Guy Debord aveva ben visto come il divenire mondo della merce è il divenire merce del mondo. Ma oggi questa merce è insanguinata e l’ultimo rivoluzionario ha appena fatto in tempo a sopprimersi per non sentire in bocca il gusto ferroso del sangue commerciale della tecnocrazia del lutto
di Luigi Fabio Mastropietro
I. il dio fucilato: racconto delle ceneri
Se un dio ha fatto questo mondo, io non vorrei essere quel dio, perché il dolore del mondo mi strazierebbe il cuore.
(Arthur Schopenhauer, Nachlass)
Un mercoledì sera di pioggia fredda e sottile a Champot.
Dalla finestra della grande cucina a picco sulla forra, la collina solcata dalle viti sembra nella pioggia il relitto di un veliero distrutto dal fortunale.
Alice ha chiuso le persiane azzurre e dorme rannicchiata in un angolo del letto sul dirupo.
I suoi occhi tremano nel riflesso grigio dell’acqua.
Lei non mi vedrà più ma quello che mi fa più male è che io non vedrò più lei.
Sono alla scrivania dietro la lampada spenta. Il dolore mi brucia le gambe fino al ginocchio. Due ossa incandescenti che non rischiarano il pozzo che mi ha ingoiato. E allora risalirò sui carboni ardenti con il passo dell’oca.
La voragine che si è aperta nel mondo non mi fa paura quanto il sibilo del serpente nella testa. Saetta soffiando sangue dalla tempia destra alla sinistra e dalla sinistra alla destra. Si accuccia ansante nell’occipite caldo e poi spara d’improvviso spire di fuoco contro le pareti di carne pulsante del pozzo. La sua coda di ghiaccio affonda nella sclera martoriata degli occhi come il coltello nel burro.
Adesso lo so. La serpe arriva con la pioggia e si spegne solo con il fuoco del supplizio.
Ma questa volta sarò io a spegnere il fuoco.
Devo solo chiudere gli occhi un momento prima di chiuderli per sempre.
Alice perdonami.
…
Medita, il maledetto.
Guy Debord, l’esteta della sovversione non vuole più la rivoluzione ma nemmeno il perdono.
Pensa di levare la mano su di sé.
E questa volta stringe in pugno il ferro che conosce la strada del cuore.
E noi, i suoi compagni di una vita, agnelli smarriti tra i lupi, che ne sarà di noi?
…
Al primo giro di boa della nostra vita siamo già vittime del sortilegio di una cupa malinconia, pronunciata con il canto del cigno che echeggia beffardo nel teatro della giovinezza perduta.
E allora, consumati fino alle ossa dall’inverno del nostro scontento, andiamo in giro di notte a spargere le ceneri della rivoluzione e ogni sera il viaggio è un chiodo piantato tra le costole.
Ma l’ultima volta, all’arrivo in città, ci sorprende un mattino pietrificato di nuvole basse. Parigi ci accoglie come un’urna vuota, appena umida di sonno, mentre emerge dalla bruma la Île de la Cité, oasi saccheggiata nel deserto dei nostri cuori.
Allora restiamo a lungo curvi sul fiume, corvi accecati dalla rabbia, pronti a serrare lo stormo e volare giù in picchiata.
L’alba è morta da un pezzo quando un poulet risale lento e marziale dal Pont-Neuf e poi comincia a correre verso di noi, animale imbizzarrito che grida al vento freddo del mattino le formule scritte sulla lavagna della gendarmeria.
Lui è solo contro tutti ma la giustizia divina è al suo fianco e ci sgominerà con una raffica di leggi e regolamenti, quanto basta per spazzarci via dalla tavola imbandita per i turisti, noi briciole moleste insieme ai pochi clochard riversi nelle aiuole.
Arriviamo nel rifugio sotto i portici dell’Hotel des Monnaies che è di nuovo notte e il giorno non sembra essere mai nato. Il freddo della pietra ci graffia la lingua e ripensiamo alla cartolina appesa nella vetrina del tabaccaio ebreo. Le square du Vert-Galant in bianco e nero. Al centro della piazza c’è una madre bambina intirizzita che fissa la carrozzina vuota.
Non conosciamo il suo nome ma ci ricordiamo che è nostra madre. L’amorevole madre di tutti i cani che infestano le banlieues di Parigi e le periferie del mondo. Nostra madre dei Pezzenti piena di grazia perduta.
La incontriamo alla fine del nostro cammino o forse scorgiamo la sua ombra solo in pieno sole. Ma lei ci accompagna silenziosa fino a Notre-Dame, dove ci ritroviamo tutti, uomini e ombre appena più scure delle ombre delle gargouilles.
Finalmente ci guardiamo negli occhi uno per uno e apriamo i pugni, mostrando le stimmate sulle mani. Incuranti del sangue che gronda dalle palme aperte, ci stringiamo in falange serrata e affrontiamo la Senna per l’ultima volta.
Il demone di Parigi che abita le sue ceneri affoga con noi nel fiume. Con noi si inabissa il padre ripudiato mentre il gorgo muto della storia gli restituisce la voce che non ha mai avuto.
II. l’arte di morire d’arte: sette tesi sul suicidio di Guy Debord
L’unico problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta significa rispondere al quesito fondamentale della filosofia.
(Albert Camus, Il mito di Sisifo)
- il suicidio dispneico
“Si vive e si muore nel punto dove confluiscono grandi misteri”, ha scritto Guy Debord.
E il mistero supremo del desiderio di vivere e di morire, ha segnato fin dall’inizio la sua vita, una vita di avventure “virtualmente rovinata”. Di più, l’ha segnata l’ossessione di un “arcano” dei tempi moderni. Il mistero della corruzione del desiderio in bisogno. La putrefazione della passione individuale in consumo di massa, una colliquazione dell’Occidente che ha reso l’aria irrespirabile ovunque. Per lui e per tutti gli altri argonauti della rivoluzione situazionista.
- il suicidio politico
L’utopia di Guy Debord di una società di situazioni deperibili deliberatamente costruite, nella quale i desideri dimenticati dell’uomo riconquistano il centro della vita e tornano ad essere i motori riconosciuti del mondo, si infrange sulle barricate del maggio 1968. La poesia non sarà mai più parte della vita quotidiana. Il pane e le rose rimangono nelle mani di sindacati e confindustrie. L’urlo majakovskijano dell’ultima avanguardia muore nel vuoto dei non luoghi del postmoderno. E la notte della politica sarà senza stelle.
- il suicidio fisico
L’unica strada è allora morire di dolore. Il gusto metallico di questa morte si può assaporare lentamente e a lungo. L’alcol regala a Guy Debord un dolore felpato di rosso. E mano a mano che il suo desiderio di vivere sta corrompendosi in bisogno di vivere, il suo corpo reclama sempre più fuoco. Fino all’ultima scintilla del suo spirito.
- il suicidio metafisico
Si può anche morire di quella passione primigenia che il furore iconoclasta di Guy un tempo aveva soffocato, perché “la grandezza dell’arte non comincia ad apparire che al crepuscolo della vita”. E come affermava Paul Morand, il morire d’arte deve essere l’arte del morire.
Ma Guy Debord ha scritto La società dello spettacolo, la bibbia della contestazione globale al sistema. Il libro dell’apocalisse della società postmoderna.
Il suo occhio tiresiaco ha già visto nei telegiornali sbiaditi e un po’ bulgari degli anni sessanta quello che tutti vedranno solo trent’anni dopo. Nel rutilante universo della mondovisione il fatto si separa dalla sua immagine e l’immagine del fatto si trasforma nello spettacolo della notizia. Uno spettacolo onnipresente, onnipotente e onnipervasivo. Un assoluto uniperversivo.
Il Leviatano della notizia-spettacolo condiziona le nostre scelte e detta l’agenda delle nostre giornate. Ci lascia in preda ad un torpore sazio e ottuso. Fa calare sulle nostre pupille la cataratta dell’indifferenza.
Mentre massacri ed epidemie, guerre e uragani, sono amplificati e trasfigurati dai media globali, si allontanano sempre più da noi, dal nostro quotidiano vissuto di spettatori non vedenti. In televisione il sangue e il dolore perdono la loro dimensione fisica per acquistare un sapore metafisico che avvelenando i sensi narcotizza le coscienze.
Chi si è veramente accorto dell’ecatombe della guerra fratricida che ha sbranato e desertificato nazioni e popoli nel cuore dell’Europa dei diritti civili? Eppure la folle mattanza si è consumata per dieci anni nei territori della ex-Jugoslavia. Eppure le fosse comuni e i lager erano solo a pochi chilometri dalle spiagge dove prendevamo il sole nei primi anni Novanta. In riva al mare di sangue che ci bagnava i piedi appena venti anni fa.
La cecità raccontata da José Saramago è tanto contagiosa al punto che l’Europa si auto-insignisce del Nobel per la pace con la motivazione ufficiale di sessant’anni senza guerre sul continente. Da quanto tempo i Balcani non sono più in Europa? Oggi i Balcani sono ancora distanti anni luce da noi europei ormai definitivamente balcanizzati dalla società dello spettacolo. Cannibalizzati dall’indifferenza del circo mediatico dei tecnocrati del lutto che ci governano.
Ovunque l’esperienza dei fatti, la loro sostanza, è sostituita dalla religione della notizia-spettacolo. La celebrazione quotidiana dei riti osceni dell’infotainment è diventata ormai il nostro principale organo sensoriale e cognitivo.
Paradossalmente la moderna civiltà dei consumi e dell’edonismo ha ceduto all’anedonia universale. Siamo ormai incapaci di provare veramente piacere e dolore perché il medium vive la nostra vita al nostro posto.
Guy Debord sceglie di suicidarsi già nel 1972, sciogliendo l’Internazionale Situazionista. “Diventeremo ancora più inaccessibili, ancora più clandestini. Più le nostre tesi saranno famose e più noi saremo oscuri. Non vogliamo essere l’ultima forma di spettacolo rivoluzionario.”
E più tardi, nel 1994, si toglie la vita nel suo casolare di pietra di Champot-Bas, sparandosi un colpo di fucile al cuore, perché non può più continuare a vivere quando il veleno metafisico della notizia-spettacolo è ormai lo stesso sangue che scorre nelle sue vene.
- il suicidio preventivo
Eppure l’iconurgo della fine avrebbe potuto ancora vivere, nonostante il suo terzo occhio dolorosamente aperto sul futuro del mondo. Ma, come scrive Paul Morand a proposito di Otto Weininger, Guy Debord “aveva il genio e il suo libro era a prova di ogni attacco. L’orgoglio gli impediva di confessare l’errore vitale nel quale lo trascinava un pensiero troppo rigoroso. E il coraggio gli vietava il compromesso che permetteva agli uomini di non vivere secondo le loro idee”.
Otto Weininger, di fronte allo “spaventoso dilemma: la mia opera deve morire oppure devo morire io”, si uccide con un colpo di rivoltella al cuore. Guy Debord, invece, si spara una fucilata al cuore solo dopo aver disposto anche la morte preventiva delle sue opere. E i manoscritti dei tomi successivi ai primi due di Panegirico saranno bruciati proprio nella notte del 30 novembre 1994.
- il suicidio catartico
“Ho abitato in Italia e in Spagna, e principalmente a Firenze e a Siviglia […] ma anche in altre città che vivevano ancora. Ben più tardi, quando la marea di distruzioni, inquinamenti, falsificazioni, aveva invaso la superficie del mondo intero, ed era nello stesso tempo penetrata in tutta la sua profondità, sono potuto tornare alle rovine che restano ancora di Parigi, poiché allora non era più rimasto niente di meglio altrove. In un mondo unificato, non ci si può esiliare.”
Paradossalmente, la società dello spettacolo ha ucciso l’esilio come categoria dello spirito, nel momento in cui ha fatto dell’intero pianeta un unico, sconfinato scalo merci. Un solo, smisurato non luogo di esilio.
Tornato alle rovine di Parigi, Guy Debord realizza definitivamente che se il mondo è stanco di lui, il papa solitario lo è altrettanto della sua chiesa.
Gli amici si indignano per la sua solitudine sdegnosa. L’intellighentia riformista lo lapida per la sua scrittura lapidaria. L’angoscia lo assedia per il suo assoluto essere altro. L’incessante rumore di fondo dei mass media della neo-società dello spettacolo lo assorda e lo annichilisce. Guy Debord scopre alla fine di esistere solo “in negativo”, attraverso lo specchio del medium.
Così l’ipnotico manipolatore delle masse si vede trasformato in un Narciso involontario. E la sua ultima ossessione diventa sottrarsi al contesto per distruggere il contesto.
- Il suicidio immortale
Alla fine ci si uccide per non morire, perché l’unica possibile redenzione è contro se stessi. E la propria morte è anche la salvezza di chi resta in vita.
Così fuori dal mondo, eppure così dentro il mondo, Guy Debord non ha mai avuto scampo.
Il suo suicidio lo rende immortale perché è il canto del cigno della morte prima di scomparire, cancellata dal suo spettacolare simulacro.
Soundtrack di Mari de Jesús Correa
III. la tecnocrazia del lutto
Cittadini repubblicani, non c’è più nessuna Vandea! È morta sotto la nostra sciabola libera, con le sue donne e i suoi bambini. L’abbiamo appena sepolta nelle paludi e nei boschi di Savenay. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli e massacrato le donne che non partoriranno più briganti. Non ho un solo prigioniero da rimproverarmi. Li ho sterminati tutti e le strade sono seminate di cadaveri.
(Da una lettera del generale François Joseph Westermann al Comitato di salute pubblica)
Con la Società dello spettacolo del 1967, Guy Debord demolisce l’intero impianto simbolico del pensiero occidentale. Polverizza il “mondo dei simulacri” del neoplatonismo pervenuto al suo culmine con lo strutturalismo. Abbatte “il mondo dietro il mondo” di Nietzsche, poiché “lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale, che costituì pure una comprensione dell’azione dominata dalle categorie del vedere; così come si fonda sull’incessante dispiegamento della precisa razionalità tecnica che è derivata da questo pensiero. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. È la vita concreta di tutti che si è degradata in un universo speculativo”.
Con una lucidità agghiacciante, agli albori dell’era televisiva, Guy Debord vede lo spettacolo come la nuova religione dei tempi moderni, a causa della quale “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.”
Lo spettacolo non è “un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”. Non è più solo, marxianamente, la sovrastruttura dei rapporti di produzione, bensì “è il cuore dell’irrealismo della società reale”, dal momento in cui la realtà e la sua immagine sono radicalmente separate. “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”, scrive Debord, con un felice détournement tra Hegel e Nietzsche. L’immagine della realtà esiste come sostanza autonoma, separata dal mondo, suo referente oggettivo, e brilla di luce propria, accecando l’uomo postmoderno con l’abbagliante potenza del falso d’autore.
In questa “quarta dimensione” dell’irrealtà, l’arte non può più aderire alla società. Non può più riconoscerla e deve di conseguenza contestarla con rigorosa intransigenza. Fino a proclamare la morte di ogni avanguardia e alla fine dell’arte stessa.
Nei Commentari del 1988, Guy Debord annuncia il transito della società dello spettacolo alla sua forma evoluta di “spettacolare integrato”. È la fine della storia perché “il crimine perfetto ha soppresso la realtà”. La vittoria della finzione sulla verità, della copia sull’originale, della forma sul contenuto è totale. L’uomo contemporaneo è ormai merce tra le merci, oggetto tra gli oggetti ed è in mostra permanente nei non–luoghi di tutto il pianeta.
Un infinito, sterminato presente, cancellando ogni passato e ogni memoria, ha annullato ogni possibile futuro. L’artificiale illimitato è in scena ovunque. La realtà quotidiana è mutilata di ogni significato oggettivo e stabile. In quanto perennemente cangiante, diventa un percetto, impossibile da percepire in modo univoco. È una realtà inesistente, una realtà cancellata dal suo spettacolo.
Eppure, dopo la morte di Guy Debord, la società dello spettacolare integrato transita a un modello ancora più avanzato. Dopo l’11 settembre 2001, la gestione spettacolare integrata degli uomini-merce, si trasforma in amministrazione tecnocratica della morte-merce.
Guy Debord aveva ben visto come il divenire mondo della merce è il divenire merce del mondo. Ma oggi questa merce è insanguinata e l’ultimo rivoluzionario ha appena fatto in tempo a sopprimersi per non sentire in bocca il gusto ferroso del sangue commerciale della tecnocrazia del lutto. L’ultima frontiera della società dello spettacolo è la società della guerra permanente prima per il petrolio e poi per il gas, la madre di tutte le merci.
L’editore di Panégyrique II afferma che il suicidio di Guy Debord è stato il suo ultimo potlach. “La sua morte ebbe questo di ammirevole, di non poter passare per accidentale”. Di più, l’artista del dispendio, con il suo ultimo potlach, ha profetizzato il devastante potlach dell’asse Bush/Blair, con il suo incestuoso corollario Biden/Zelensky.
Non a caso, il sociologo Gaston Bouthoul, dopo aver esaminato le congiunture economiche che precedono, accompagnano e seguono le guerre, perviene alla conclusione che le vicende economiche delle guerre moderne rappresentano un “ciclo di prodigalità”, in senso antropologico, con il quale, inconsciamente, i costumi di dissipazione tipici delle tribù primitive ritornano e si riaffermano nelle società contemporanee.
Tale ciclo di prodigalità ha un significato specificamente psicologico ed emerge con particolare evidenza nelle guerre promosse in Oriente e in Medio Oriente dopo l’11 settembre, sostenute dalla spettacolare strategia di combattimento del terrore globale e dall’incarnazione dell’utopia di un mondo unipolare attraverso l’esportazione della democrazia nelle sue forme occidentali. Tutti i maggiori conflitti presentano oggi le caratteristiche del potlach, il “dono di rivalità”, secondo la definizione di Marcel Mauss e Georges Bataille.
Il potlach è originariamente il dono solenne di ricchezze considerevoli, offerto da un capo al suo rivale, allo scopo di umiliarlo, sfidarlo e obbligarlo. Colui che ha ricevuto il potlach deve cancellare l’umiliazione e raccogliere la sfida. Deve, in altre parole, soddisfare l’obbligo che ha contratto accettando il dono, attraverso un nuovo potlach, ancora più ricco e generoso del primo. Il donatario del potlach è obbligato a restituire “con usura”.
Ma la cerimonia del potlach non si realizza solo attraverso questa sorta di trappola sociale. Al contrario, in una forma molto diffusa nelle società premoderne, il potlach consiste in un rito complesso di distruzione solenne di una determinata quantità di ricchezze. Ad esempio, uno studio antropologico del secolo scorso registrò un particolare costume dei Tlingit dell’Alaska occidentale.
Portfolio di Marcella Cicchino
Il capo dei Tlingit si presentava ciclicamente ai suoi rivali per sgozzare sotto i loro occhi alcuni schiavi. La cerimonia di distruzione di beni tribali di grande valore, come gli schiavi, doveva essere più tardi replicata dal rivale di turno, attraverso il massacro di un numero ancora più grande di schiavi.
In questo caso, il potlach ciclico-rituale diventa una cerimonia ostensoria di distruzione, con lo scopo evidente di intimidire e controllare il capotribù rivale, fino ad annichilirlo. Infatti, come appare oggi con tutta evidenza nell’Europa della guerra russo – ucraina, è proprio questo surplus di autodepredazione, questo “rincaro di sangue” e distruzione, a conferire grande potere e prestigio al donatore – distruttore.
E l’attuale corsa frenetica agli armamenti e alle guerre preventive e “umanitarie”, alle missioni di soccorso delle nazioni aggredite dall’Hitler di turno, rappresenta su scala planetaria un ciclo inarrestabile di “prodigalità-sfida”, che si auto-alimenta all’infinito e nel quale ognuno degli avversari in campo distrugge una colossale quantità di ricchezza finanziaria per fabbricare armi e di vite umane per consumare le armi prodotte.
Masse sempre crescenti di “opliti” e ostaggi-schiavi sono mandati al macello ai quattro angoli della terra per intimidire il nemico e indurlo a riconoscere la propria superiorità culturale e “morale”. La prova della natura di “gratuità culturale” di questo mostruoso potlach globale, è il fatto che le guerre preventive e “difensive” di oggi, nonostante i proclami dei governanti, non hanno mai condotto a risultati economici apprezzabili per i popoli e le nazioni, ma solo ad ingrassare a dismisura i soliti sciacalli della ricostruzione post-bellica.
I tecnocrati del lutto, dunque, attraverso questa cerimonia sempiterna di devastazione del pianeta, sia sotto il profilo ambientale che culturale, realizzano alla lettera il vaticinio di Emile Cioran. “Per raggiungere non tanto la felicità quanto l’equilibrio, dovremmo liquidare una buona parte dei nostri simili, praticare quotidianamente il massacro, sull’esempio dei nostri fortunatissimi e lontanissimi avi”. Del resto, come scrive Johan Huizinga, “l’immagine che ci siamo fatti di tutte le civiltà anteriori alla nostra è diventata più serena da quando abbiamo preso l’abitudine di guardare invece di leggere. Le arti figurative non si lamentano”.
La pace dei governi occidentali è la tregua spettacolare di sangue dei popoli. Nelle strade e nelle case delle città si continua a morire di questa pace. Grazie al perenne potlach in vigore ai massimi vertici del mondo, ognuno di noi è un ostaggio nelle mani dei signori della guerra infinita. Condannati a vivere nell’inverno del rischio planetario, merce di scambio per armi, gas e petrolio, il nostro sangue e quello dei nostri figli è moneta facile per i fabbricanti di morte. Le nostre vite sono un effetto collaterale del consolidamento del mercato ad Oriente e della strenua difesa di un mondo unipolare che non esiste più.
In questo mondo sempre più instabile, con un Occidente ormai “cannibalizzato” dalla morte della politica, la dimensione del sacro sopravvive solo nel consumo – a chi ha, sarà dato, a chi non ha, sarà tolto. La sfera morale è asservita alla legge del profitto globale e contrabbandata come “fatale” scontro di civiltà, inevitabile conflitto tra i buoni democratici occidentali e i cattivi autocratici orientali.
I tecnocrati del lutto in Europa, con i loro giocattoli parlamentari, producono grafici e diagrammi di morte. Grafici e diagrammi contengono il mondo dentro muri e sbarramenti. Decidono le quote di chi deve vivere e di chi deve morire, in nome dell’inafferrabile merce della fine dei tempi.
Lo spirito immortale di Guy Debord aleggia ancora inquieto su questo deserto di parole. L’uomo contemporaneo ha perduto da tempo il senso della realtà quotidiana, cancellata dallo spettacolo planetario integrato del mercato globale. Solo con il contributo di merci che grondano sangue l’uomo può trovare una propria collocazione nel mondo. Solo l’inganno dello spettacolo integrato può restituirgli per un momento l’illusione di essere vivo.
Vivo almeno fino al prossimo potlach.
© copyright 2022 by Luigi Fabio Mastropietro
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