Sta di fatto che quello dei giovani martiri del 1943 è un caso caratterizzato fin dall’inizio da un’inquietante vocazione al silenzio

di Errico Centofanti

Fateci caso: per quanto se ne parli poco e di rado, quando se ne parla quell’espressione “Nove Martiri Aquilani” echeggia come un’astrazione, impersonale, remota.

Eppure, quelle sono state nove persone vere: una realtà effettiva, effettive esistenze, nove ragazzi di meno di vent’anni, ognuno con una faccia, un cervello, un nome, un cognome.

Persone tanto vere e vicine che, oggigiorno, dalle parti nostre, nomi come quelli potremmo leggerli tranquillamente sui pulsanti di qualsiasi citofono: Anteo Alleva / Pio Bartolini / Francesco Colaiuda / Fernando Della Torre / Berardino Di Mario / Bruno D’Inzillo / Carmine Mancini / Sante Marchetti / Giorgio Scimia.

C’è un racconto di Hemingway, uno dei meravigliosi racconti di Hemingway, dedicato ai foschi anni che videro le armate fasciste accorrere da mezza Europa per abbattere il giovane ordinamento repubblicano della Spagna. Hemingway si sofferma intorno a un fatto accaduto nel corso del secondo inverno in cui i fascisti tenevano Madrid sotto assedio.

In conseguenza di un deplorevole malinteso, un giovane ebanista era stato ucciso in un caffè da alcuni dei presenti. Commentando le azioni del giovane ebanista che avevano innescato il tragico epilogo, il direttore del caffè aveva detto: «La sua allegria entra in contatto con la serietà della guerra come una farfalla… Una farfalla e un carro armato».

Quel racconto m’è venuto in mente leggendo il bel libro di Vladimiro che scuote la tiepida attenzione della nostra comunità verso il tragico caso dei nove giovani martiri del 1943. Alcune tra le immagini composte da Hemingway mi davano l’idea di somigliare a una fulminea quanto felice sintesi delle rivelazioni prodotte da Vladimiro con le sue pagine.

Chiarisco perché dico “rivelazioni”, sebbene la scrittura di Vladimiro si muova lungo i binari tracciati dagli avvenimenti storicamente accertati e nulla aggiunge o potrebbe aggiungere a quanto si conosce attraverso i pochi documenti finora accessibili.

Le “rivelazioni” non potrebbero essere e, infatti, non sono di genere fattuale: scaturiscono a cascata dall’idea generatrice del libro e dal metodo con il quale quell’idea è stata resa produttiva.

L’idea mirava a illuminare un aspetto mai finora affrontato d’una giornata drammaticamente particolare quale fu il Giovedi 23 Settembre del 1943: un aspetto che fu il motore per quella vicenda, come lo è per qualsiasi altra vicenda umana: cioè, la sostanza di caratteri e valori soggettivi dei nove ragazzi protagonisti e d’alcuni tra quanti con loro e intorno a loro interagirono.

Il metodo, ovviamente, in altro non poteva consistere se non in un lucido esercizio d’invenzione, praticato con il ricostruire l’immaginato quanto assolutamente veridico intrecciarsi di ragionamenti, idee e sentimenti che supportarono il procedere delle azioni a tutti note.

Il risultato sono, appunto, “rivelazioni”, cioè la messa in luce di fatti e pensieri la cui conoscenza è indisponibile, inattingibile, nascosta, comunque ignota.

Ora, poiché il libro consiste in un insieme di “rivelazioni”, prodotte come ho appena descritto, è evidente che Vladimiro fa letteratura: della buona letteratura, direi. Il che non è cosa da poco, in quanto la letteratura, indagando le profondità dell’animo umano, sa vedere e comprendere quanto alla storiografia non è dato d’attingere e cosí, non di rado, perviene a delineare insospettate approssimazioni alla verità.

La ricerca di Vladimiro evidenzia, a mio modo di vedere, alcuni fattori politicamente e culturalmente fondamentali: fattori che gettano nuova luce sulla nobiltà etica e morale di quei ragazzi del 1943, fattori dai quali il caso che fu apice di quelle brevi vite viene proiettato verso un’esemplarità di portata ben piú ampia rispetto al cauteloso cabotaggio localistico tuttora vigente.

Già, perché tra noi aquilani non è mai emersa una considerazione adeguata verso quel caso e tanto meno sono stati approfonditi gli studi sui suoi singoli protagonisti e sulle persone e le entità istituzionali detentrici delle responsabilità attive e passive che allora furono in campo.

È un vecchio guaio nostro, quello della “rimozione”. Non sempre è stato cosí. Probabile è che l’attitudine a rimuovere dalla memoria collettiva le cose scomode venga dal terribile trauma del 1703, dall’angoscia del doversi misurare con lo strazio per la nostra catastrofe maggiore, per la città quasi tutta rasa al suolo, per la terrificante quantità dei morti. Forse, è da allora che la memoria nostra s’è aggiustata a farsi corta, disseccando irrimediabilmente l’antica abilità nel fare di noi stessi i progettisti del nostro futuro.

Sta di fatto che quello dei giovani martiri del 1943 è un caso caratterizzato fin dall’inizio da un’inquietante vocazione al silenzio. Vollero silenzio gli stessi carnefici, perché ne ebbero paura: paura di divulgare la notizia, per evitare che quello, primissimo in Italia, tra gli episodi della Resistenza in armi, potesse diventare un allarmante esempio. E silenzio vollero, ciascuno in ragione dei rispettivi opportunismi, i fascisti, la gerarchia cattolica e molti altri.

Tra i fattori politici e culturali evidenziati in forza delle “rivelazioni” offerte dal lavoro di Vladimiro ce n’è uno in particolare sul quale voglio richiamare la vostra attenzione: quello che innalza il caso dei nove martiri del 1943 a limpida dimostrazione della netta distinzione tra i concetti di “libertà” e “liberazione”.

Non sto vagabondando intorno al sesso degli angeli: sapete benissimo quanti e perché, in Italia, vorrebbero estirpare dai calendari e dalle menti dei cittadini la parola “liberazione”, sostituendola con “libertà”.

La finzione narrativa di Vladimiro lascia emergere chiaramente come quei ragazzi del 1943 non cercassero una generica “libertà”, ma ambivano alla propria “liberazione” e avevano in animo di battersi per una piú grande “liberazione”: quella di tutti gli italiani.

In quel tempo lí, in gran parte degli italiani viveva la speranza di soppiantare un sistema disumano, dominato da oppressione, povertà, sfruttamento, violenza.

Molti resistevano e lottavano avendo in mente la visione di un uomo nuovo, liberato dal bisogno, dalla paura, dall’odio, restituito alla pienezza della propria persona, non piú suddito ma cittadino incardinato in una società fondata su giustizia e solidarietà, in una società quale poi sarebbe stata disegnata dalla nostra Costituzione repubblicana, tuttora largamente ignorata e troppo spesso tradita.

Insomma, “libertà” voleva essere seme e lievito per la liberazione integrale della persona e del popolo.

Il concetto di libertà non lo si considerava solo in astratto, ma nel suo esercizio concreto, dentro i processi storici e socio-culturali, trasformato cioè in “liberazione”.

Si ama credere e far credere che quei nove ragazzi cercassero semplicemente di sfuggire al reclutamento coatto di operai per l’industria bellica nazista, che nient’altro avessero in mente e tanto meno di voler agire per una “liberazione”.

Al contrario, in forza delle carte d’archivio e dei contesti sociali e formativi di quei nove ragazzi, l’elaborazione narrativa di Vladimiro mostra come quelle giovani menti fossero ben consapevoli e determinate a impegnarsi nella lotta per liberarsi e liberare la nazione tutta da un regime politico e da un’oppressione straniera che non riconoscevano spazio per la dignità delle persone.

Né, quei nove ragazzi, erano degli alieni, capitati da queste parti per un capriccio della sorte. Loro, loro sí, appartenevano a quell’incorrotto fiume carsico che scorre nascosto sotto le pietre della città e ogni tanto riemerge, nelle forme e nelle occasioni piú imprevedibili, per testimoniare la perdurante vitalità del progetto politico che fu dei padri fondatori e che Buccio da Ranallo indica con mirabile sintesi: «Per non essere vassalli cercaro la libertade».

Qui devo tornare a quella che a me pare una fulminea quanto felice sintesi delle rivelazioni prodotte da Vladimiro: torno alle immagini di Hemingway.

L’ “allegria”, in primo luogo. La loro fu tutt’altro che una “ragazzata”, ma quelli “ragazzi” lo erano veramente.

Cosí, con l’amorevole ricostruzione delle parole e dei gesti che quei ragazzi poterono essere nei momenti dei quali non c’è testimone abilitato a dirci una qualsiasi cosa, cosí Vladimiro dimostra come loro non potessero comportarsi se non da ragazzi, non solo per l’esuberanza e la passionalità delle intenzioni e dei gesti ma pure con l’allegria tipica di chi impegna i propri vent’anni.

Perciò, li vediamo correre verso il loro destino non con sciocca spensieratezza, ma con allegria, pervasi dalla consapevolezza d’affrontare qualcosa di doveroso, di esaltante, a misura del loro entusiasmo, anche se troppo piú grande di loro.

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Cosí, la loro «allegria entra in contatto con la serietà della guerra come una farfalla». E proprio allegri e luminosi, come una farfalla, ma pure fragili e effimeri, come una farfalla, vengono sorpresi e travolti da qualcosa che per loro è come «un carro armato», tenebroso, poderoso, incontrastabile, inesorabile.

È cosí che Vladimiro, navigando nei loro cuori e penetrando nei loro pensieri, quei nove ragazzi ce li mostra e li fa vivere: come radiose farfalle in volo verso gli artigli di una macchina infernale.

Fa di piú, Vladimiro, con il suo libro, fa qualcosa senza esprimerla con le parole, ma lasciando che, rigo dopo rigo, quel qualcosa s’impianti e germini in noi lettori: ci fa pensare a noi stessi.

Oggi, a noi che viviamo dentro un conglomerato neoliberista e conservatore, guidato da una visione del bene e del male priva di consapevolezza valutativa, nel quale s’innalzano a valori di riferimento solo il successo economico-sociale, la prosperità egoista, la sfrenatezza del godimento, la volgarità e brutalità dei comportamenti, oggi, a noi, Vladimiro fa capire che ricordare quei nove ragazzi non significa pensare a qualcosa di astratto, di spento e distante.

Vladimiro, con il suo libro, ci prende per mano e, nel raccontarci di «una farfalla e un carro armato», dimostra come la letteratura, non di rado, faccia sí che la verità pervenga a rendere vera la finzione. Cosí, Vladimiro ci incide sulla pelle il senso bruciante dell’insegnamento di Piero Calamandrei, uno dei nostri Padri Costituenti: «In queste celebrazioni che noi facciamo della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi […] anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi. […] Quando pensiamo a loro […], ci accorgiamo che sono loro che giudicano noi: è la nostra vita che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte; e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre».

(Dalla presentazione La forma della speranza di Vladimiro Placidi, Verdone Editore, L’Aquila, Sabato 21 Settembre 2019)