L’orgone è padre, madre e figlio di Eros, inizio e fine di ogni spinta alla vita, originata, checché se ne dica, da polveri di stelle più antiche, immense e roventi del sole, polveri le cui indelebili tracce di elementi chimici oltrepassanti il numero atomico del ferro, sono ora depositate nelle catene molecolari del vivente
di Antonio Gasbarrini
Nel novembre del 2004, nel Dipartimento di studi comparati dell’Università di Pescara si era tenuto il Convegno Internazionale Pluridisciplinare L’Eros nelle Arti e nelle scienze. In tale contesto davo il mio contributo intitolato Il sublime dell’energia erotica- Da l’Origine du Monde di Courbet all’ “eresia orgasmatica” di Wilhelm Reich.
Ripercorrevo i principali autori ed opere sottese, in una serie di paragrafi. Anticipati da una mia versione immaginifica de Il sublime dell’energia erotica – sublime riletto secondo l’ottica teoretica e sperimentale del medico, psicanalista, psichiatra Wilhelm Reich(1897-1957) –, allievo prediletto di Freud, ma poi ripudiato per le sue innovative e rivoluzionarie ricerche psicoanalitiche approdate nella scoperta sperimentale della particella cosmica bioenergetica dell’orgone, parola strettamente connessa, filologicamente, all’orgasmo. Versione immaginifica che ho ritenuto opportuno riproporre anche in questa sede, in quanto essa è stata un po’ la chiave di volta del mio itinerario ermeneutico. L’arco temporale preso in considerazione va dagli Impressionisti ai nostri giorni. Queste le singole parti, testualmente contenute, dell’itinerario tematico a suo tempo affrontato:
L’Olympia di Manet: e tutto il resto è letteratura! – L’oscena storia de L’Origine du monde di Courbet – Dal cassetto segreto di Edgar Degas alla malcelata pruderie di August Rodin – La dissacrante ironia-parodia di Pablo Picasso – La rivincita di Thanatos: Egon Schiele e Francis Bacon.
Chiarivo infine, con un paio di paginette, le tragiche vicende biografiche dell’illustre scienziato intitolate L’eresia orgasmatica di Wilhelm Reich, il quale sarà perseguitato prima dai suoi stessi colleghi con l’accusa di andare a letto con le pazienti, nonché di essere uno schizofrenico; denunciato poi per i suoi esperimenti legati alla bio-energia orgonica allorché era emigrato dall’Europa in America con successiva incarcerazione nel penitenziario statunitense di Lewisburg nella Pennsylvania ed il rogo dei suoi numerosi libri, dove morrà nel 1957 per infarto. Da aggiungere che in questa sua tragica vicenda, avevano pesato sia le sue innovative ricerche ancorate ad una prassi metodologica di matrice marxista, che l’oscurantismo maccartista in auge in quel periodo non digeriva. Paragonare le sue eresie a quelle di Giordano Bruno (filosofo peraltro molto amato da Reich), con tanto di autodafé dei suoi libri e bruciato personalmente nel rogo romano in Campo de’ fiori il 17 febbraio del 1600, non sembri azzardato.
Non a caso, infine, l’esergo al testo a lui dedicato erano queste sue parole, quanto mai attuali nei nostri feroci tempi insanguinati da guerre e massacri su massacri di inermi popolazioni: «L’amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita. Dovrebbero anche governarla».
L’incontro odierno mi ha offerto la possibilità di ritornare con questo intervento su L’energia orgonica di Wilhelm Reich nella vita e nell’arte erotica di Picasso, con un’analisi ampliata rispetto a quella citata più sopra, concentrata sulla produzione grafica dell’artista spagnolo realizzata nell’ultimo quinquennio della sua longeva vita (1968-1972) oltrepassante i novant’anni.
Ed ecco l’“immaginifica cornice orgonica” in cui saranno inquadrate le successive pagine.
Più demone che angelo, ma anche più vita che morte, Eros è, alla stregua di una stella, un dissipatore d’energia, e, per essa. di luce e calore. Un donare il suo, disponibile ed aperto alla vastità degli spazi celesti e dei tempi senza clessidra, agli interminabili percorsi degli anni-luce ed agli irreversibili risucchi dei buchi neri. Perfettamente conscio del suo precario destino iscritto persino negli esili segni di una mano, sa andare, come l’arte moderna e d’avanguardia, solo in avanti, anche se non disdegna, alla pari di Orfeo, di guardare indietro per incrociare l’ultimo sguardo dell’amata Euridice (l’arte del passato).
La sua sublimità letteraria, ereditata dallo Pseudo-Longino e coincidente agli inizi con le aristoteliche, catartiche emozioni suscitategli da un’opera d’arte, sarà radicalmente trasmutata dalla sublimità scientifica di Copernico, Galilei e Newton che lo ricollocheranno in questo o quell’angolino buio degli incommensurabili tempi-spazi da cui proveniva: e gli umani, pervasi adesso dall’angoscia della loro solitudine, pur avendo terrore dei loro limiti terrestri sono irresistibilmente attratti dai cangianti riflessi del suo efebico nudo in procinto di precipitare da una vetta per essere sprofondato negli abissi (da Edmund Burk a Kant).
Da questo momento il conflitto, la lotta che si instaurerà tra i due sublimi kantiani par excellence (“la legge morale in me ed il cielo stellato sopra di me”), è viepiù mediata dalle conquiste e dalle sconfitte di un Eros partecipe della coscienza del proprio tempo-spazio proiettata nel futuro (modernità), la cui archetipica libidine, per dirla con Wilhelm Reich, è tutta concentrata in una particella bio-energetica da lui scoperta e tuttora mi-sconosciuta o semplicemente ignorata dalla maggior parte degli scienziati: quell’androgino orgone proveniente da tempi-spazi remoti e scorrente, come linfa vitale, dal protoplasma delle galassie agli amplessi di ogni genere.
Perché l’orgone è padre, madre e figlio di Eros, inizio e fine di ogni spinta alla vita, originata, checché se ne dica, da polveri di stelle più antiche, immense e roventi del sole, polveri le cui indelebili tracce di elementi chimici oltrepassanti il numero atomico del ferro, sono ora depositate nelle catene molecolari del vivente.
Anche la modernità del sublime erotico attraversa, dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri, i principali capitoli della storia dell’arte prima e di quella della psicanalisi poi.
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Per quanto riguarda Picasso, non si può attraversare la sterminata produzione, senza ripercorrere il suo stravissuto erotico con le donne, ora soggetto, ora oggetto di ritratti su ritratti a cominciare dalle legnose, primitiveggianti, geometrizzate prostitute delle “Demoiselles d’Avignon”, ben frequentate, oltre che ad Avignone, nei vari bordelli di Barcellona, Madrid, Parigi e perché no a Napoli nel 1917, città raggiunta da Roma ove era impegnato nella direzione artistica e nella realizzazione delle scene ed i costumi del balletto “Parade” (con musica di Erik Satie, soggetto Jean Cocteau, Balletti russi compagnia di Sergej Djagilev). Si sono scritte montagne di pagine sul Cubismo, la sua nascita ed evoluzione, gli artisti coinvolti (a cominciare da Braque e Picasso), la punta avanzata, se vogliamo, della Modernità nelle arti figurative rinnovate formalmente e linguisticamente, negli stessi anni, anche dai Futuristi.
Un affamato, libidinoso erotismo, quello dell’artista spagnolo, trasfuso in molte sue opere anche quando non saranno il nudo di per sé ed amplessi oniricamente evocati, a trasfigurare questo o quel soggetto trattato. Tra la decina di amanti e mogli note, molte delle quali di gran lunga più giovani, alcune hanno avuto il coraggio di lasciarlo a causa dei continui tradimenti, altre sono cadute nelle mani della pazzia o hanno percorso la scorciatoia esistenziale del suicidio.
Ma, a livello psicoanalitico, chi era e chi è stato Picasso e che rapporto hanno avuto i suoi connotati caratteriali con le centinaia e centinaia, se non migliaia di capolavori sopravvissuti al loro artefice?
In merito ci limitiamo ad accennare alla delineazione del suo inconscio datane da Carl Gustav Jung, basata sulla interpretazione delle 460 opere viste nell’ottobre del ’32 (Guernica era ancora di là da venire) nel zurighese Kunsthouse; esposizione poi recensita con la diagnosi – motivata – del Picasso “schizofrenico” coincidente con un analogo giudizio dato alla scrittura di Joyce nell’Ulisse:«[…] Dell’espressione schizofrenica va detto ciò che ho osservato per Joyce: nulla viene incontro all’osservatore, tutto se ne allontana; anche un’eventuale bellezza appare solo come un imperdonabile indugio alla propria ritirata […]».
Al clamore suscitato da questo trinciante giudizio, Jung farà seguire una nota, poi anch’essa pubblicata in cui,molto diplomaticamente, ridimensiona il tutto:«[…] Non intendo affatto definire psicotico né Picasso né Joyce; mi limito ad ascriverli a quel vasto gruppo di individui la cui costituzione li porterebbe, nel caso di un profondo turbamento fisico, a reagire non con una comune psiconevrosi, ma con una sindrome schizoide […]».
Per nostra fortuna, né Picasso, né tanto meno Joyce cadranno nella trappola schizofrenica tesa.
Tornando ora alle donne-musa amate da Picasso (siano state sposate o meno), ecco una sostanziale parte dei loro nomi, passati nella Storia dell’arte moderna per il tramite dei ritratti, sculture, disegni, grafiche o semplici evocazioni come la scritta “Ma jolie” inserita nell’omonimo dipinto del 1912 dedicato a Marcelle Humbert (detta Eva): Fernande Olivier, Olga Koklova (sposata nel 1918), Marie-Thèrèse Walter, Dora Maar (Théodora Markovitch), Françoise Gilot, Geneviève Laporte e Jacqueline Roque (sposata nel 1961) .
Lo stretto, strettissimo rapporto esistito tra la loro anima-corpo e lo sbocco estetico di volta in volta praticato con l’impetuoso succedersi dei vari stili, viene qui riproposto brevemente soffermando l’ attenzione sul suo grandissimo amore (1904-1912) per la modella Amélie Lang ovvero Fernande Olivier, passata, tra le più esemplari pagine della storia dell’arte, grazie alle sculture e alle decine e decine di ritratti grafici e pittorici a lei dedicati.
La sua determinante importanza per la rivoluzionaria svolta cubista picassiana (debitrice comunque delle geometrizzanti lezioni formali d’un Cézanne), può essere ben percepita ponendo a raffronto due suoi ritratti scultorei datati, rispettivamente, 1906 e 1909. Nel primo, la resa figurativa formale, sostanzialmente post-impressionista e con suggestioni plastiche anche di Rodin e del nostro Medardo Rosso, è ben inseribile tra le opere parigine del cosiddetto “Periodo rosa”.
Le non del tutto chiarite vicende ruotanti attorno all’altro – riguardanti la versione originale in bronzo (ora al Musée Picasso di Parigi); le repliche ottenute dai due calchi in gesso effettuate tra gli Anni Dieci e Venti dal mercante e gallerista Ambroise Vollard (anch’egli eternato nel frantumato ritratto cubista); le nove successive a tiratura limitata agli inizi degli anni Cinquanta – sono state in gran parte risolte, storiograficamente, nella grande esposizione e nel denso catalogo The Cubist Portraits of Fernade Olivier tenuta una ventina d’anni fa alla National Gallery of Arts di Washington.
Per la prima volta, in questa mostra, si è potuto percepire al meglio la genesi creativa di uno dei massimi capolavori scultorei di tutto il Novecento, la Tête de Femme o Ritratto di Fernande Olivier che dir si voglia. Genesi imbevuta dell’energia erotica emanata dal corpo nudo “cubistizzato” della modella-compagna Fernande, dipinto sì a una certa distanza fisica, ma tastato e goduto millimetro per millimetro negli amorosi amplessi, come può riscontrarsi nella totemizzata quanto sacralizzata sensualità dei suoi molteplici nudi datati 1909-1910.
Con un balzo temporale di circa 60 anni, inoltriamoci subito nella felice stagione inventiva pittorica e grafica dell’“Ultimo Picasso”, il quale sostanzialmente auto-isolatosi nella sua casa-atelier di Mougins – dove l’ineludibile incontro con Sua Maestà La Morte avverrà l’8 aprile del 1973 – realizzerà nei dintorni dei novant’anni, oltre a vari dipinti, le grafiche “Suites 347 e 161” per un totale di circa 500 opere create, rispettivamente, nel 1968 e nel quadriennio 1969-1972.
Quell’“Ultimo Picasso” immortalato, non solo come artista, dalla fertile penna di André Malraux nell’avvincente libro IL CRANIO DI OSSIDIANA. Meditazione sulla morte di Picasso e sulla vita delle forme. Sottotitolo evocante il suo teorizzato “Museo Immaginario” ove attorno alle opere più emblematiche dell’artista spagnolo e degli altri compagni di viaggio reali o ideali che hanno contrassegnato le pagine più esemplari della Storia dell’arte in occidente, potevano ben convivere quelle orientali, arcaiche e persino selvagge, a cominciare dall’Africa, anche se solo nel loro doppio fotografico (Museo più che fattibile nell’era digitale).
Centrando ora l’attenzione sulle Suites, ed in particolare sulle grafiche attinenti al tema portante dell’Amore e dell’Eros picassiani dipanati con taglio interdisciplinare in questi incontri napoletani, mi soffermerò sui due cicli: il primo dedicato a La Maison Tellier (nome di un bordello descritto in un racconto di Guy de Maupassant, racconto pubblicato nel 1881), collegato a Degas; l’altro a Raffaello e La Fornarina.
Con una piccola premessa, per meglio comprendere lo stretto, strettissimo rapporto da sempre esistito in Pablo Picasso tra i capolavori dell’arte del passato particolarmente assimilati e “digeriti” soprattutto nei musei del Prado e del Louvre, ma anche le opere degli artisti coevi o temporalmente più vicini, e i suoi rimandi iconografici, palesi o subliminali, costantemente presenti.
I suoi citazionisti d’après (disegnati o dipinti) non si limitavano però ad effettuare accademiche copie, bensì ad aggiungere all’opera originale quel quid poetico-visionario che solo la sua altissima e prolifica inventiva creativa era in grado di realizzare.
Tra i suoi numerosissimi d’après (spesso replicati in più versioni tratte dalla stessa opera) mi limito a citare Las Meninas di Diego Velàzquez (dipinto rivisitato nel 1957 con ben 58 repliche, donate poi nel 1968 dall’artista al Museo Picasso di Barcellona), Le donne di Algeri di Eugène Delacroix, il Dejeuner sur l’herbe di Edoard Manet.
La sua insaziabile immaginazione, inoltre, (ma anche le crescenti richieste del mercato) lo facevano ritornare spesso su alcune sue opere del tutto autonome rispetto al citazionismo ricordato più sopra, delle quali riproponeva la stessa versione con delle varianti (a volte marginali, a volte sostanziali); opere ben titolabili, nel loro insieme, Picasso d’après Picasso, e, riguardanti, sia la pittura che la scultura o la grafica.
Slides (a cura di Rosario Liguoro)
Chiamando ora in causa la particella energetica sessuale – l’orgone di Wilhelm Reich – si può subito affermare che Picasso s’identificasse, quanto alla sua frenetica attività erotica (reale ed immaginaria riversata su nudi femminili singoli o moltiplicati in molti casi, nonché su “strambe copule”) con quella di Raffaello, che, stando al Vasari, la sua precoce morte era dovuta all’eccesso di piaceri amorosi:«E così continuando fuor di modo i piaceri amorosi, avvenne ch’una volta fra l’altre disordinò più del solito, perché a casa se ne tornò con una grandissima febbre e fu creduto da’ medici fosse riscaldato. Onde non confessando egli quel disordine che aveva fatto, per poco prudenza, loro gli cavarono sangue; di maniera che indebolito si sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro».
Mentre tutt’altro discorso è da farsi per Degas, il quale data la sua comprovata misoginia e misantropia, è ben collocabile tra gli “appestati emozionali” reichiani (con relativo blocco d’una sana sessualità).
In entrambi i cicli picassiani esaminati sotto l’angolazione erotica, ma anche in tantissime altre grafiche della sua ultima produzione, protagonista onnipresente è il voyeur (singolo o in gruppo, ivi compresi sia lo stesso artista o il padre, anch’egli pittore), quasi a voler certificare a livello inconscio, la regredita “potenza fallocratica” connessa all’avanzatissima età dell’artefice.
Su questo tema iconografico fa testo la vicenda biblica narrata dal profeta Daniele, variamente reinterpretata con il titolo di “Susanna ed i vecchioni”, dai vari Pinturicchio, Lotto, Veronese, Giorgione, Tintoretto, Artemisia Gentileschi ed altri ancora (Rubens compreso, con il suo capolavoro dipinto nel 1607, facente parte della collezione della Galleria Borghese, in questi giorni ben in evidenza nella mostra a lui dedicata “Il tocco di Pigmalione, Rubens e la scultura a Roma”).
Pablo Picasso è stato anche un grande collezionista che esercitava il suo “voyeurismo estetico” di artefici e relative opere venerate (Cézanne su tutti). Nella sua collezione erano presenti anche alcuni dei monotipi dedicati da Degas alla vita dei bordelli noti con l’unificante titolo di La Maison Tellier ripreso da un racconto di Guy de Maupassant pubblicato nel 1881, rieditato nel 1933 dal mercante Ambroise Vollard per l’illustrazione dello stesso.
A suo tempo ed a ridosso della sua morte avvenuta a Parigi nel 1917, non poco scalpore aveva suscitato la scoperta degli stessi riposti in un cassetto segreto e messi poi all’asta dagli eredi (in parte esposti nei primi mesi di quest’anno nella sala del Refettorio del Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore, quale Omaggio alle sue radici familiari napoletane). Monotipi espliciti dell’ambiente per quanto concerne la “ripresa visiva” degasiana della Patronne e delle prostitute, fisicamente effigiate nelle tipiche pose di chi è svestita ed in attesa dei clienti: perciò, nella sostanza formale, delle aliene rispetto ai delicati equilibri delle ballerine o delle donne studiate da Degas in ogni loro piccolo gesto mentre sono nell’atto di lavarsi alla toilette e delle quali aveva il terrore di stare seduto, per una ragione o per l’altra,vicino ad esse nel caso si fossero profumate. La scena della Fête de la patronne sintetizza al meglio la sua poetica incentrata sul riproposto dinamismo di movenze e gesti, resa qui esaltata da quei slanciati corpi protesi o attornianti la festeggiata.
Concentriamo ora l’attenzione su 5 grafiche picassiane ispirate alla stessa, datate tra il 28 aprile e il 2 giugno ’71. Se nelle prime quattro è l’arabescato aggrovigliarsi di volti e corpi partecipanti alla festa a rendere visivamente turbolento l’ammassarsi di segni su segni, con l’addensamento qui e là di timbri nerastri – quasi a sfondare prospetticamente il tutto – nell’ultima incontriamo il disincantato Picasso de-erotizzato a “filmarne”, quasi, una parodistica versione, mettendo ora in campo anche il voyeur Degas. Quei due sessi proposti frontalmente a gambe larghe o di profilo all’attempato cliente vestito di tutto punto, semplice guardone che ha già pagato il dovuto, tant’è che una di esse sta infilando i soldi in una calza, non hanno nulla di osceno, nonostante le ravvicinanti zoomate pilifere.
La resa orgonica dell’artista spagnolo, già si era manifestata 3 anni prima nella Suite 347, la cui prima acquatinta datata 29 aprile 1968, anticipa temporalmente l’esplosione rivoluzionaria del Maggio parigino. Maggio forse ignorato politicamente e socialmente dal Nostro, rinchiuso nel suo studio di Mougins, mentre era del tutto proteso a scagliare gli ultimi dardi del suo furore creativo.
Tra le grafiche individuate per un galoppante commento, è il ciclo di Raffaello e la Fornarina, come si è detto più sopra, a sintetizzare al meglio il suo distacco dalla carne sessuata in favore di un giocoso intreccio dei corpi dei due amanti, le cui pose iconografiche molto devono alle copulanti coppie degli “Shunga” giapponesi, stampe molto conosciute a Parigi nelle loro riproduzioni diffuse tra gli artisti e non (Picasso ne disponeva di un nutrito numero di versioni).
Anche per questo ciclo composto da ben 24 incisioni, il referente iconico di partenza sono alcuni dipinti di Ingres dedicati ai due amanti. Referente scombussolato però dalla sovversione-invenzione picassiana mediante il suo avatar graficizzato (Raffaello appunto). Il quale riesce a fare sesso anche mentre sta dipingendo, con in più la trasgressiva assonanza formale ed iconica tra il priapesco pene eretto ed il pennello. Ma non finisce qui. Potevano mancare i voyeurs? A questa domanda retorica, il quasi novantenne artista spagnolo fa irrompere sull’alcova le figure del barbuto Giulio II – seduto a volte anche in trono – e di Michelangelo.
Fino a qui ho velocemente abbozzato l’intricato percorso erotico- biografico-creativo di Picasso. Al polo opposto di Eros, l’alato dio del desiderio sinora tratteggiato nella sua componente libidica – sotto però l’irraggiante luce orgonica di Reich e del suo liberatorio orgasmo bionico, piuttosto che sorretto psicamente dall’intricata triade dell’Es, io e super io freudiano – Thanatos aspetta con impazienza l’artista spagnolo al varco.
Che il suo countdown ritmato da quelle ossessive date relative al giorno (anche più giorni) mese ed anno apposte su ogni grafica, sia stato di fatto una dichiarata presa di coscienza del residuo tempo di vita viepiù accorciato, è fuori di dubbio. Ineludibile presa di coscienza la sua, certificata, sei mesi prima del congedo terreno ed affidata alla muta testimonianza di una delle sue ultime opere.
Si tratta di un disegno realizzato con lavis di inchiostro di china e guaches su carta, dipinto su entrambe le facciate, datato giusto sei mesi prima della sua scomparsa.
Nel verso ci imbattiamo in un moschettiere (?) prelevato di sana pianta da uno dei personaggi della Ronda di notte di Rembrandt, ma con la metamorfosi di un volto barbuto trasformato in una testa di gatto, sorpreso, quasi, nel momento in cui sta per lanciare un pugnale. Dove e contro chi? La drammatica risposta è sul recto: il bersaglio altri non è che quella terrificante testa di morto con i vistosi occhi sgranati verso il nulla, terribilmente somigliante al coevo volto del pittore. Né tanto meno l’arabescata e fitomorfizzata data dell’8 ottobre 1972 è riuscita ad addolcire la lancinante sconfitta d’una eternità erotica giunta invece al capolinea.
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* Relazione tenuta al Teatro Instabile di Napoli negli incontri interdisciplinari “Picasso L’Amore e L’Eros” svoltisi con cadenze plurisettimanali dal 4 novembre al 16 dicembre 2023.
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