La figurazione semantica-spaziale di Le Pera s’allarga a diverse angolazioni espressive, non si ferma alle azioni principali della storia, all’attore blasonato, alla decorazione scenografica… travalica le luci, le scenografie, i costumi… decostruisce la fotografia di scena classica, frontale, col teleobiettivo
di Pino Bertelli
“Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile
all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha
ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto
è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere”.
Alain Deneault
Parte prima
I. Sulla mediocrazia della politica e la cultura della stupidità
“Dio, Patria, Famiglia e Proprietà sono la rovina dell’umanità”.
Oliviero Toscani
Prologo dissennato sul dissidio dei nostri scontenti… le sole chiese, banche, parlamenti illuminati sono quelli che bruciano!… ma per adesso possono dormire tranquilli… la curiosità, il coraggio, il talento sono svaniti, insieme alla fierezza, nell’economia-politica del conformismo globalizzato… giornali, televisione, cinema, pittura, musica, fotografia… ammaestrano i consumatori alla “filosofia degli affari” e qualsiasi genere di opere, parole, pensieri e perfino i sogni, diventano merci. I finanziatori sono i veri creatori dell’opera d’arte… l’artista non conta! Politici, investitori, cortigiani, carnefici e artisti si sono sempre intesi bene… i padroni dell’immaginario sono anche i possessori di banche, petrolio, assicurazioni, fabbriche d’armi, perfino dell’acqua in Paesi dove i bambini muoiono di sete… la cultura imprenditoriale ha azzerato la cultura dello sdegno e la conseguente nascita dell’asineria creativa è stata plauso ininterrotto dell’asineria genuflessa alla partitocrazia.
La presa del potere dei mediocri e l’instaurazione generalizzata del loro regime, ha prodotto la mediocrazia in ogni ambito della vita umana… il rosario della banca Rothschild rispecchia la litania dei risparmiatori e le fauci degli azionisti… i paradisi fiscali vanno bene a tutti e la religione d’impresa autorizza frodi, conflitti e colpi di stato… dopo la rivoluzione della gioia nel 1968, ci dev’essere stata una qualche congiunzione tra la fine della lotta di classe e lo smercio della mutande Armani nei supermercati… il “marchio” ha vinto sulle barricate… poiché il consumatore-credente esiste solo grazie al “marchio” che lo tiene in vita… la devozione al “marchio” apre il cancello della dittatura della felicità, che è l’orologio a cucù della mediocrità.
Détournando e plagiando, con l’insolenza libertaria che ci è propria, Alain Deneault, docente e filosofo canadese, ci piace ricordare che la genealogia della mediocrità ha a che fare con i protocolli d’intesa e il pervertimento della politica… i processi di verifica mediante i quali l’abdicazione funzionale al consenso organizza il suo culto — quell’ordinamento grazie al quale i mestieri cedono il posto alle funzioni e le pratiche tecniche, le competenze, le esecuzioni sono pure e semplici obbedienze al sistema della mediocrità che le impone —, riformulano tragedie già vissute e vendute all’incanto di un umanesimo straccione rivestito di specializzazioni ne moltiplicano il cinismo. L’avevano già scritto Walter Benjamin in Contro la violenza e Noam Chomsky in Lotta o declino: perché dobbiamo ribellarci contro i padroni dell’umanità… collaborare con il nemico è intonare i loro cori e belare i loro slogan… l’Internazionale della produttività è l’oppio dei popoli e si richiama sempre alla dittatura sul proletariato! L’asservimento ideologico è ampio, diversificato, contraddittorio, molteplice e il cemento unificante è la mediocrità interattiva tra chi domanda e chi obbedisce.
La “mediocrità è un sostantivo che indica una posizione intermedia tra superiore e inferiore, ovvero suggerisce uno stare nel mezzo di qualità modesta, non del tutto scarsa, ma certo non eccellente; indica insomma uno stato medio tendente al banale, all’incolore e la mediocrazia è di conseguenza tale stato medio innalzato al rango dii autorità… in tale regime, definirsi libero sarà solo un modo di manifestarne l’efficacia” (Alain Deneault). Per cercare di contare qualcosa nella vita pubblica, basta diventare un parlamentare, un preside di facoltà universitaria, un paggio della letteratura, un servo sciocco dell’ideologia della mediocrità elevata a feticcio… allora una qualsiasi ragazzetta può dissertare sull’inquinamento del pianeta, un figlio di puttana ascendere alle più alte cariche dello Stato, un cretino passare di partito in partito per rafforzare la propria miseria nella spettacolarizzazione dell’assentimento elettorale. La stupidità funzionale regna ma non governa, diceva l’asino Platero, e anche l’asino Beniamino di La fattoria degli animali… il solo che veramente aveva letto e compreso quello che si doveva leggere e comprendere… la teoria liberista dell’indottrinamento non nega privilegi ai pochi e povertà al maggior numero… ma solo una reale democrazia partecipativa che s’incammina dalle periferie al centro, travolgendo tutto ciò che ne impedisce la realizzazione, può diventare un arcipelago di verità e di giustizia che mettono fine all’inganno e fare la rivoluzione della vita quotidiana.
Gli ultimi pensano di essere i primi… poiché glielo hanno fatto credere… la volgarizzazione dell’intelligenza che ne consegue sta al gioco o al passo dell’oca o nel pugno chiuso con la logica borsistica, manageriale e neoliberista… cioè con la criminalità finanziaria, quella della scienza sovvenzionata e dei partiti collusi con le mafie… gli uomini sviluppano patologie specifiche nei rapporti amicali, familiari, amorosi… e confondono un rigassificatore con una barchetta per bambini che bevono il cloro per sbiancarsi i denti… i paladini delle compensazioni, delle presunzioni, delle servitù prezzolate, s’abbeverano alla dialettica colonizzatore/colonizzato… masticano i precetti del potere che li costringe e rimuovere e reprimere le poche emozioni rimaste… specie quelle del tiro al buffone alla Festa de l’Unità. Non ne vogliamo mangiare di questo pane da lebbrosi d’ideologie più morte delle loro teste di cazzo… incapaci perfino di farsi una sega come si deve, restano perfettamente e impeccabilmente mediocri come le riviste, libri, articoli, film, fotografie che imbrattano di abissali fesserie (copiate anche male)! Piccoli commedianti da oratorio o di quartiere che s’inculano in gruppo nei riti e miti (artistici, dottrinari, politici) che adorano fino all’idiozia. Non moriranno nemmeno eleganti, ma stupidi.
Luis Buñuel, irriducibile anarchico, annotava — “È possibile che, oggi il pronunciarsi come prima contro la Famiglia, la Patria, il Lavoro, sia un po’ démodé, poiché noi sappiamo per esperienza che la distruzione fisica della famiglia non è più necessaria per costruire una società nuova. Ma il mio atteggiamento nei confronti di questi principi non è cambiato: bisogna distruggerli in quanto categorie supreme, in quanto intoccabili” —. Détourniamo ciò che Buñuel diceva del cinema… la fotografia è un’arma magnifica e pericolosa se a maneggiarla è uno spirito libero… è lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, degli istinti… e quando penetra nella voluttà della poesia si trascolora nell’immagine specchio di un disagio indefinito o di un sepolcro del pregiudizio… la fotografia, tutta la fotografia, è sempre la visione di ciò che si vuole glorificare o demolire.
Al tempo del colera dei social-network c’è tutta una pletora di esperti culturali che buffoneggia nella Rete… tutti s’intendono di tutto… non c’è imbecille che non abbia da dire qualcosa su cinema, fotografia, pittura, musica, poesia, letteratura, fumetti, politica, religioni, le pisciate dei barboncini sulle bandiere nazionali… i militanti della stupidità — specie di sinistra, quelli di destra si sollazzano in altre fogne —… s’aggregano in liste civiche, movimenti, partiti e partitini… c’è chi si nasconde dietro la parola “cultura” (in politica va molto di moda il mestiere di Giuda), chi si arrampica per un seggio regionale, chi è solo un burattino di un teatrino provinciale… per raggiungere il loro scopo di inetti della politica e cimici della cultura, trovano spazi nel discredito, nella delazione, nella corruzione… la loro vigliaccheria li ricompensa dei piccoli ruoli a loro affidati in cambio d’assoluta osservanza al capo, al partito o alle connivenze mafiose… e diventano scherani di novelli poteri (sempre gli stessi truccati d’altre protervie)… anche se le loro bassezze morali, etiche o assoggettate all’arrampicata sociale li promuovano a semplici esecutori d’apparato, restano membri di un ceppo politico marcito nel proprio fetore iniziale… sempre pronti a chiamare i commissari del popolo, la polizia, la legge, l’assassino… ad aprire campi di concentramento, oliare ghigliottine, approntare fucilazioni… piccoli funzionari comunali, bottegai, pennivendoli, artistucoli da quattro soldi… scompariranno gassificati d’ideologia senza sapere mai che già alla nascita erano destinati alla pattumiera della storia.
L’impero dell’illusione e l’industria dell’apparenza sono sinonimi. Le università, anche le più prestigiose, lo sanno… la glossa dei professori non prevede altro sapere che non sia il loro, ed è sempre legato ai finanziamenti esterni all’università… l’economia del sapere dunque passa dai contributi di quell’azienda, di quella banca, di quella fondazione, di quella casa farmaceutica… e dotano i professori di cinture da stringere alla bocca… molti discepoli apprendono presto il produttivismo delle disuguaglianze e sanno come comportarsi una volta laureati… le aziende lobbistiche che hanno foraggiato i loro maestri li accolgono nei settori più avanzati… economia, sociologia, psicologia, scienze della comunicazione, geopolitica, ecologia, linguaggi tecnologici ecc., i meno attrezzati finiscono in politica e lì muoiono ricchi e più imbecilli di prima.
Nell’educatività dei linguaggi dominanti si distinguono terminologie precise e per mezzo di congiunzioni sociali semplificate, facilitano l’aggregazione alla sudditanza… le economie saprofite diventano i simulacri della riproduzione seriale e l’imbroglio, la mistificazione, la censura assurgono al rango di valori con i quali bisogna stare al gioco… l’individuo medio
dunque è il pernio sul quale i parlamenti, i palazzi di giustizia, gli istituti finanziari, i ministeri, le sale stampa, i laboratori scientifici, i sindacati, i commessi viaggiatori del paradiso… dissimulano, sotto il segno della moderazione, il canto dell’aguzzino d’ogni forma di rivolta contro il potere costituito.
Gli analfabeti secondari, Hans Magnus Enzensberger, diceva… si riproducono come pidocchi nella medesima melma culturale innalzata ad esempio… la cultura industriale ri/produce disuguaglianze e impoverimenti planetari e le lusinghe della mercificazione dei bisogni non prevede, anzi esclude, l’insubordinazione dei saperi… il produttivismo d’appannaggio giustifica l’inessenziale e basta una guerra qui e una guerra là per far passare un genocidio come una necessità legata al gas, all’oro, al petrolio o all’acqua, e gli scherani dell’industria capitalista, dei regimi oligarchici, plutocratici, criminali che si definiscono “comunisti”, gestiscono le sorti tragiche dell’umanità… si riempiono la bocca della parola “resilienza” per affogare la parola Rivoluzione.
Non è un caso se si promuovono guitti come Banksy, Cattelan o Abramović… riempiono le pagine dei giornali, delle rubriche televisive, dei festival… le loro furberie artistiche non sono indissociabili dalla merce che rappresentano… banche, musei, postriboli della politica ne concepiscono la ragione, l’importanza, la valuta di scambio… la potenza della mediologia conferma la fascinazione costruita in sedi dell’alta finanza e corrisponde proprio alla falsità del prode o del milite ignoto o dell’artista compreso che, come i film di Hollywood, ne celebrano le gesta alla maniera di un istituto di polizia… o sei in corrispondenza con l’arte consacrata alla regola del gioco, o sei respinto, reciso, buttato fuori dai circuiti mercatali. Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità, significa rivolgersi al pubblico come a un bambino di 12 anni o forse meno, o un deficiente mentale, Buster Keaton o Groucho Marx e anche Erich von Stroheim, dicevano con un amaro sorriso: «Far sì che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori» (Noam Chomsky). Si tratta di educare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità, spingerlo a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti. L’imbecille si piega al culto della forma e si configura con la merce o la politica o la fede che lo indirizzano nell’euristica della paura o nella teocrazia populista-grossolana, innaffiata nei regimi di destra e di sinistra, che è l’imballaggio della remissività, arrendevolezza, condiscendenza a tutto, anche alla partecipazione spontanea a guerre, massacri e crimini di Stato.
La manipolazione della mediacrazia è al fondo della strategia della docilità… deviare l’attenzione delle folle dai problemi importanti e di cambiamento dell’assetto sociale, vuol dire distrarle, dirottarle, allargare il divario tra i progressi della scienza applicata (finanza, psicologia, neurobiologia, cibernetica, geopolitica) alla crescita dell’essere umano… le élites finanziarie e politiche, infatti, sono i veri possessori della cultura scientifica e se ne servono per evitare, dissuadere, interrompere situazioni di deplorazione sociale che possono sfociare in momenti di dissenso allargato… le condizioni socio-economiche repressive del neoliberismo imposte graduatamene negli anni 80 e 90… privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione, delocalizzazione, violenza urbana, attentati, guerre, crisi economiche orchestrati e amministrati dai poteri delle multinazionali e dai servizi segreti delle nazioni più sviluppate… hanno contribuito a mantenere le persone in una sorta d’insignificanza, di paura, di soggezione e legarle a richieste — sempre più marcate — di leggi e ordinamenti sulla sicurezza e politiche a discapito della libertà.
“Se la stupidità non somigliasse così tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido” (Robert Musil). La crema della società sa sempre di deteriorato… mediocrità e ideologia vanno insieme… sono i sicari delle fedi e delle borse… i soli aguzzini sempre fedeli all’idiotaggine che l’arricchimento dei ricchi possa ricadere in qualche modo sulla comunità! La casta dei potenti possiede la scienza contabile e manageriale che promette paradisi e li converte in tavole comandamentali… non vuole solo i soldi dei piccoli risparmiatori, della delocalizzazione delle fabbriche, dello sfruttamento generalizzato, del saccheggio del pianeta… vuole il capestro, il giogo, l’imperturbabilità degli stolti. Il potere esiste fino a quanto dura la proscrizione di coloro che lo abitano.
Il tribunale del libero pensiero poggia sugli indici d’ascolto, istituti di sondaggio, social network e le pagine del Talmud, della Bibbia, del Corano — come quelle del Meín Kampf di Adolf Hitler o Il libretto rosso di Mao Tse-Tung o Il capitale di Karl Marx —, orientano i loro seguaci anche sulla scelta della cucina di un Masterchef, pattini a rotelle o trenini elettrici… nessun regime totalitario avrebbe mai potuto immaginare tale entusiasmo di quello suscitato a favore del potere della civiltà dello spettacolo. “L’uomo reificato ostenta la prova della sua intimità con la merce. Il feticismo della merce raggiunge dei momenti di eccitazione fervente” (Guy Debord) che lo incasella nella manifestazione straboccante dell’illusione, poiché lo spettacolo del quale si crede protagonista, non è solo un insieme d’immagini, ma un rapporto sociale tra persone-clienti mediato dalle immagini.
Il popolo sovrano è una beffa e una bastardata insieme… ma davvero pensate che se il voto elettorale potesse cambiare alla radice lo stato delle cose i potenti vi farebbero votare?, Mark Twain, diceva… occorre resuscitare gli gnostici, gli illuministi fuori gioco, i libertini, gli eretici, gli edonisti libertari, gli illuminati d’ogni pazzia… per riabilitare l’uomo di fronte alla storia che l’impicca nella servitù volontaria. “L’esercizio del potere consiste nel governare senza il popolo, contro il popolo e nonostante il popolo” (Michel Onfray)… le classi dirigenti
— asservite da politici, giornalisti, economisti, sociologi, psicologi, avvocati, tecnici, burocrati, sindacalisti, pubblicitari, esperti dei nuovi media, artisti con la livrea —… sono lo specchio modello della mediocrità che ha afferrato il potere e tutti (o quasi) si rispecchiano nelle trappole di progresso che ripetono fino alla cancellazione d’ogni sorta di rivolgimento radicale e resa dei conti. Il terrore del domani è già qui!
Cazzo! Madonaccia ladra! Cristaccio maledetto! abbiamo deviato un’altra volta… ci siamo infognati all’inferno come quel B-movie di Edgar G. Ulmer, Detour (1945) o, peggio ancora, nel piccolo capolavoro di Joseph Lewis, La sanguinaria (1949)… qui, in uno stato di derelizione politica e sociale, un’oncia di libertà si può affrontare persino con le armi in mano e la morte in faccia… quando nessuno aspira all’impero tutti i lillipuziani possono inchiodare Gulliver sulle spiagge dell’utopia, poiché sotto la spiaggia c’è il selciato che porta al palazzo della fraternità, dell’accoglienza e del bene comune. La saggezza la lasciamo ai beoti della partitocrazia e dell’indecenza delle chiese monoteiste che persistono nella mattanza della bellezza come seme nutritivo della giustizia!
Avendo scelto l’incuriosità del folle e la malinconia dell’angelo, mi sono escluso da tutti gli atti sociali, e poiché il buonismo degli imbecilli è incompatibile con il mio esilio, sono andato a cavalluccio delle nuvole, là dove in memorabili ubriacature d’amore, il visionario si trasfigura nel bambino curioso che tirava i sassi alla luna blu, non per possederla ma per donarla a chi non l’aveva mai vista. A quell’epoca, a quell’epoca, ricordo bene… chiedevo alle stelle il risveglio di un’infanzia intramontabile, poi ho compreso che il linguaggio della fame è il solo che mostra il cammino all’uomo e iniziai ad annusare il profumo delle rose nelle pagine dei libri… lì vidi tralucere la mia immagine affondata negli aggettivi impiccati all’albero della conoscenza e decisi d’accordare l’anima alla vita e all’amore, e gettare nel pozzo dell’infanzia bandiere e patrie… presi la rivolta come amante e armai l’ironia sulla ferita aperta di una realtà colma di miserie… lasciai il destino sulle labbra ripiegate nella parola e compresi bene che solo l’amore può qualcosa o tutto per rifondere la speranza dell’umano nell’uomo.
Parte seconda
II. Della fotografia immaginista scritta sull’acqua del teatro e sulla filosofia gnostica degli occhi chiusi
“Non credo alle immagini fotografiche. Ritengo le fotografie bugiarde, maligne, velenose.
Qua scavano, là gonfiano. Tradiscono sempre. Rifanno la faccia umana
senza un briciolo d’umana tolleranza.
La peggiore macchina che l’uomo abbia
in uso è quella destinata a partorire fotografie”.
Giovanni Arpino
Tutte le forme d’arte sono scritte sull’acqua lustrale della creatività o della sua esecuzione sommaria… è l’artista che ne detta la Follia, direbbe Erasmo da Rotterdam, e la bellezza dell’indignazione contro tutto ciò che è convezione, mercimonio, sottomissione… nessuna arte s’insegna, come l’orgoglio o la baldanza, si trova nella strada… s’impara sbagliando e facendo della digressione architetturale la perfettibilità del segno, della parola, del suono, dell’immagine. Qualunque insegnamento estetico imposto è sempre sbagliato. Il poeta che non conosce il verso, ha diritto ad usare tutti i versi… non si alleva un poeta, un figlio o un amore, l’edificazione di un uomo passa per la poesia della vita che attraversa.
La fotografia quando non è prigioniera del suo referente, va al di là di ciò che mostra e supera l’ossatura iperreale della simulazione scenica… innesta un’interazione dialogica tra il fotografato, il contesto e il lettore… l’immagine si pone oltre il livello di verità, ma nel concetto di valore d’uso… infatti… se andiamo a ripercorrere l’intera cartografia fotografica di Tommaso Le Pera, non è difficile scoprire l’autorevolezza di un fare-fotografia della scena teatrale dagli anni ’60 al nostro tempo… che va oltre la comunicazione della realtà e nell’incisività della scelta supera il fotografato e rivela il cammino creativo del fotografo che conferma se stesso nella tenerezza delle sue immagini-tracce… lì ci sono anche le lacrime, i singhiozzi, i silenzi dispiegati in visioni divoranti della bellezza che non canta patrie ma emozioni. Ciò che è visibile è solo l’abito del pagliaccio o dell’eroe, l’invisibile lo ricusa e ne decifra l’essenza… quando il fotografo ha visto il Tutto o cade nella disperazione o s’imperla nei pianti dall’allegrezza impiccati a un’inguaribile avvilimento per un’umanità migliore che non viene.
Per farsi odissei nell’impresa unica di Le Pera occorre andare a rovistare nell’impronta culturale-politica grecanica lasciata nei corpi violati dei calabresi… in questo popolo (come in tutti i Sud della Terra), sovente deriso, brutalizzato, abusato… c’è ancora il sapere millenario di una terra che nutre, di uno sguardo che allatta, di un pensare che è coscienza e inconscio di universi mai definitivamente uccisi… il perduto torna a vivere quando l’uomo e ciò che fa ha ancora la capacità di stupire, di rivelare l’arcano dell’arte e conciliare la compiutezza con l’istante creativo. La scrittura fotografica di Le Pera è quasi un’iniziazione al sapere, un dialogo con il teatro in vitro alla propria essenza, dove l’immagine è il corpo e la testimonianza della sua eternità.
La fotografia autentica non ha format, nemmeno nella versione bressoniana di à la sauvette… fotografare di sorpresa non c’entra, anche l’attimo fuggente è sempre una relazione con l’altro, non la sua cattura. La visione prospettica della cosa fotografata nasce da una pratica culturale, epica, politica che permette di elaborare ciò che accade davanti alla fotocamera, fuori dall’estetizzazione delle regole suggerite… e il fotografo identifica il reale nell’impressione che egli ha di se stesso e del mondo. Non è un caso se Le Pera sostiene (in diverse interviste): “Secondo me, nessuna scuola può veramente insegnarti l’estetica fotografica, in qualsiasi campo, mentre può permetterti di acquisire più rapidamente la tecnica in generale. L’estetica è una sensibilità d’artista, la tecnica è manualità dell’operatore”. La fotografia, senza l’amore che l’accompagna, si esaurisce nella mitologia-tecnica che la riproduce… l’istante fotografico scippato alla storia non costituisce un fine in sé, ma definisce il primo grado dell’arte di vedere o l’ultimo.
Slides (a cura di Pino Bertelli)
La libertà appartiene alla verità del profondo che disvela il falso, la realtà alla finzione che tradisce il vero o lo seppellisce nei rituali che l’accompagnano al rogo delle filosofie, dottrine o parassitismi finanziari. Le ideologie illiberali accendono i bracieri del ragionevole separato dall’immaginazione e lì finiscono le teste calde, gli spostati, i dissennati d’ogni ordito. La libertà muore nell’omologazione dei linguaggi, abolizione delle verità, soppressione dei disaccordi, negazione della biodiversità ferita a morte, propagazione dell’odio, dell’indifferenza, della mediocrità… il totalitarismo dell’imperio neoliberista è fatto! Scuole, giornali, televisioni, internet, cinema, fotografia… raccontano ciò che dev’essere raccontato nella lingua dei dominatori e gli uomini sono uniformati in una pochezza verbale-mentale mai apparsa così impoverita-liquida dalla nascita dell’uomo.
A riguardo della mediocrazia della fotografia e fuori da ogni vezzo verbale o griffe dispensate sull’eccellenza di questa o quella fotocamera come esaltazione collettiva della cultura fotografica… ci è sempre più difficile distinguere un fotografo da un imbecille… eppure ci mettiamo anche dell’impegno per scovarne uno dei fotografi all’interno dell’imbecillità della fotografia imperante… per comprendere la mediocrazia della fotografia occorre non leggere poeti, filosofi, manuali del boia… basta appassionarsi ai libri contabili… è la sola competenza che la civiltà dello spettacolo chiede ai suoi servi. Rassegnazione e servitù hanno lo stesso abito da parata… la ragione imposta è l’ordine di ciò che viene ucciso! Solo l’ignoranza e l’obbedienza hanno diritto di cittadinanza… nel vino, nel pane e nella mela tenuti nel tascapane degli insorti del desiderio di vivere tra liberi e uguali, c’è anche la dinamite dei corsari che spediva in fondo al mare la Grande y Felicisima Armada di Filippo II di Spagna… poiché di paura muore il pauroso e di rivolta, il ribelle, diceva… non è male scatenare le passioni e disorientare i cesti d’infinite bugie dei potentati, financo a bruciarli… per scaldarsi, almeno un po’, nello spogliarsi dei ciliegi in fiore che pronunciano la parola amore sull’orlo delle palpebre.
Le Pera, da qualche parte dice: « Come si dice nell’ambiente, il teatro è scritto sull’acqua. Infatti, uno spettacolo, bello o meno bello, di successo o con pochi applausi, difficilmente viene ripreso per una seconda stagione, ed ecco che le compagnie si sciolgono e gli attori vanno alla ricerca di nuove scritture, le scene vanno al macero, i costumi ritornano nelle sartorie e di quell’evento, costato fatica, angosce, dubbi, paure, entusiasmi, emozioni, non rimane più niente. Niente, appunto, se non qualche locandina, qualche recensione e, quando ci sono, le fotografie di scena a documentare, comunque, un fatto culturale quale testimonianza visiva per la storia di quanto avvenuto sulle tavole di un palcoscenico in una manciata di minuti ». Ecco… non è la sublimazione estetica che attanaglia la vertigine del fotografo… ma un’estetica dei saperi che superano la rimaterializzazione dell’arte fuori dalle furbizie dello stile… la fotografia dunque vive della storia che la detta e figura il tempo in cui essa si manifesta… e la libertà di scelta ha sempre a che fare con il rispetto, la dignità e la prospettiva di raffinate dolcezze poetiche, poiché “la bocca di un idiota divora se stessa… va’ dove va il tuo cuore. E dove va lo sguardo dei tuoi occhi”, l’Ecclesiaste, diceva. Il male trabocca di troppe parole-immagini che innalzano la violenza là dov’è il diritto.
Coraggio, curiosità, talento non c’entrano… fotografi, critici, storici, vassalli della fotografia insegnata… esprimono una cultura della mediocrazia in bella mano, una sorta di pianificazione del gusto che investe tutti i campi della politica, della finanza, dell’ordine costituito e financo dei rivoluzionari senza rivoluzione, specie di sinistra, che presi da frenesie di consenso, successo o semplice idolatria… si fanno cani di guardia di un sistema che li fagocita quanto li stritola… gente incapace di distinguere una fotografia da una carta da parati… eppure ne cantano le lodi a guisa del proprio riconoscimento pubblico… pensano che la felicità etica di Epicuro sia una marca di cavalletti, una borsa per fotocamere o un corso sulla fotografia digitale che fa di un cretino un fotografo… vero nulla… Gesù parlava aramaico e lo capivano tutti, Pilato parlava latino e lo capivano solo gli sgherri che lo inchiodarono sulla croce per un eccesso di narcisismo, voleva buttare fuori dal Tempio i mercanti a pedate… la ragione di stato si è emancipata sulle forche dei dissidenti e l’umanità che ha partorito è destinata a fare una brutta fine.
Al di là o al di qua, non so… del linguaggio fotografico più praticato o violentato… tuttavia ci sono autori di una certa levatura culturale che amano la fotografia e la fanno eseguendo il loro idioletto… rivendicano il lievito dell’amore prima e il valore d’uso del fotografato dopo… fuori dai fenomeni d’isteria collettiva della fotografia blasonata, evitano le amenità della propaganda e le facezie della sperimentazione come assolutismi espressivi… s’avvicinano alla cosa fotografata per narrare una storia, descrivere un manifestazione, denunciare una brutalità… e non importa andare a cercare il clamore sui campi di battaglia, nelle periferie della Terra o sulle zattere dei migranti in attesa di affogare nel Mediterraneo… a volte basta un’allegoria teatrale, la visione dell’attorialità sospesa tra il personaggio e il mondo o raffigurare la bellezza, la giustizia, la dignità che passa dalle quinte di un teatro all’immaginale dello spettatore attivo… per mostrare che la barbarie del volto umano può essere sconfitta dall’amore dell’uomo per il ritorno all’uomo che desta l’indecifrabile o lo scandalo.
Uno tra i pochi grandi fotografi (non solo) italiani che ha fatto della fotografia di teatro anche il teatro di ciò che langue o vive fuori dal palcoscenico, è Tommaso Le Pera. Non si tratta solo di rappresentare un avvenimento teatrale o decapitarlo… tantomeno di fare un discorso messianico della fotografia vergata di facile umanismo… si tratta, come la catenaria immaginale di Le Pera insegna… di mostrare una bella fotoscrittura, un carattere, un temperamento che non mira alla perfezione né al genio incompreso… ma di costruire una tessitura di valori culturali che determinano la sovranità inedita della fotografia come lettera bianca sulla quale imprimere un nome, un desiderio o un sogno. Per fare della fotografia un proprio linguaggio occorre studiare e vivere ciò che si studia o ripudiarlo… conoscere per fotografare o fotografare e fare della propria vita un’opera d’arte. Un’annotazione a margine. Le Pera nasce in Calabria, a Sersale (CT), nel 1949… i profili (sempre troppo pochi) che lo riguardano, dicono che a vent’anni si trasferisce a Roma (dove vive) e diventa il fotografo per eccellenza del teatro italiano… inizia a fotografare nella cantina del Folkstudio in Trastevere e incornicia la memoria teatrale di un intero Paese in oltre 4.500 rappresentazioni… non sono le macchine fotografiche usa (Pentacon six o Leica, poco importa) a determinare la sua scrittura fotografica, ma la scelta di fissare gli attori in quella tecnica di ripresa che lui stesso definisce “fotografia dinamica”… una sorta di fotografia in movimento che travalica la posa e racconta i gesti, i corpi, i volti dei protagonisti e ciò che interpretano sul boccascena. Si tratta di un fotografare che non è cattedra di mosche morte… ma di stracci-immagini sapienti che accrescono l’impazienza del giusto… illuminati dalla lampada orfica dell’inattuale… cioè una fotoscrittura che è al medesimo tempo, testamento e rivelazione.
Gli inizi di Le Pera sono immagini anche degli “spaghetti-western” e raccontano una stagione, tra le più basse, del cinema italiano… poi il teatro d’avanguardia, impegnato o quello ufficiale, si dipanano in una seminagione fotografica dove il cinema, il grande cinema (Visconti, in modo particolare) è presente in ogni scatto… l’arte di Memè Perlini, Giancarlo Nanni, Giancarlo Sepe, Mario Ricci, Eduardo e Peppino De Filippo, Romolo Valli, Giorgio De Lullo, Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi, Valeria Moriconi, Gianrico Tedeschi, Gabriele Lavia, Mariangela Melato, Gigi Proietti, Eros Pagni, Antonio Calenda, Tato Russo… è disseminata in pubblicazioni, mostre, festival… e il filo rosso della narrazione è il movimento visivo che scaturisce dall’intensità dell’immagine e va a toccare lo spirito profondo dello spettatore-lettore che si trova sulla diligenza di Ombre rosse di John Ford o nell’increato patafisico di Re Ubu… insomma in un fotografato che accompagna il sogno e lo destina a un altro porto.
La figurazione semantica-spaziale di Le Pera s’allarga a diverse angolazioni espressive, non si ferma alle azioni principali della storia, all’attore blasonato, alla decorazione scenografica… travalica le luci, le scenografie, i costumi… decostruisce la fotografia di scena classica, frontale, col teleobiettivo, e l’abituale senso pittorialista dell’immagine di posa teatrale viene intessuto di desiderio, d’immaginario, d’innocenza emozionale versati in una triade figurale che intreccia narrazione, gesto e attorialità con la visione eidetica del fotografo. La genitalità della fotografia sedotta e seduttrice della cosa amata, liberata nel chiasso di un accento o nel silenzio di un vocabolo… si riverbera nel bello che include l’introspezione psicologica… e nemmeno importa sapere che “la bellezza è l’armonia del caso e del bene”, Simone Weil, diceva… è la trasfigurazione della sensibilità agganciata all’illuminazione della fabula… tutto è falso, eccetto l’immagine-parola che prevale sulla simulazione e si arrende alla luce di un’altra verità che invece di cercare Dio, incontra Goya. Il bello fuoriesce sempre in maniera misteriosa, alchemica, magica… ed è prima di tutto rispondenza tra l’istantaneo e la pienezza dalla realtà immaginata.
Lo splendore degli sguardi, la bellezza luminosa dei gesti, il fascino desiderabile dei corpi…vanno a costituire una scrittura fotografica androgina, dove niente è osceno poiché la stupidità di vedere l’osceno è là dove si disprezza la singolarità di un artista o la si esalta specie quando non la si capisce! E questi sono i palafrenieri dell’euforia, dell’esaltazione e della morale oscurantista che pretendono di possedere la verità, poiché sanno bene che la cavezza è la collana che meglio si adatta al popolo. I grandi artisti sono quelli che non sfoggiano sapienze impeccabili e chiamano ciò che fanno lavoro, non arte. La maestria in tutte le arti è una forma d’incantesimo dove studio e talento se ne infischiano della forma fine a se stessa e si sciolgono nel contenuto di una vera e propria commedia umana, Balzac, Wilde, Genet o Pasolini ne erano coscienti… accompagnata dal quel profondo senso d’inquietudine, d’amorevolezza e di compassione porgono attenzione al bene vegliato come un bambino di campagna, cioè nell’amore incondizionato che è l’unica misura di creazione di valore.
L’epifania della gioia che sborda dalla fotografia di Le Pera proviene, credo, da quella terra calabra violata perfino nella lingua, quasi a farsi vergognare del proprio magnifico dialetto, dispersa nelle tenebre della frusta certo, ma anche nelle rivolte dei briganti e brigantesse… il crogiolo delle sue immagini è un poderoso scrigno di commozione, calore, dolcezza avvolti in un risoluto linguaggio, anche tecnico, che porta fuori dal proscenio la maestria del molteplice e la riversa in arte… il suo rizomario figurativo, appunto, è un unico film-fotografia raccolto sulla scena del teatro e rovesciato sul teatro della vita quotidiana. Una tecnica nuda, spoglia, asciutta che reinventa ritmi, tempi, azioni sceniche dove il superfluo è tagliato via e resta soltanto il discorso fotografico ebbro di nuove significazioni dell’immagine innamorata del proprio canto.
La via della fotografia di teatro di Le Pera non rispetta troppe norme, le guada, le decrocifigge e le ricompone nell’interazione che congiunge la coscienza di sé con la coscienza del fuori e diventa coscienza del mondo… il significante entra nel significato (e viceversa) senza teatralizzare il giudizio né l’intelligenza dello spettatore… una prospettica che sembra possedere qualcosa di epico che trascende tempo e spazio… raggiunge l’essenziale al di là delle abilità sceniche dei corpi, dei gesti, delle posture… segue le intuizioni che attanagliano il fotografo nella propria erranza, non sequestrano l’oggetto amato nella forma, ma abbeverano l’immagine amata nell’immaginale di un sentimento amoroso per l’arte e per la vita.
La fotografia del desiderio di Le Pera non è solo la ri-creazione del fenomeno teatrale, ma il suo prolungamento… il fotografo conosce il testo, autore, regista, gli attori… entra in relazione con la soggettività teatrante e associa il piacere a una costruzione estetica che è insieme, tentatrice e peccatrice… cioè la fotografia teatrale di Le Pera contiene le tre categorie classificate da Charles S. Peirce — le icone, gli indici e i simboli —… e mostra sia la capacità tecnica-stilistica dell’autore sia il senso di partecipazione, coinvolgimento e comunità con la trattazione fotografica. Il fotografico, infatti, è la connessione intellettuale, il nesso che si crea fra il soggetto fotografato (ciò che cade davanti alla fotocamera), la fotografia scattata e il contesto in cui la fotografia raggiunge uno scopo o lo fallisce… poco importa la quantità di realtà presente in una fotografia… ciò che vale è l’impronta di verità, bellezza e giustizia che corrisponda a come il fotografo vede il mondo.
Il planisfero fotografico di Le Pera, come abbiamo detto, abbraccia l’intero teatro italiano dagli anni ’60 al nostro tempo… seguendo una sommatoria figurativa del suo monumentale lavoro — senza entrare nel merito di quello spettacolo, quell’artista o delle narrazioni —, vediamo che ci troviamo di fronte a citazioni del cinema alto (Stanley Kubrick, per dire), con riferimenti al futurismo, al surrealismo, al costruttivismo sovietico, al Bauhaus, ai linguaggi delle avanguardie artistiche che Le Pera sembra conoscere bene… e fuori da ogni compiacimento visivo, il fotografo conferisce all’immagine una sorta di detonazione estetica che lega l’avvenimento a un’elegia che travalica il documento e s’inoltra nel bello e nel vero di ciò che attenziona nella decreazione di un reale spogliato da ogni imitazione.
Le immagini di Atene anno zero (1970-71) di Francesco Della Corte (due tempi tratti da testi attici del IV secolo a.C.), regia di Gualtiero Rizzi… ci trasportano in certi anfratti del cinema cubista… mai pittoriche, sempre pregnanti o dialoganti tra l’attorialità e l’ineffabilità del fotografo… gli attori, le scene, il nero di sfondo corrispondono a una grammatica fotografica attenta a non tradire il soggetto dal quale parte, tuttavia declinata nell’impressione sensoriale mediata nella riflessione, come in un gioco di specchi… la conoscenza che va oltre il semplice guardare, dell’illustrazione, ma si rispecchia in altri enunciati indipendenti fra loro, un coro di segni metalinguistici che attraverso la composizione, l’inquadratura, il taglio teatrale e riscattano la realtà nell’infingimento… una fotografia è sempre un autoritratto e mostra qualcosa dell’autore che il lettore può anche vedere, se non si abbevera ai ceppi dei grandi propositi che ruminano vento e chiacchiericcio… le collezioni di sentenze morali appartengono agli annunciatori che disabbelliscono la vita.
Nel lavoro Itala Film Torino (1985-86) di Giancarlo Sepe, regia dell’autore… specie nelle immagini a colori… Le Pera sembra riconoscere le avanguardie artistiche, politiche, radicali che sulla scorta di studi del Dada, Lettrismo, Situazionismo… porgevano il superamento dell’arte come lotta contro l’ideologia e in groppa all’utopia andavano a realizzare un’estetica di resistenza che sconvolgeva tutte le forme di comunicazione, sollecitava l’incrinatura della consustanziazione tra merce e uomo, e dava luogo alla partecipazione aperta della dissidenza e principio della decolonizzazione culturale di Dio, Patria, Famiglia, Lavoro.
Le immagini mosse, quelle moderniste, quelle brechtiane… disvelano un’appassionata ricerca della verità personale e riscoprono verità e bellezza fuori e dentro i predicati teatrali che ne intimano le partiture. Il prestigio degli eletti contiene sempre quel non so che di alterigia che ne mina la grandezza! Il gesto accende l’occhio, il tagliaboschi dà al bosco la longevità o lo condanna.
Nelle fotografie a colori di La Pamela (1986-87)… Le Pera raccorda l’immaginario cinematografico di Luchino Visconti con la scrittura di seduzione di Carlo Goldoni… i verdi, i marroni, i gialli restituiscono la realtà della fotografia, del cinema, del teatro come conoscibilità delle cose e non come succedanei della realtà… c’è una riorganizzazione dello spazio e del tempo scenici e la proposta intellettuale di nuove relazioni che legano la maschera alla vita e la vita come dilatazione della maschera. Una micro umanità che si profila in altri canovacci e genera una nuova quotidianità intessuta tra il teatro e la platea… l’analisi dello sguardo che emerge da un’altra dimensione del vedere e diventa veicolo di altri linguaggi che partoriscono altri aspetti della realtà fotografica. Alla legge, la fede offre la garrotta, poiché ogni intuizione ha sempre il sapore amaro delle mandorle in fiore. Anche gli alberi, i rami, i fiori hanno il loro modo di sanguinare ma nessuno li reclama come vittime, perché è nel saccheggio del reale che si scova l’irrealtà che infrange tutte le certezze affidate al consenso. Quando l’imperfezione si manifesta nella bellezza, la vanità non ha più scampo.
Nelle immagini in bianco e nero e colore di Il matrimonio di Figaro di Pierre Augustin Caron de Beaumarchais (1986-87)… Le Pera respira e ci fa respirare i vizi e i lazzi della commedia dell’arte e intravvedere anche elementi estetici del cinema-maestro di Carl Th. Dreyer e Ingmar Bergman… una ritrattistica che non ha nulla di meccanico, di diretto, di immediatamente significante… tutt’altro… si armeggia tra tante visioni possibili del pezzo teatrale e costruisce altri percorsi strutturali… non ribadisce il già visto né lo enfatizza… e si discosta da quanto diceva Franco Vaccari a suo tempo, cioè che ogni mezzo tecnologico possiede o è posseduto da un proprio inconscio… questo vale anche per la collezione delle figurine dei calciatori o dei ciarlatani da tribuna. Le Pera (come Man Ray o Moholy Nagy, Walker Evans, August Sander o Diane Arbus) rompe i limiti dell’illusione e si muove all’interno di ciò che fotografa… attiva una discrepanza nella funzione fotografica racchiusa in una cornice e ne spazza via i parabordi… spegne la rappresentazione chiusa in se stessa e accende la poetica di un’altro esodo del vivere insieme. Tutto ciò che interroga la liberazione dell’individuo è reso alla strada. Se andiamo a ripercorre l’immaginario fotografato (bianco e nero/colore) di Le Pera (preso a gatto selvaggio) in: — Le miserie ‘d monsù Travet (1987/88), Re Ubù (1988/89), Gli ultimi giorni dell’umanità (1990/91), La Pazza di Chaillot (1990/91), Il giardino dei ciliegi (1995/96) , Un anno nella vita di Giovanni Pascoli (1995/96), Riccardo II (1995/96), Morte di Galeazzo Ciano (1997/98), Giovanna D’Arco. Donna armata, passione e morte in nove stazioni (1997/98), Scene da un matrimonio (1997/98), Il misantropo (1999/00), Edipo re (1999/00) , Woyzeck (2004/05), Marat-Sade (2004/05, Antigone (2006/07), Macbeth (2006/07), The Changeling (Gli incostanti) (2007/08), La scuola delle mogli (2009/10) , Signorina Giulia (2011/12), Edipo re (2011/12), I pilastri della società (2013/14), Vita di Galileo (2015/16) , Se questo è un uomo (2018/19), I giganti della montagna (2019/20) —… s’avverte la medesima autorialità lirica sparsa nell’intero viatico del fotografo… Le Pera si evolve insieme al suo fare-fotografia e dentro una intersoggettività della delicatezza, del rispetto, della cortesia, distese nella raffinatezza, anche gioiosa, della costruzione estetica… designa eventi, movimenti e azioni in un abbecedario iconografico che non ha bisogno tanto di un’individuazione storica, quanto di comprensione filosofica… Le Pera esprime modi diversi di fotografare la scena teatrale e altre maniere d’intendere e di vedere. Ogni immagine è un anello o frammento o sintagma di una struttura più ampia, non spettacolare, ma inseparabile dall’accadimento che racconta se stesso e anche la verità della propria carne.
La filosofia della fotografia di teatro di Le Pera fiorisce su foglie-corpi d’infinito amore dove il legame immagine-evento diventa magia di un divenire mondo vero attraverso la raffigurazione, la dissimulazione, l’incisione verbale-gestuale… e “i divenire ci ricorda Gilles Deleuze sono la cosa più impercettibile, sono degli atti che possono essere contenuti soltanto in una vita ed espressi in uno stile”. Nella costruzione fotografica di Le Pera, tutto ciò che viene fotografato è pura immagine e rappresenta tutto e alcunché, poiché l’immaginale che ruba alla cosa fotografata si crea uno spazio-tempo proprio e si sviluppa in intensità espressive che avverano un altro reale, un altro linguaggio, un’altra vita.
Sul filo di una certa pregevolezza ben riconoscibile e personificata, la scrittura fotografica di Le Pera affina qualcosa che appartiene al reale nascosto sotto il testo teatrale ed è anche un invito a tessere, sognare, attraversare i confini dell’oggettività artistica… la fotografia non manca di nulla quando il desiderio scaccia, supera e annulla tutte le macchine desideranti o produttrici di congiunzioni, suddivisioni e soglie che lo imprigionano nel sensazionalismo o nell’emozione precostruita… i corpi, i volti, i comportamenti sono prodotti della comunità che — in ogni ambito della vita sociale, culturale, politica — riflettono le sue linee di condotta e solo quando la soggettività ignudata di tutti i significanti estetizzanti e desecretata di tutti i contenuti obbligatori, la fotografia cessa di essere merce e si trasforma in segno che valica, anche in clandestinità, la notte dell’immagine e della parola.
Fotografare è portare alla luce il concatenamento dell’inconscio, i sussurri e le grida che non si richiamano a una parola d’ordine ma alle passioni smisurate che s’avvolgono al discorso indiretto che trasforma il fotografato in altri componimenti di veridicità… come nel film di Ingmar Bergman, Sussurri e grida (Viskningar och rop, 1972)… il linguaggio fotografico di Le Pera non è la realtà, la ricompone alla vita, poiché sul palcoscenico la vita parla, ascolta e attende il debordare dalla macchina teatrale e profanare i tormenti della subordinazione, anche… i personaggi fotografati da Le Pera designano altre possibilità, sbalordimenti, altre soffiature culturali che raggiungono l’intensità costruttiva di una linea-immagine stregata, un cominciamento cospirativo che evidenzia l’impossibilità di sottostare ad altre versioni dell’accadere… il compito, forse il solo, della fotografia è la necessità di sostenere una filosofia della dignità, che è piena di forza critica, politica e di libertà.
Meno si prende sul serio la filosofia dell’immagine come storia del mondo, più si pensa in conformità a quello che vuole l’industria culturale e lo Stato… si tratta di fotografare o scrivere o pensare come un flusso emozionale, non come un codice postale… il rizoma della fotografia sociale non prevede congetture, diagrammi, astrazioni concettuali… nella fotografia, come nel cinema, pittura, musica, scrittura… si danza sulle barricate del presagio o nei salotti dell’apparenza… ogni segno-immagine si spiega, si dispiega, si piega, diceva Deleuze… nell’unità concreta del concetto, una costruzione che rimanda a piani di agitazione o di sonno… così ogni inquadratura, composizione o simultaneità empatica, contiene il centro dell’attenzione del fotografo che dice o tradisce tutto ciò che l’immagine non di-mostra. Il libro-immagine di Pasolini, Petrolio (1992), infatti… è uno scartafaccio di appunti, annotazioni, invettive che “fotografano” le convulsioni e le preghiere volte alla demonizzazione del vero. Non importa essere fotografi o possedere un apparecchio fotografico per fare la fotografia… occorre avere l’immaginazione della fotografia come utensile che incide sul culto delle immagini e degli dèi che la promuovono a merce, un’altra storia, un’altra verità. Il vero compito della fotografia, forse, consiste nel negare o cogliere ciò che non è dato o sottratto alla verità delle rovine.
La filosofia della fotografia scritta sull’acqua del teatro di Le Pera è un atto fondativo che mostra un’altra ragione dello spazio-tempo dal quale parte… il punctum dell’immagine non c’entra, nemmeno l’aura, e neppure lo sguardo che avvisa l’eccentricità del momento… nell’iconologia di Le Pera c’è anche uno stravolgimento dell’indicalità vista come ripetizione scenica… la fotograficità di qualsiasi cosa si traduce in osservazione o filosofia della materia che raccorda il fotografo con ciò che lo circonda… poiché la fotografia è un’affabulazione ottica compositiva che si sostituisce alla realtà che vede e sente al di là del vero o del falso. La fotografia è una provocazione del caso o il caso di una provocazione… la fotografia, come l’amore, non è mai innocente. Sappi che nel bagliore di uno sparo, c’è già il suo pallore, diceva… ecco perché la fotografia si dischiude sulla soglia di uno sguardo impertinente o muore nell’annerimento delle idee. Quando la fotografia trapassa il vero, non appartiene a nessuno, torna al grado zero dell’immagine autentica o insorta.
“La Fotografia — per dirla con una frase di Ando Gilardi, del tutto affascinante e addirittura blasfema — è la palingenetica obliterazione dell’io cosciente che s’infuria nell’antropomorfismo universale”. Non ho capito bene, ma mi sembra qualcosa d’intelligente. Forse ho inteso che la Fotografia ha la capacità di modificare sensi e comportamenti e di conseguenza di mutare i condizionamenti della realtà? Forse che la Fotografia disvela tanto l’ingenuità della realtà così come si presenta e rimanda alla scuola elementare dell’eresia? Forse che la Fotografia travalica barriere, confini, muri, reticolati, fosse comuni e “l’analfabeta del futuro non sarà chi non sa scrivere, ma chi non conosce la fotografia”?, Moholy-Nagy, diceva… certo è che la Fotografia non ha niente a che vedere con l’analogico o il digitale… poiché è nella riconfigurazione della realtà che nasce o muore all’incrocio d’infinite pulsioni del visibile, l’oblio o il dissidio della fotografia non aspira ad essere compreso ma essere amato.
La fotografia di strada, moda, pubblicità, viaggio, cronaca, guerra, astronomica, microscopica… non esiste… esiste la bella fotografia e quella brutta… ciò che è importante è perché si fa una fotografia… per raccontare la vita, sostenere discorsi politici o prontuari commerciali, fare della significazione fotografica la modificazione della percezione delle folle o fare della poesia che comunica le difficoltà dell’uomo e dell’ambiente che lo circoncide… l’intenzionalità della fotografia è ciò che incorpora o rigetta… il messaggio non è solo lo strumento ma l’uso che se ne fa, caro McLuhan (quando facevi il consulente per lo Stato del Vaticano, forse il Papa ti aveva raccomandato che gestire la comunicazione è come gestire l’impalpabilità di Dio e che comunque la mercificazione delle preghiere era feconda per istruire il consenso del confessionale). Qualsiasi tipo d’informazione-immagine (internet, telefonia, cinema, pittura, televisione, carta stampata…) è codificata all’addottrinamento della coscienza pronta a interagire e a trasformarsi in emissario dell’organigramma semiotico dell’esistenza… finanza, politica, cultura, terrorismi di Stato o deviati sono parte di organismi internazionali nelle mani di pochi predoni dell’immaginario… il benessere, la sicurezza, il dispotismo estesi ovunque, dipendono dalla gestione efficiente, pratica, riproduttiva dei modelli d’informazione. Nessuno può nulla contro la libertà dell’uomo che rigetta il piacevole per il bello… non c’è consolazione nelle lacrime degli oppressi, solo il castigo vendicatore degli oppressori.
La prolificità dell’immagine confluisce, si mescola, interferisce con la civiltà dello spettacolo e determina la riverenza delle soggettività o il loro dissidio in quella iconosfera mercatale dove la fatalità ha preso il posto della critica… l’imperio dell’immagine rimanda a una serie di casellari che fanno dell’apparenza i capoversi della realtà… lo spazio inquadrato, l’ambiente, gli oggetti, gli atteggiamenti riproducono massivamente lo stile della comunicazione che crea la realtà, invece di disvelarla… il fotografo e il fotografato sono parte di una scena che riguarda lo slancio in cui gli uomini aderiscono alle immagini e contemporaneamente alle relazioni tra loro… il desiderio indotto di fama e notorietà è una condizione necessaria per la costruzione dell’identità — sempre volatile — con la quale la moltitudine osanna la visibilità del mito e ne ripete l’emulazione…la fotografia come arte alla portata di tutti non esiste o è solo un trofeo issato sul sangue dei dissennati senza miti…esistono i fotografi o i poeti, cioè quelli che si dedicano alla fotografia che permea il vasto pubblico e quelli che spassionatamente non forniscono direzioni né indicazioni se non all’utilizzo delle immagini invise o del tutto trascurate dalle strutture colonizzatrici della comunicazione.
L’immagine persuasiva, non solo della fotografia, crea mercati e alimenta consenso o dissenso, ricchezza o emarginazione… i sistemi informatizzati generano gli scenari dell’uniformazione della quotidianità, mutano abitudini, percezioni e coniano un nuovo alfabetismo che mischia immagine e parola, e non richiede troppi sforzi intellettuali per adattarsi al linguaggio che viene… l’ostensione del maneggio tecnologico come fine e principio di tutte le cose permette di simulare un’identità ed emulare la sintassi di un ordine stabilito su scala globale… è vero anche che l’uso di una filosofia dell’azione creativa all’interno della Rete ne può incrinare le regole e i condizionamenti… denunciare gli influenzatori come novelli delinquenti di una realtà succedanea, interfacciati, protetti e fagocitati dall’impalcatura mercatale che conforma o asserve l’immaginario collettivo ai propri fini. Quando la verità, la bellezza e la giustizia si staccano dai nostri sogni e desideri più insensati, già non siamo più e cadiamo nel fondo dei millenni. Un eccesso di sofferenza è sempre un eccesso di crimine impunito… e la macchina sociale è la voce dei popoli che riecheggia nella persuasione e nella retorica dei distruttori e degli inerti, Carlo Michelstaedter, diceva. Il dominio del sociale sull’individuale prospera nella disfatta della storia umana.
La dimensione sociale del vedere si origina nella cecità di riprodurre una normalità preconfezionata che è espressione diretta di una scolastica elementare destinata a sotterrare l’identità personale e vivere la realtà nell’ingannevole ambiguità cosmopolita dove “nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” (Guy Debord). La veridicità del segno, del gesto, del corpo non sta solo nell’immagine fabbricata ma in quella pensata o anche sognata… la realtà raffigurata non è solo apparenza ma anche il bagaglio culturale personale che la deterge o l’incensa… a ragione, Charles Baudelaire, Thomas Bernhard, Giovanni Arpino, Ando Gilardi o Roland Barthes, ci avevano avvertito che la fotografia non è certo una straziante reminiscenza di ciò che è stato e le immagini rendono schiavi di un’incomprensione, quella di credere che la fotografia sia al fondo di ogni verità… e mentire davanti a una fotocamera non è solo una salvezza ma un ripararsi da qualcosa che dà al fotografato sempre torto.
A Ferdinando Scianna si deve forse una delle più illuminanti invettive contro la fotografia: “Nel momento in cui ci illude di immortalare un istante contemporaneamente lo uccide e ci fa capire che l’istante solo esiste se è istante di vita, se è vivo in se stesso, se noi siamo vivi con lui”. Tutto Vero. L’essenza della fotografia è quella di mostrare e custodire l’inconosciuto della bellezza, della giustizia, della verità, del rispetto, della dignità… e fermare o liberare nel tempo il superamento della messa in campo o dell’immediatezza anche della fotografia di strada, che è una semplificazione del grande poema fotografico di Walker Evans, Diane Arbus o William E. Smith… la finitezza dell’immagine fotografica si evolve nel poetico che trasmette… è una metamorfosi visiva della realtà che geme o disincrosta il reale dei propri infingimenti.
La fotografia immaginista di Gian Paolo Barbieri, Oliviero Toscani o Richard Avedon, per ricordare… travalica la destinazione dell’immediata sensazione, si traduce in conoscenza e coscienza dei mutamenti del costume e mette a nudo l’uomo nelle sue debolezze e insorgenze.
L’attualità illusoria e sincronica con le forme di comunicazione attuali è un’emanazione del lessico pervadente sussunto o respinto… l’immagine-codice è specchio della realtà e anche il suo verosimile… il realismo della realtà è da un’altra parte e poi chi se ne frega della realtà e del realismo… il discorso politico permea tutto e la cultura è il valletto delle sue affermazioni e promesse mai esperite. Le categorie, gli indici, i simboli sono in ogni connessione tra soggetto e quotidianità, e il fotografico è la traccia, il ponte o l’arpione tra il fotografato e la scrittura fotografica: “L’unica cosa politicamente corretta è la tua coscienza” (Oliviero Toscani). La capacità tecnica-stilistica del fotografo o è una soluzione narcisistica o è un utensile che la sopprime a favore di qualcosa che anche al massimo dell’imperfezione esprime un punto di vista documentato… la fotografia non può essere mai prigioniera del suo referente, semmai ne ribalta l’improntitudine… è sempre il valore di verità o menzogna che determina l’immagine in qualcosa che esiste o che tradisce. La fotografia sostituisce la realtà o ne rivela l’impostura.
Due o tre cose che so della fotografia immaginista… l’immaginale dei piaceri, dei desideri e delle passioni dei surrealisti, lettristi, situazionisti che annientano, ostacolano o sfigurano, anche con soluzioni radicalmente immorali, la direzione sporca della condizione umana… è un coacervo di situazioni che non prevedono razze, popoli, nazioni, stati, ideologie, dottrine, saperi… che sono la riproduzione sociale di un’oligarchia consumerista che soggioga corpo e anima al potere in carica e, come sappiamo, ogni potere si regge sull’assenso di coloro sui quali si esercita, Étienne de La Boétie, diceva… l’immagine immaginista dunque è una liberazione del desiderio in ogni campo del sapere… parte dall’immagine codificata e la détourna in altro da ciò che rappresenta nell’immediato ma non la sconsacra… poiché l’autore sa che l’arte vuole eternità. Nel reame della fotografia ufficiale trionfano una primavera di carogne… e siccome la formazione dominante alla fotografia passa da una successione di finzioni ideologiche e mercatali, la verità della fotografia non esiste perché conta solo l’immagine che reclama solo ciò che non rinnega!
La fotografia immaginista o cinesica di Le Pera è un battesimo di visioni eviscerate dal contesto… i corpi, i gesti, i volti… sono presi da una realtà teatrale e trasfigurati in altre sapienze, in altre sostanze… detto meglio… le fotografie immaginiste di Le Pera effigiano dei veri e propri sillogismi iconografici, forme scritturali d’esistenza che confluiscono nel profondo di un’altra storia, quella dell’autobiografia sospesa tra la recitazione e la materia… arrotolati insieme e disgiunti nelle cosmogonie immaginiste che rimandano alla leggiadria dell’artista in stato di gocce d’acqua degli antichi… cioè… l’arte o è ascetica o è falsa… insomma dietro l’immagine immaginista c’è la fiamma, la brace e l’inclinazione per l’assurdo aureo di Giobbe, poiché “il cammino ascetico può essere ripercorso ai margini della visione: qui, sedersi, sedersi sui margini in attesa di capire” (Guido Ceronetti). L’immagine immaginista appartiene solo all’immagine della sua resurezzione… scivola nel vuoto e non si concede ad alcuna confidenza che non sia l’estasi di sé. Il vuoto di una fine e il vuoto di un inizio.
La vena sapienziale di Le Pera non conosce ortodossie, semmai eresie dell’oracolo-fotografia… è territorio d’incontri, di presenze, di coltelli arrugginiti o sciabolate di luce sul sangue dei giorni… di amori scoscesi e piogge d’orchidee che fanno della scatola psichica interiore ciò che Henry Corbin, James Hillman o Gaston Bachelard intendevano come “mondo immaginale”… e proprio Corbin sosteneva: “Non avrai altri dèi di fronte al mio volto”. Si tratta di vedere in tralice ciò che è dato come percezione dell’apparenza… l’immagine dell’uomo non appartiene all’uomo ma alla sua anima, James Hillman, diceva… l’immagine dell’anima dunque è immagine del mondo.
La fotografia immaginista di Le Pera è una sorta di gnosi dell’immaginale, non ha la necessità di riprodurre fatti e ragioni, nemmeno il simile che ripropone il simile… è il riconoscimento di una presenza che diviene narrazione-conoscenza d’altro, anche… e attraverso il linguaggio del corpo riporta al respingimento della spontaneità o allo stupore dell’arte come fac-simile della vita comune. Non importa andare in guerra, in uno studio pubblicitario o a girovagare nelle periferie urbane per fare la Fotografia… il taglio, l’inquadratura, la composizione, la selezione del reale o del falso, vogliamo ribadirlo… sono il lessico mai scritto, del tutto empirico o personale, che fa di un fotografo un poeta o uno scemo. La fotografia è nata bastarda o del tutto imbrigliata nell’industria mercatale… più fotografia si vende meno si fa Fotografia! Poiché è stato disseminato nelle teste dei fotografi-clienti che l’immagine fotografica è quella che tracima dalla tecnologia della fotocamera. Fotografare sull’acqua del teatro, sul niente, dunque, è come fare dell’amore la nuda anarchia che rovescia il mondo.
Il momento decisivo bressoniano è quello dell’acquisto della fotocamera… più di ogni cosa è cercare un maestro, un imbonitore o un cretino che suggerisce regole-zone aure, senza sapere mai che per imparare l’uso di una fotocamera basta leggere il foglietto delle istruzioni tra il sabato e la domenica con la Confraternita della bottiglia… per conoscere il mistero della luce non basta una vita, dicevano Nadar, Luis Buñuel, Jean-Luc Godard, Orson Welles o Pier Paolo Pasolini e anche Lazarillo de Tormes, il picaro, mentre appiccava il fuoco alla casa del padrone… ciascuno s’inventa il proprio linguaggio e per contrastare l’estetizzazione del diletto o l’imbarbarimento del successo piegato su tutti i sagrati della mercificazione… occorre disimparare ciò che è stato appreso, costruire situazioni differenti, rompere le regole del compiacimento visuale… che è l’illustrazione di una iperrealtà trasmessa e ingoiata come verità.
Chi dice la “mia fotografia”, la “mia arte fotografica”, la “bellezza della mia fotografia” è un cretino preso sul serio… la persuasione occulta della fotografia (e dei mezzi di comunicazione di massa), Roland Barthes, John Berger o Pierre Bourdieu, dicevano… è nel fotografo che aderisce alla copia dell’informazione regnante… che è l’ordine inossidato al quale è difficile sottrarsi e favorisce i brevetti di ambasciatore, insegnante o maestro a quanti considerano il mondo un’immensa successione di spettacoli… in ogni forma d’arte chi non ha nulla da dire grida, quelli che si chiamano fuori dall’esibizionismo massificato ridono o tirano sassi agli specchi dell’imbecillità. La fotografia è anche luce rigeneratrice di immagini esplosive.
Che bello… da qualche parte (in Rete) abbiamo trovato la più profonda osservazione sugli scarafaggi — i serventi adoratori della Regina d’Inghilterra —, i Beatles: “I Beatles ebbero la funzione storica di paladini della reazione. I loro sorrisi e i loro ritornelli tennero nascosti i fatti rivoluzionari di quell’epoca per la borghesia che non voleva sapere nulla dell’insofferenza dei giovani e dell’underground emergente. Non avevano nulla da dire, e infatti non lo dissero”… sembra che l’autore dello scritto sia stato passato per le armi per lesa maestà a quattro coglioni idolatrati dalle folle ed emulati anche al cesso… è la stessa cosa che accade agli imitatori balordi di Helmut Newton, Steve McCurry, Annie Leibovitz o Nobuyoshi Araki… il corpus d’immagini di questi esegeti della creatività spettacolare, esprimono una personificazione atta ad entrare nella coscienza di massa… a differenza della “conoscenza gnostica, che è la conoscenza dell’anima, e il suo scopo non è provare o spiegare l’anima — ma trasformarla”, Robert Avens, annotava… le strategie di vendita delle immagini fotografiche implicano una prospettiva sacrale che porta a concepire, immaginare, proiettare, desiderare fortemente la relazione tra utilitarismo e credenza… ma, come ci hanno lasciato in sorte gli antichi… il piacere senza coscienza non è che rovina dell’anima.
Le immagini messaggere-immaginiste sono quelle uroboriche, angeliche, circolari che implicano orizzonti inesplorati dell’ospitalità, della finezza, dell’amore in una risonanza che riorienta la creazione dinamica di qualsiasi cosa nell’infinitudine archetipica-poetica della conoscenza… ti amo come tu mi ami, poiché il reale è nel ripiego di un’ala ferita, diceva… e la parola precipita nell’amore rivendicato che naufraga in mari inospitali, poi Ismael afferra la coda della luna e s’invola là dove l’amore ha per amica l’infanzia, la rosa e la fionda… poiché l’altrove è la terra che nessuna sa: la nostra terra. In questo senso il volto, il corpo, lo sguardo sono i filamenti del fantastico e una successione di passaggi, di scale, di soglie che conoscono la lingua dei cani e il vociare delle stelle… è lì che la parola-immagine ha un nome e si chiama amore per l’umano nell’uomo.
La fotografia immaginista è una fotografia germinale-gnostica… poiché la gnosi è “una ricerca di conoscenza condotta con un’intensità così totalizzante che questa ricerca stessa diventa ontologicamente una forza di trasformazione”, Henry Corbin, scriveva. Rifuggire dagli dèi abbattuti e dal dio che viene significa cercare di rivelare il profondo dell’uomo, scoprire l’angelo necessario, il maestro invisibile, l’archetipo d’ogni essere individuale… per vivere l’istante magnificato della resistenza culturale… e solo quando l’istante è crocevia d’amore di sé verso l’altro, l’esempio-cliché predominante crolla nella sua stessa radura di sangue… solo i poeti che non chiedono niente hanno diritto a tutto.
Ci vuole molta innocenza, sconsideratezza e arditezza per cercare di edificare un pensiero anima… poiché sappiamo che qualsiasi cosa che riguarda l’educazione è sempre sbagliata… la raffinatezza di una semantica ludica-edonista è forse la sola libertà di scelta che implica il riscatto e il diniego, e l’incendio di qualsiasi codice-contratto civile… il padrone prende, abusa, consuma, distrugge, uccide secondo i suoi desideri, Michel Onfray, diceva… finché non accade l’inedito… l’angelo tremendo di Rilke che porta un nuovo ordine amoroso nel disordine che obbliga a rifiutare le passioni dell’utopia, le sole pulsioni personali di una filosofia libertaria, libertina e gnostica che nel mutuo appoggio si trasfondono in forme/soggetti che prendono la parola, l’immagine, il suono e il sogno nel tempo in cui si manifestano.
La fotografia immaginista contiene la gnosi — una forma di conoscenza superiore, illuminazione non necessariamente religiosa o più semplicemente un grido d’amore per salvare o non uccidere l’anima —… non si occupa del reale incorniciato in concetti e ideologie, anzi ne disfa gli impulsi. In qualche modo questo fare-fotografia eredita lo sguardo sgualcito della cultura millenaria che accompagnava le genti di là dalla terra… un amore verso i sacrificati sorrisi degli ultimi, l’esacerbazione del male che evidenzia le armi che si porta dietro e talvolta condanna lo sciame d’imposizioni con l’inchiostro che le sporca o le disvela per affermare i diritti dell’uomo. La visione immaginista reca con sé il rumore delle biglie, del pane fresco, dei corpi nudi dei ragazzi distesi come bisce al sole sulle spiagge sudate di vento africano… l’innocenza del cercare, del ricordare, del condividere che respinge dappertutto l’infelicità… sfoderare le armi dell’adolescenza per intravedere e avvicinare la verità inventata dei sognatori che l’alfabeto non ha ancora guastato.
La fotografia gnostica o immaginista s’accosta all’avvenire con il passato che viene e poiché la solitudine non è una Patria né una bandiera… chi la pratica è un dissotterratore di primordi sepolti o perduti e chiede alla fotografia la polvere di stelle nascosta nel firmamento delle sillabe, e come l’amore senza limiti che ha il medesimo afflato della libertà e senza riguardo alcuno prefigura il dono di sé nell’altro: “Il rimprovero è in ogni vocabolo che ho rivelato alla sua voce e che credeva alla mia sincerità.
Se la bestia, per grazia del poeta, si trasforma in angelo, l’angelo tradito ridiventa subito bestia.
Poco a poco, il libro mi darà il colpo di grazia” (Edmond, Jabès, il maestro). La fotografia è nel soffio, come la verità e la bellezza sono nel vento… l’apparenza è soltanto il riflesso di pieghe-specchi già confessati e ci rinvia a una perdita dell’ignoranza dove ciascuno trova l’immagine di sé o la rifiuta… poiché il corpo è il luogo dell’anima, solo il corpo liberato può infrangere il respiro dello specchio.
La fotografia immaginista emerge o s’innalza da una filosofia gnostica o degli occhi chiusi, cioè dell’immaginale che sprigiona la coscienza del silenzio o l’impazienza della collera… una visione che si scontra con la brutalità dei potenti e oppone verità e bellezza al vuoto delle idee e al disprezzo delle fedi o da coppieri della politica… l’amore per la vita è sempre in ritardo sul suo debutto, poiché l’apparenza è la sostanza d’ogni rovina. La poetica immaginista ha una funzione morale e civile propria al fanciullino di Giovanni Pascoli… contiene l’instancabile desiderio e la frenesia anche, di una comunione tra le miserie, le disuguaglianze e le sopraffazioni che rigetta a favore della luce che risplenderà nella vita autentica… essere al margine è una presenza di un altro luogo, di un altro abitare, di un altro essere… una briciola di universo che conserva i suoi colori e il sale degli sguardi che uniscono ciò che è disunito… il bordo non è il limite e un cammino senza inizio né fine che si trasforma e trasforma chi ne accoglie l’oltraggio e deposita l’esilio nelle mani e nei canti dei trovatori… poiché l’amore s’innalza dove afferra l’eterno che è la cenere di tutte le eco incoronate alla ninna-nanna del mai dimenticato. La storia dell’uomo è storia degli occhi abbassati, non chiusi… poiché amare, vedere, sognare, sono la parola-immagine incendiaria che ha sete di bellezza e di giustizia. La poetica del fanciullino di Pascoli è all’inizio o alla fine di tutte le innocenze ritrovate o offese… il poeta sa che l’ingenuità è affine al riso del fanciullo e giunge al cuore delle cose e delle lacrime senza aprire gli occhi, solo il cuore… le palpebre abbassate di Dio, quando per la prima volta apparve il male insieme alle stelle, non c’entrano… gli occhi chiusi del fanciullino (qui considerati come fondamento primigenio del pensiero dell’uomo), rappresentano il disarmo e la condanna dell’immaginario collettivo che si srotola tra sogno e realtà… la coscienza che conduce al bene non è forse la sola poetica della regalità? Tutto ciò che è stato finora insegnato è falso! Chi ha fame si ribella o muore per contrastare il tozzo di pane e l’arsura d’amore negati! La menzogna, come la politica, cambia pelle a seconda delle convenienze, recite e indottrinamenti… mai tanta imbecillità è stata bene accordata con la storia che l’ha promossa a inno di devastazione… solo l’amore si congiunge con il seme che getta nel vento e dice: tu esisti!
Il linguaggio-filosofia immaginista dell’acqua e degli occhi chiusi allora è un traghettatore di rive, di ponti, di naufragi e ammutinamenti… è il ritorno all’infanzia mai perduta che non conosce persecutori né suppliziati… i maestri aureolati non coincidono con la gaiezza né con la passione… poiché la luce dell’amore si nutre del desiderio che l’accende! Il Piccolo principe innaffiava la propria rosa per proteggerla dal mondo che voleva reciderla… l’acqua-immagine è la memoria della Terra e anche del cielo, delle pietre… l’acqua-immagine è sempre un risorgimento o un pazzo tramonto che non conosce confini, poiché l’acqua-immagine è coscienza e incoscienza dell’impossibile reso possibile… l’immagine dell’acqua è in tutta la vita dell’uomo, è in ogni parola, in ogni lacrima o in ogni stupore che interroga non domanda, che include non esclude, che protegge non uccide… l’acqua-immagine è il tutto e anche il nulla del pensiero gnostico che vive eternamente nella sua nascita… si nasce sempre domani, perché anche l’ultimo ubriaco sa che alla notte della tirannia succede l’aurora della libertà.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 25 giugno, finito 6 volte ottobre 2022
* Questo trattatello sulla Fotografia immaginista di Tommaso Le Pera non è solo la costruzione per immagini di un grande fotografo ma cerca di tracciare anche la filosofia gnostica che le sue opere contengono… qui ogni presenza della realtà è abolita o rivelata… nessuno fotografa, filma o scrive innocentemente e ciascuno è complice, spettatore o ribelle di fronte a se stesso e alla civiltà dello spettacolo che lo alleva nella paura, nell’obbedienza o nella decurtazione delle idee d’amore dell’uomo per il bene comune. Per questo è diviso in due parti… una deposita la filosofia dell’indignazione nel superamento delle morali dominanti, l’altra entra nello specifico della fotografia (non solo) di Le Pera per cercare di argomentare sull’indefettibile amore per la Fotografia che si fa irriducibile anima del mondo.
La stesura dello scritto s’avvale della lingua-Argot (la lingua rovescia) di Villon, Céline, Rabelais o Don Chisciotte… e non pretende d’essere compreso, se non quanto basta, per immergersi nella malinconia dell’arte autentica e scegliere il cammino senza avere la pretesa di trovare una fine, forse solo una pagina bianca sulla quale scrivere la parola amore per te, per me, per noi che ci porta a creare valore dell’umano nell’uomo.
I debutti non ci fanno paura e nemmeno le rovine, poiché ogni giustizia risorge da un singhiozzo o da un sorriso che si dispiega nel desiderio di verità divorante che c’è solo nell’uomo e solo in lui… il nostro congedo è un invito al viaggio per andare a vedere là dove il mondo non c’è più… il nostro solo sguardo è per ciò che non vediamo ancora ma che presto o tardi, non lo sappiamo, abbaglierà i nostri amori, le nostre utopie, i nostri florilegi di fraternità, uguaglianza, solidarietà con i dannati della terra. Ricordiamolo: il padrone si è accorto dello schiavo, quando lo schiavo gli ha tagliato la gola.
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