Il recupero della Bellezza a L’Aquila terremotata

di Walter Tortoreto

In un incontro organizzato dalla casa editrice One Group nel restaurato Oratorio di San Giuseppe a L’Aquila, tra gli invitati c’era il filosofo veneziano Massimo Cacciari, un pensatore immerso nella realtà sociale e politica anche come sindaco della sua città natale, dopo Ugo Bergamo e prima di Paolo Costa, e come “politico laureato”, avendo ricevuto qualche anno fa una laurea honoris causa in Scienze politiche dall’Università di Bucarest.

Reportage

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La serata, seguita assai attentamente dal pubblico che stipava l’oratorio, è stata un’occasione insolita e ricca di verve: tutto è andato per il verso giusto. Stando alle indicazioni della brochure che circolava tra i presenti, Cacciari avrebbe dovuto parlare di “bellezza”; e io m’aspettavo che ne avrebbe parlato sia da filosofo sia da critico d’arte, giacché nella sua ricchissima bibliografia figura anche il catalogo d’una mostra dello scultore Emilio Vedova.

Invece, inaspettatamente, egli ha solo esordito da filosofo, definendo il concetto di bellezza e sostando un attimo sulle possibili interpretazioni dell’idea di bellezza. Questo avvio faceva intuire che Cacciari avrebbe affrontato anche il tema bruciante della ricostruzione di una città d’arte stremata dal terremoto e subito dopo umiliata da mille faccendieri attenti, più che al bello, all’utile e impegnati a trarre il massimo profitto (economico) da una ricostruzione rivelatasi immediatamente lunga, difficile e con tanti problemi già cronicizzati. Ma, subito dopo la parte per così dire definitoria, l’oratore ha imboccato una strada anch’essa più politica che estetica, partendo dal concetto che la bellezza dev’essere funzionale. Funzionale a che?

Le numerose risposte a questa domanda, suggerite al pubblico forse un po’ sbandato ma sempre attentissimo, hanno mostrato il Cacciari politico e il filosofo civile, vale a dire uno studioso che non si limita a definire filosoficamente idee e cose ma che alza gli occhi dai libri per guardarsi intorno e per capire sia che cosa sta succedendo a quest’Italia sfasciata, sia che cosa bisogna fare oggi, che cosa deve fare oggi ognuno di noi come cittadino consapevole, capace cioè di intendere e di volere coscientemente, in rapporto alla gravità del momento. Questo cittadino Cacciari mi è piaciuto assaissimo e credo che pochi, tra quelli che amano L’Aquila, siano rimasti insensibili alle riflessioni di un pensatore che ha confermato di essere di rango.

Mentre Cacciari parlava, più volte mi sono domandato: che cos’è veramente la bellezza? Esiste una bellezza in astratto, un’idea di bellezza come la concepisce Platone nell’Iperuranio (la zona – per dirla in soldoni – che sta sopra il cielo, come indica l’etimologia greca che significa “oltre la volta celeste”) e dove esistono idee immutabili e perfette che soltanto la mente può cogliere?

Chi ha studiato filosofia o ha letto il Fedro di Platone, sa che per il filosofo greco il bello è lo splendore del vero. Sembra rifarsi a lui lo Pseudo Dionigi Aeropagita quando scrive che Dio ci concede di partecipare alla sua propria Bellezza. Del resto, chi non ricorda la folgorante domanda dell’Idiota di Dostoevskij, un romanzo che l’autore considerava la sua opera più riuscita: «È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?» Nessun’altra frase letteraria ha avuto tanta fortuna quanto l’affermazione del principe Mishkin (per la verità nel romanzo mai pronunciata esplicitamente da lui, ma sempre riferita come sua) che “la bellezza salverà il mondo”. Nel suo contesto, la frase ha un significato più ambiguo di quanto le parole lascino supporre, ed è il significato sul quale riflette l’opera dello scrittore Evdokimov che nel 1942 si addottorò con una tesi sul problema del male in Dostoevskij e che successivamente riprese alcuni concetti della sua tesi in un’opera eloquentemente intitolata Teologia della Bellezza. Nella Teologia della bellezza, tra l’altro si afferma che penetrare l’essenza delle cose vuol dire essenzialmente contemplarne la bellezza perfetta. Ecco, quindi, rispuntare Platone, secondo il quale la Bellezza si offre alla nostra mente attraverso il nostro sguardo come proporzione, armonia, ordine, misura… tutto plasmato dalla vita dello spirito. Sembrerà strano, ma partendo da questa concezione, Platone condannava l’arte concepita come imitazione della natura che è, a sua volta, imitazione dell’idea; pertanto l’arte sarebbe imitazione dell’imitazione, non diretta espressione del bello!

L’indagine estetica, il ramo della filosofia che indaga la natura del bello per dedurre da tale natura le norme essenziali delle arti, è stata sempre centrale nella storia del pensiero umano e, nella diversità dei sistemi di pensiero, ricorrono con frequenza alcuni principi costruiti sulla proporzione, l’armonia, il ritmo, la simmetria, l’unità nella molteplicità, il limite… Plotino ha aggiunto una considerazione decisiva quando ha teorizzato l’arte come creazione dell’intelligenza, giacché in tal modo egli non si limita a capovolgere la visione platonica, ma introduce nell’estetica la dimensione della creazione artistica individuale, aprendo così le porte alle teorie rinascimentali e al pensiero moderno. Non rinnega, quindi, la storia del pensiero umano, ma vi innesta un nuovo filone, ininterrotto fino a Kant, il quale sostiene che la bellezza ci si rivela eccitando in modo armonioso le nostre forze spirituali. E su questo binario speculativo, le riflessioni potrebbero proseguire a lungo e in numerose direzioni.

Ma sono in pochi quelli che s’interessano, almeno professionalmente, all’idea della bellezza rispetto alla folla che invece guarda la bellezza che si rivela nelle cose: un bel tramonto, un bel romanzo, una bella città, una persona bella eccetera. Ed è chiaro che, rivelandosi nella multiforme realtà nella quale siamo immersi, questa bellezza non è tanto un concetto teorico e astratto, scolpito nelle parole – sia pure spesso durevoli – della teoria, quanto invece un’impressione che ci coglie sempre di sorpresa e ci rinvia non solamente a un ideale stato di benessere, e direi di equilibrio interiore, bensì anche a una condizione reale e, dunque, a una realtà condizionata da mille particolari, tutti raccolti e tesi a sollevare nella nostra mente l’impressione del piacere, o più esattamente di un particolare benessere. E in questo senso, non è sciocco come potrebbe sembrare a una riflessione disattenta, il proverbio popolare «è bello ciò che piace». C’è infatti una remota memoria di Platone in un’asserzione che sembra chiudersi dentro la piccola e ferrea armatura di un’opinione popolareggiante apparentemente ovvia: ed è la singolare rispondenza tra l’esperienza immediata di una persona e il suo mondo ideale, l’universale anelito di durare oltre la nostra piccola storia individuale, la felicità di poter decidere ciò che è bello o giusto o vero in relazione a uno stato (o intuito?) della nostra coscienza umana. Sicché una persona, un movimento artistico, una melodia d’opera o anche una maschera tragica, un lavoro grottesco, una scultura primitiva o perfino un campo arato osservato da un elicottero – insomma ciò che noi cogliamo al di fuori della nostra coscienza, e tuttavia grazie ad essa, la realtà veduta o vissuta in forme armoniose o asimmetriche – tutto ricade nel cerchio di un rapporto che ci coinvolge totalmente in quanto è storia e riflessione, avvenimento e pensiero, realtà e trascendenza.

Riflessione e realtà non possono essere “separate in casa”  e questo ci chiede di aprire il nostro pensiero in tutti i modi – diversi ma concorrenti – nei quali la nostra natura definita dalla coscienza, che è universale ma modellata nelle singole personalità, ci spinge verso il bello.

Chi può rimanere indifferente o imperturbabile di fronte alla Nike di Samotracia che nel Louvre ci aspetta e accoglie al sommo di una gradinata? Ella si posa ad ali spiegate sulla prua di una nave, e investe con  impeto chiunque osi accostarsi. La velocità del suo slancio non dà scampo: è già, annuncio di vittoria (e nike, la vittoria) per come ci si presenta, e dalla cima dello scalone disegnato da Hector Lefuel si erge maestosa ad ammonirci sull’alterigia dei tiranni, sul sopruso dei prepotenti, sulla fatalità delle rovine. Poco lontano, in una sala tutta quadrati e archi a semicerchio ci accoglie, nella posa nella quale fu scoperta, la bellezza assoluta, senza lacrime e senza sorriso, della Venere di Milo. La dea si alza dal suo drappeggio con la stessa morbidezza con la quale nacque dalle spume marine. Ma c’è dell’inquietudine, un presentimento di trepidazione nel suo avvolgersi nell’aria con la soave armonia di tanti santi dipinti nella loro nudità tra quattro e seicento in Italia o in Francia. La raffinatezza scultorea esalta con il suo chiaroscuro la varietà dei movimenti in senso circolare e la vita non umana della dea è un soffio di vita e d’amore per tutto ciò che sulla terra si muove, come direbbe Lucrezio. Noi l’amiamo mentre conquista il nostro spazio interiore!

Che idea di bellezza germoglia da queste creature? E chi potrebbe affermare, senza arrossire, che non siamo di fronte all’assoluto della bellezza creata dall’uomo? L’uomo, dunque, crea bellezza quando scrive “Dolce e chiara è la notte e senza vento, e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna e di lontan rivela serena ogni montagna”, oppure “tendebant que manus ripae ulterioris amore” (tendevano le braccia per desiderio dell’altra sponda); e crea bellezza costruendo lo stadio di Firenze (Nervi) o scolpendo Paolina Borghese (Canova).

C’è la bellezza metafisica di certe musiche e quella toccante di certe aurore. Natura, arte, cultura sono fonti inesauribili di bellezza. Ma senza il nostro sguardo e la nostra presenza stupefatta, nulla di ciò esisterebbe. E dunque l’uomo può essere di tutto ciò l’arbitro, il creatore, il carnefice.

A ognuno di noi la scelta.