dal resto dell’universo. Certo materia e corpo esistono e ci condizionano, ma il loro condizionamento, appunto, si svolge nella sfera spirituale e sentimentale; l’aspetto fisico del mondo per noi ha valore nella misura in cui possiamo averne un’esperienza spirituale, cioè possiamo dedurne una condizione emotiva e sentimentale eccitante e stimolante.
Prendiamo il gusto, una delle forme più semplici e forse rozze di piacere estetico; indubbiamente il gusto agisce sulla percezione, ma la percezione si traduce per noi in una vibrazione emotiva, possiamo rifletterla e riusciamo a goderla nella misura in cui la riflettiamo; ma la riflessione non è materica, è spirituale. Al di là del fattore nutritivo, ciò che conta è la scossa che il sapore e l’esperienza del sapore danno al nostro animo, la capacità che la sensorialità ha di farsi emozione e sentimento.
Dunque il bello non sta nel corpo, ma nella capacità che l’animo ha di godere del corpo e con il corpo. La felicità non è una condizione della materia, è una condizione dello spirito, è un sentimento e in quanto tale ottusamente spirituale. L’uomo è grande nello spirituale, è grazie allo spirito che ha compiuto, creato e realizzato le opere che apprezziamo, opere che si alimentano sì di un aspetto pratico e materico, ma che poi finiscono per trascenderlo, perché l’uomo è soprattutto coscienza.
Va detto però che il sogno rappresentato da queste cinque poesie è la conquista di uno stadio spirituale ancora più evoluto, ancora più distante dalla materialità. La capacità dell’uomo di godere a vari livelli – capacità che ci caratterizza in modo esclusivo – testimonia la capacità ulteriore di sperimentare la dimensione spirituale ad un livello superiore. Si può dire che il piacere estetico più elevato risponde ad un maggior allontanamento dalla dimensione materica e sensoriale, verso una condizione puramente emotiva, sentimentale e, dunque, filosofico-poetica.
L’idea di questi versi, se di idea si può parlare, nasce dal tentativo di concretizzare lo spirito, descrivere cioè una condizione di beatitudine sognata, nella quale il piacere e la felicità reale valgono nella misura in cui non il piacere in quanto tale è foriero di gratificazione estatica, ma il controllo del piacere, almeno nell’accezione in cui la intendeva Epicuro. Dunque secondo l’ispirazione che anima le liriche, lo stadio spirituale coincide e si alimenta di uno stadio di piacere libero, appagante ma anche controllato, dominato. Ciò nella convinzione che il piacere in sé non ha ovviamente niente di sbagliato, anzi amplifica la nostra possibilità di partecipazione alla felicità universale.
Naturalmente tutte e cinque le poesie sono intrise di trascendenza, e sono ereditarie di civiltà millenarie che si sono costruite sull’idea della trascendenza, quasi sul bisogno di una realtà che vada oltre l’immanenza in cui sembra concretizzarsi la nostra esistenza, e in cui si incarnano piaceri e gioie. La sfida, come detto, è usare la sensorialità edonistica per involarsi oltre, per dare all’istante l’illusione dell’eternità.
E infatti le cinque poesie delineano un percorso nel quale l’essere si realizza come trascendenza che si rivela nell’immanenza, secondo l’idea di Jaspers, il filosofo che insieme ad Heidegger ha maggiormente approfondito le radici metafisiche dell’esistenza. Jaspers, come Heidegger, era consapevole che noi possiamo vivere l’essere normalmente solo come esser-ci. Jaspers però è sempre stato convinto, anche, che l’essere in quanto tale può in qualche modo venire esperito dall’uomo mediante il ricorso ad unità simboliche che lui chiama cifre, e che non è difficile accostare alle simbologie che la poesia usa normalmente.
Così è evidente che nella prima poesia, Il punto apice, la luce è colta come un mistero, che poi è il mistero della vita, di fronte al quale ognuno di noi rinnova di continuo la sua sorpresa: “Possibile che ci sia, e che ci sarà?” ci si chiede “E in fondo anche se non sarà una vita da giganti”, sarà comunque sempre una vita luminosa, perché in ogni punto c’è l’apice, ogni punto è superiore, così come ogni vita.
La seconda lirica Tornare, reclama il bisogno che l’esistenza non debba seguire per forza un percorso segnato, ma che possa spaziare, trovare luogo e tempo dove l’anima non si contenga, non venga frenata, mantenuta; dove ognuno sia se stesso, resti fermo, senza le trasformazioni dello scorrere esistenziale, perché è lì, in quella area uranica, che l’uomo può godere della pace, di una quiete che è stasi e contemplazione, una beatitudine di chiara matrice dantesca, ma che non corrisponde tanto ad una esperienza oltremondana, quanto all’essere nella sua stabilità vera e concreta, e che corrisponde inoltre all’azzurro del cielo, al cielo cioè che consiste appunto nel suo azzurro perenne, così come gli uomini consistono nel loro essere, che è poi un essere collettivo dove ognuno si riconosce negli altri.
La terza lirica insiste ancora sulla descrizione di una illuminazione, sulla voglia, il desiderio, forse infantile, che vivere non sia lottare ma godere della luce, dove per lotta, per guerra, si intende quella che l’uomo fa all’uomo stupidamente, rovinando la vita di tutti. “Ma a che serve?” sembrano chiedere ingenuamente questi versi, che rivendicano una spontaneità, una sincerità di modi, un sorriso che sia anche sorriso da dentro; la musica che ascolta sé stessa è l’anima che segue sé stessa in senso nietzschiano, e il cerchio che si apre simboleggia l’abbraccio a tutte le esperienze che fanno la vita di ognuno, un senso di apertura, così come aperto è un arco rispetto ad una circonferenza. Se ciò accadrà, se le linee si faranno aree, allora lacrime e dolore diventeranno un mare sereno, pura gioia, un nuovo modo di amare.
La quarta lirica è un invito a rivendicare sé stessi, come diceva Seneca (vindica te tibi), a reclamare per sé la luce, contro ogni imposizione di ordine e rigore, contro ogni regola o legge, o impossibilità di sbagliare; anche qui, in senso nietzschiano, c’è il desiderio che ognuno possa urlare sé stesso, invadere le aree e gli spazi, rappresentarsi ed esprimersi, perché la forza che abbiamo dentro non ammette dighe, né barriere, e l’anima non può essere contenuta né fermata.
Nell’ultima poesia il possesso della luce si compie definitivamente, e lì – verso lo sguardo del cielo geloso, perché spesso nascosto e celato – lì utopicamente non c’è più dolore, tutto è luce e musica, e ognuno può essere sé stesso rivendicandosi, esprimendo la sua unicità. Allora anche il buio, che pure si inframezza nelle nostre giornate, potrà mostrare la sua luce, e potremo vivere dentro le cose e gli eventi, fare in modo che non ci siano barriere fra noi e loro, e potremo così comprendere la morte e i morti, comprendere quanta luce c’è nella loro ombra, e come l’assenza non sia che una presenza superiore. In questo finale si esalta indubbiamente la matrice mistica e forse religiosa dei versi, essa però viene fuori da sé, non c’è la volontà di esprimere una fede, ma solo l’idea che è l’illusione a muovere le nostre vite, e anche se fosse falsa, se questa prospettiva non fosse che un inganno e noi fossimo solo materia, che importa se essa, l’illusione, ci ha resi più vivi e felici?
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