Tante volte, come terapeuta al lavoro con pazienti traumatizzati, rifugiati politici, vittime di guerra e/o tortura mi sono trovata ad usare metafore che avevano a che fare con il ripartire da quel che resta oppure con il raccogliere e il rimettere insieme i cocci, quel riparare che anche nell’arte giapponese esalta con tracce d’oro proprio i punti di rottura. Si può fare, lo faccio, lo facciamo, per fortuna in tante e tanti
di Ilaria Carosi
Nei miei anni di studio e lavoro ho imparato che chi sopravvive ad un evento traumatico scinde l’esperienza in un “prima” e un “dopo” che, talvolta, non si riallineano mai. Non è solo una questione temporale ma psichica, si crea una frattura nella continuità dell’esperienza che non sempre si ricompone.
Ho imparato che chi arriva da una guerra ne porta i segni incisi addosso, su braccia e gambe variamente offese ma anche sulla pelle e nelle orecchie, nell’equilibrio di un corpo che trema o sobbalza al minimo rumore, nello sguardo che continua a “vedere” orrori come fossero reali, anche quando sono “passati” e prendono forma solo nella mente, sotto forma di pensieri intrusivi, flashback oppure come sogni che diventano incubi: non danno tregua e tormentano di giorno come di notte, da svegli oppure da addormentati, per chi a dormire riesca.
Ho imparato e visto che il trauma talvolta spegne il cervello, lasciando catatonici, con lo sguardo fisso e la bocca arida di parole, apparentemente insensibili a quanto accaduto, distanti, ovattati, psichicamente congelati: lo chiamano freezing, per l’appunto ed assomiglia a quello che fanno gli animali quando si immobilizzano o si fingono morti di fronte ad un pericolo o ad un predatore che ne metta a rischio la sopravvivenza stessa. A livello psichico – di fatto – è uno stato dissociativo che può avere durata ed intensità, dunque gravità, variabili: dipende dalle caratteristiche dello stimolo e dal tempo di esposizione ad esso. Dipende dalle caratteristiche della persona e della personalità, dalla fase di ciclo vitale in cui ci si trova, dal contesto in cui il trauma prende forma.
Ho imparato e visto che il trauma, talvolta, attiva il cervello, bloccandolo in uno stato di sovra-eccitazione (iperarousal) perenne, quasi fosse un rumore di sottofondo che non dà tregua, ottunde i pensieri e la coscienza, attiva il corpo, non lascia riposare, a meno che non si ricorra ad un qualche rimedio anestetizzante, chimico, alcolico.
Mi hanno insegnato che gli effetti di un trauma sono tanto più gravi quanto più lunga è l’esposizione ad esso.
Slides (a cura della redazione)
Mi hanno insegnato che gli effetti di un trauma sono tanto più impattanti quanto più precocemente se ne faccia esperienza: vuol dire che il cervello di un bambino – che è ancora in via di sviluppo – e la sua psiche subiscono danni maggiori rispetto a quello che accade ad un adulto, tanto più se i fattori di protezione che potrebbero mitigarne l’impatto – ad esempio, banalmente, le sue figure di accadimento – siano indisponibili (perché a loro volta traumatizzate oppure morte).
Hanno scoperto, in anni più recenti, che il trauma può trasmettersi intergenerazionalmente – dunque anche a chi non lo ha direttamente vissuto – attraverso alterazioni biochimiche che dai genitori “passano” alla prole ma anche attraverso alcuni modelli di comportamento o di pensiero (disfunzionali) che vengono indirettamente appresi perché ad essi si è esposti. La stessa cosa accade anche a causa di alcuni stati o disturbi emotivi (primo tra tutti la depressione) che possono influenzare le figure di accudimento e di conseguenza la qualità delle relazioni (di un figlio) con loro.
Mi hanno insegnato che in psicologia non ci sono equazioni perfette: uno stesso evento traumatizzante può generare effetti diversi e nessun destino è scritto aprioristicamente.
Mi hanno insegnato che abbiamo tutti qualche risorsa cui attingere quando subiamo un trauma, avremmo in linea teorica risorse personali che si attivano spontaneamente, qualcuno l’ha definito una crescita attivata dalle avversità. Abbiamo, inoltre, risorse comunitarie, sistemiche, offerte dal contesto relazionale in cui viviamo oppure da chi intervenga in nostro aiuto, in simili circostanze: sempre che il contesto in cui sia necessario intervenire non sia un teatro attivo di guerra, sterminio, morte. Sempre che chi deve soccorrere non sia a sua volta esposto a un continuo rischio di traumatizzazione perché in quel teatro di guerra, sterminio e morte vive a sua volta.
E poi, certo, c’è la psicoterapia che ha fatto del riparare un’arte e molto può fare per chi sia gravato da questo tipo di sofferenza psico-emotiva e corporea e che anzi si rivela assolutamente necessaria per ricomporre la frammentazione del Sé conseguente all’esposizione ad un trauma complesso.
Tante volte, come terapeuta al lavoro con pazienti traumatizzati, rifugiati politici, vittime di guerra e/o tortura mi sono trovata ad usare metafore che avevano a che fare con il ripartire da quel che resta oppure con il raccogliere e il rimettere insieme i cocci, quel riparare che anche nell’arte giapponese esalta con tracce d’oro proprio i punti di rottura.Si può fare, lo faccio, lo facciamo, per fortuna in tante e tanti.
Gaza però, Gaza oggi è un’altra cosa.
Mi chiedo quali risorse resteranno in chi sopravvive, cosa resterà per ripartire, quali e quanti cocci si potranno effettivamente raccogliere e rimettere insieme, quando tutto questo finirà.
Leggevo stamattina che probabilmente noi professionisti della salute mentale, dopo, dovremo trovare nuove categorie concettuali per sistematizzare quello che sta accadendo… andare oltre il concetto di trauma, per come lo conosciamo… pensare a qualcosa che possa contenere questo orrore perché “l’esposizione prolungata ad eventi così distruttivi e non terminati oltrepassa le categorie del trauma e non abbiamo ancora a disposizione nessun termine e nessuna categoria per rendere pensabile la sopravvivenza della mente in queste condizioni”[i].
Ho capito bene? Capite? Si mette in dubbio la sopravvivenza della mente, si ipotizzano una potenziale frantumazione e disorganizzazione psichiche non altrimenti riparabili. Lo so cosa vuol dire, tra le altre cose. Vuol dire restare “rotti” per sempre, dunque impazzire… che è qualcosa che abbiamo visto nelle foto dei sopravvissuti allo scempio delle trincee della Prima Guerra Mondiale… oppure in quelli che tornavano dal Vietnam avendo sviluppato gravissime sintomatologie post-traumatiche. Lo abbiamo visto – ovviamente e drammaticamente – nei sopravvissuti ai campi di sterminio della Seconda Guerra Mondiale.
Restare rotti vuol dire anche essere esposti ad un altissimo rischio di suicidio e riguarda anche i bambini, sì.
Non lo so, non so quanto questo genocidio sia diverso o maggiormente cruento di altri che pure la storia ci ha raccontato… e forse è inutile chiederselo perché questo è quello che abbiamo sotto gli occhi da mesi che sono diventati anni e di questo è opportuno ragionare.
Mi basterebbe che fosse possibile pensarlo, un dopo. Pensare che sarà possibile occuparcene, ognuno per come potrà e vorrà.
“Morire o sopravvivere spezzati”, scriveva oggi una mia collega… e no, non c’era nessun punto interrogativo, come erroneamente avevo immaginato. Di domande, tuttavia, ce ne stiamo facendo tante e sappiamo che la questione riguarda pure NOI, come esseri umani.
Siamo anestetizzati pure noi, davanti all’orrore? Stiamo rimuovendo quello che sta accadendo perché ci è impossibile pensarlo, guardarlo, viverlo, seppur a distanza? Cosa spiegheremo o stiamo spiegando ai nostri bambini e ai nostri ragazzi?
Nella pur costante percezione di impotenza, scegliamo di volerci essere, nel modo che possiamo?
Con il trauma lavoro tutti i giorni da anni, continuo a studiare per imparare ancora e ancora… perché continuerò a lavorare con chi soffre (anche) a causa di eventi traumatici. È una mia scelta.
Però. Oggi mi sono fermata. Ho scelto. Ne ho parlato con i pazienti che avrei dovuto incontrare e ho scelto di fermarmi perché sentivo che era giusto prendermi un momento di pensiero e connessione con quell’orrore che tocca pure noi e che mai come ora sento di non voler rimuovere.
Ho tenuto con me mio figlio, oggi… il che è già un privilegio, come persona libera, come madre.
Abbiamo parlato di Palestina e ascoltato dei giovani parlarne in piazza, animati da quel fervore che è già risposta a chi sente necessario ricordarci che “tanto non serve a niente”.
Tra le parole lette, alcune arrivavano direttamente da Gaza. Le ho trascritte perché esemplificative di quello che a proposito del trauma ho qui tratteggiato. La persona scriveva “siamo ancora vivi… ma hanno distrutto ricordi e sogni”…perché questo fa un trauma…distrugge contemporaneamente il prima e il poi.
Starà a noi, a tutti noi, raccogliere i cocci di quel che resterà e dovremo farlo per anni, anni. E ancora anni.
Resta la speranza che si possa farlo. Perché quando dal vaso di Pandora escono tutti i mali, resta sul fondo solo lei, la Speranza.
E quando muore pure la speranza, allora, solo allora, è davvero finita.
* Psicologa-Psicoterapeuta
Breve bibliografia di riferimento
American Pshichiatric Association(2014), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina Editore.
Cancrini, L.(2012), La cura delle infanzie infelici. Raffaello Cortina Editore.
Cancrini, L. intervistato da S. Rossini (1996). Date parole al dolore, Edizioni Frassinelli.
Carosi, I.(2018), Solo il cielo non cade. Memoria e Identità dopo un evento traumatico collettivo. In quotidiano on line News-Town.
Carosi, I. (2018), MEMORI. Dalla rimozione alla restituzione di senso nell’elaborazione di lutti traumatici, n.17 del 13/01/18, disponibile in ZRAlt!, trimestrale on line, www.angelo-novus.it/blog/2018/01/13
Delage, M. (2008), La resilience familiale, Odile Jacob.
Delage, M., Cyrulnik, B. (2010), Famille et Résilience, Odile Jacob.
Fisher, J. (2017), Guarire la frammentazione del Sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico, Raffaello Cortina Editore.
Galluzzo, W. (1994), Narrazione e psicoterapia relazionale. In Psicobiettivo, anno 14, n. 1, Franco Angeli,1994.
Liotti, G, Farina, B. (2011), Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa, Raffaello Cortina Editore.
Losi, N. (2020), Critica del trauma, Metodi, modelli ed esperienze etnopsichiatriche, Quodlibet studio.
Mucci, C. (2024), Riparare il futuro. Come creare resilienza tra le generazioni. Raffaello Cortina Editore.
Ogden, P. (2022), Guida alla terapia sensomotoria. Prospettive socioculturali, Raffaello Cortina Editore.
Schore, A.N. (2010), I disturbi del Sé. La disregolazione degli affetti. Astrolabio Ubaldini.
Schore, A.N. (2012), Attaccamento, trauma, dissociazione: una premessa neurobiologica, in Bromberg, P., (2012)
Tronick, E., Weinberg, M.K., (2008), Le madri depresse e il loro bambini. In Tronick, E. (2008), Regolazione emotiva, Raffaello Cortina Editore.
Van der Hart, O., Nijenhuis, E. R.S., Steele, K. (2010), Fantasmi del sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Raffaello Cortina Editore.
Van DerKolk, B. (2015), Il corpo accusa il colpo, Raffaello Cortina Editore.
World Health Organization, (2018), ICD- 11 International Classification of Diseases, 11th revision.
Yehuda, R., Bierer R.M. (2008), Transgenerational transmission of cortisol and PTSD risk. In Progress in Brain Research, 167, pp. 121-135.
Yule W. (2000), Disturbo post-traumatico da stress. Aspetti clinici e terapia, McGraw-Hill Libri.
[i] Cito una dichiarazione dell’Ordine degli Psicologi della regione Siciliana che condivido a pieno: www.oprs.it settembre 2025.

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