Mi interessa la figura dell’artista artigiano, da Morris al Bauhaus, mi interessano quelle situazioni dove l’arte ha avuto un ruolo, sconfinando dalle pratiche della separatezza, dalla gabbia dei generi

di Gianni Pozzi

Più che una mostra è un confronto: con un luogo e quindi con la storia di un luogo di cui lei stessa è parte; un ritorno, in quelle stesse sale dove molti decenni fa aveva mosso i primi passi di una lunga carriera nel campo dell’arte. Una ragazzina poco più che quindicenne che nella Livorno dei primi anni ’60 si muove tra la Casa della Cultura, “un faro acceso che illuminava l’intera città”, come scrive nel suo Tous les rêves du monde, un’autobiografia che come tutte le autobiografie è “artistica menzogna”, e appunto questa Villa Trossi Uberti. Che giusto in quegli anni passa come lascito di due collezionisti artisti al Comune di Livorno, aprendosi a una attività di istruzione artistica di base. Una Libera Accademia, secondo la formula ufficiale.

Lei, Kiki Franceschi, la ragazzina di allora, è già impegnata da qualche anno, tra premi e rassegne di pittura e mostra evidenti capacità. Una vocazione sorgiva, una caratteristica livornese quasi, quella che uno storico dell’arte come Massimo Carboni, a proposito del Premio Rotonda, proponeva  (con un po’ di ironia forse) di considerare più come fenomeno antropologico che artistico.

Ricorda bene ancora oggi quell’ambiente, “molto più spoglio e meno attrezzato di adesso “, ricorda lo scultore Vitaliano De Angelis e il pittore Giancarlo Cocchia, lì come insegnanti, e il pubblico assai vario, di adulti per lo più, che segue le lezioni. Frequenta per circa un anno il corso di scultura e dice che le furono utili le indicazioni di base che ricevette, il senso del modellato, dello spazio. Poi però altre urgenze premono, i dibattiti al Cisternino, l’attività del Centro Il Grattacielo all’Attias aprivano nuovi orizzonti. Per essere un’artista e non semplicemente un pittore occorreva altro. La facoltà di Lingue a Pisa, la filologia, l’archeologia; quindi il trasferimento a Firenze. Altre voci, altre stanze …

Sessanta anni dopo, di nuovo a Villa Tossi Uberti. Stavolta però con un gruppo di opere che se da un lato ne ripercorrono il lungo e articolato cammino, dall’altro si pongono in relazione con gli ambienti e le loro funzioni.

Ecco allora che nelle sale del piano terreno si orchestra un coro di voci diverse, i tanti dipinti della serie dei poeti, ma anche le pagine volanti, e poi gli specchi con su le riflessioni filosofiche, altri dipinti con i temi della guerra; una installazione/quadreria, la poesia visuale, le “pagine volanti” e i libri oggetto. Un grande tavolo nell’ingresso dovrebbe riunire la documentazione di questa attività fittissima. Che tocca tutto, l’arte visiva ma anche la poesia, la scrittura e l’espressione teatrale che troverà spazio in alcune serate in giardino. Al primo piano, dove normalmente si svolgono le lezioni di pittura, fra i tanti cavalletti degli studenti,ecco invece, poggiati a terra e illuminati, alcuni dei suoi grandi dipinti dagli anni ’80 in poi. Una pittura densa, caratterizzata da un “fare grandioso”, l’epica quasi di un  quotidiano trasfigurato e – insieme –  di un mondo arcano recuperato. Naturalmente non è una cronologia, una imbalsamazione cronologica, è un procedere per cenni, per gruppi tematici che si intersecano e si rilanciano l’un l’altro confrontandosi con gli spazi della villa, di rappresentanza o d’uso, nel tentativo di far emergere quella circolarità e quella coerenza che sembrano i caratteri distintivi di un lavoro del genere.

***

Di tutto questo, per gran parte ancora allo stato di progetto al momento di scrivere queste pagine, ne parliamo insieme, in una caldissima giornata di fine giugno nel suo studio a Firenze, mentre sui tavoli si dispongono le foto delle opere che dovrebbero andare in mostra insieme alle piantine della villa. Ne riparliamo poi a Quercianella, decisamente più fresca, scambiandoci, nel frattempo, appunti, immagini  e informazioni. Ci conosciamo da una vita ma ogni volta sorgono domande nuove.

G.P. Mi pare che in questa dimensione quasi da antologica e nell’ambientazione quanto mai suggestiva di questa villa, luogo della tua prima formazione, si colga con evidenza quella che per me è un po’ una caratteristica del tuo lavoro, quell’aspetto che io direi relazionale: una ricerca continua cioè di relazioni e scambi, con il passato e con il presente, la storia e l’oggi, con gruppi e movimenti, condotta su fronti  molteplici, con la pittura, la poesia, la saggistica, la parola recitante, gli interventi urbani persino … Credo che a partire dalla fine degli anni ’70, dall’Operazione Lavoisier, realizzata insieme a Andrea Chiarantini, compagno di lavoro e di vita, fino alle opere teatrali più recenti, il tuo lavoro non sia stato altro se non la ricerca di questa dimensione relazionale dell’arte. Nell’Operazione Lavoisier, che veniva dalla celebre enunciazione del chimico e economista francese per la quale nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, in pratica riciclavate gli avanzi del lavoro di altri artisti, gli scarti, fino a formarne un libro. In due copie, una per l’autore di volta in volta coinvolto, una per voi. Ne avete realizzati una cinquantina, tutti confluiti poi nel fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze. Con autori diversissimi, da Pierre Restany a Spoerri a Sabatier, da Daniele Lombardi a Pietro Grossi a Pozzati a Moretti, e poi Lanfranco Baldi, Paolo Masi, Eugenio Miccini, Luciano Bartolini …  Artisti dunque, ma anche illustri critici d’arte, poeti visivi e musicisti sperimentali, vicini e lontani. Il vostro orizzonte di riferimenti, mi sembra, forse anche per quel “disperato bisogno di appartenenza” di cui parli nella tua autobiografia e che mi ha molto colpito. E a tutti costoro, umilmente, chiedevate in dono gli avanzi, gli scarti del loro lavoro per produrne altro. Mi hai raccontato che in alcuni casi la richiesta avveniva direttamente, erano gli anni della galleria DADA di Tavarnelle Val di Pesa, di Paolo Calosi, e molti passarono per quelle salette. Spoerri, per esempio, lo incontrasti lì. In altri casi spedivate una busta, di quelle di carta da zucchero, con la richiesta di riempirla con un po’ di avanzi. E tutti rispondevano in una giocosa partecipazione all’operazione. Ecco, questa idea del fare arte da altra arte, questo costruire una comunità e una appartenenza sull’idea del dono e sullo scambio di qualcosa, materiale e simbolico al tempo stesso, e soprattutto questo ridare valore a quel che altrimenti sarebbe stato solo scarto, non aggiungendo quindi niente al mondo ma recuperando quel che già c’è, mi sembra emblematica del tuo/vostro lavoro. Una operazione che guarda e anticipa molte esperienze dell’oggi – Non volendo aggiungere altre cose al mondo è giusto il titolo di un saggio di qualche anno fa di Emanuela De Cecco che toccava proprio i  temi  della responsabilità dell’artista e dell’ambiente. Ma era anche, precedentemente, l’idea di  Benjamin del recupero e del montaggio, una delle pratiche cardine nell’arte e nel pensiero del ‘900. Che si concretizzò, per Benjamin, nei suoi Passages, il progetto di una storia  del XIX secolo costruita accumulando e ridisponendo frammenti di ogni genere, citazioni da libri, riviste, pubblicità, annotazioni e – cosa poi non realizzata – anche immagini …

K.F. Come sai bene, per me e per il mio lavoro, il riferimento a molti portati delle avanguardie storiche è fondamentale. Mi interessa la figura dell’artista artigiano, da Morris al Bauhaus, mi interessano quelle situazioni dove l’arte ha avuto un ruolo, sconfinando dalle pratiche della separatezza, dalla gabbia dei generi …  Una esperienza particolarmente importante in questo senso furono in quegli anni le Giornate Internazionali di Poesia, cinque giorni al Teatro Affratellamento qui a Firenze, curate da Luciano Caruso, Henri Chopin, Laura Marcheschi e Steliomaria Martini. C’è un bellissimo catalogo edito da Vallecchi. Il sottotitolo era “la poesia come fisicità e materia” e Caruso insisteva proprio su questa presenza del corpo e della materia nella poesia, come elementi della poesia stessa, parole e lettere come materiali … Se guardi l’indice era straordinario, dal Futurismo, segni, materia, suono, alle avanguardie storiche e poi, passando per Artaud, all’esperienza lettrista, che per me è stata importantissima, come quella dell’Inismo. E si arrivava all’oggi, con, fra i tanti altri,  Eugenio Miccini e Maurizio Nannucci …

G.P. Sì, è il clima vivacissimo di quegli anni, prima la mostra degli artisti tedeschi di Villa Romana, poi sempre a Villa Romana, Iride Schedule d’arte, dove Alessandro Vezzosi tentava un inedito riepilogo della cultura visiva fiorentina di allora, e non dimentichiamo che subito dopo le Giornate di poesia ci fu la mostra Spartito preso/ la musica da vedere curata fra gli altri da Giancarlo Cardini  e Daniele Lombardi. Anche questo un ambito di ricerca vicino al tuo lavoro  …  Se parliamo di materia però e di recuperi di scarti e di montaggio/smontaggio torniamo a Benjamin. Ti ricordi che per lui si trattava, in pratica, di riformulare la storia alla luce del concetto di “immagine dialettica”, quella che scaturisce tra il già stato e l’adesso, il vicino e il lontano. Una sorta di corto circuito della storia. E per questo si richiamava a due figure precise, il collezionista e lo straccivendolo, che per lui erano i “fisiognomici del mondo e delle cose” oltre che del mondo dei rapporti sociali che le hanno generate. Sia il collezionista che lo straccivendolo liberano infatti gli oggetti dalle loro relazioni funzionali e li salvano dalla dispersione riattivandoli e usandoli in nuove funzioni. Certo, dietro a questo  c’è l’ombra immensa di quel mitico Atlante a cui Aby Warburg lavorava dagli anni ’20, Mnemosyne, un atlante fatto di una sessantina di pannelli scuri sui quali un migliaio di foto di opere d’arte e non, lontanissime le une dalle altre, venivano accostate cercando forme e temi ricorrenti. Per analogia può venire in mente l’Atlas di Gerhard Richter ma anche, negli studi di storia dell’arte, il caso di Georges Didi-Huberman, capace di risalire a Beato Angelico tramite gli spruzzi di Pollock. Per non dire poi dei tanti re-enactements con i quali alcuni artisti ricostruiscono la storia in maniera, diciamo scenica (e penso a Jeremy Deller e alla sua ricostruzione della battaglia di Orgreave fra i minatori e la polizia). Ma anche di altri artisti come il duo Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian che recuperano vecchi filmati, storie di guerra o di colonialismo, puliscono quelle vecchie pellicole quasi illeggibili, le rifilano, le colorano, talvolta le profumano anche e le filmano di nuovo riportandole a nuova vita … L’elenco potrebbe essere lungo ma quello che mi interessa è segnalare questo ambito di ricerche come il tuo orizzonte di riferimento …

K.F. Lo è sicuramente. Come lo era la Firenze di quegli anni dove si susseguivano rassegne e festival su libri d’artista, cinema d’artista, performances, poesia visiva, poesia sonora. Io però guardavo anche oltre la dimensione fiorentina, avevo frequentato il lettrismo francese e italiano e, sempre in quei primi anni ’80, tramite Gabriele Aldo Bertozzi, mi trovai coinvolta nel movimento dell’Inismo, appena nato. Ne firmai anche il secondo manifesto. L’idea, lo sai, era quella di un linguaggio poetico al di là della parola stessa: proponevano, in pratica, l’uso dei simboli della fonetica internazionale e in questo senso gli inisti si percepivano come un passo avanti rispetto al lettrismo. Era l’idea di una lingua internazionale della poesia, una lingua che non avesse bisogno di traduzioni, qualcosa che stava a metà tra l’archetipo e l’appunto. Cercavamo, come diceva Bertozzi,  “ una lingua infinitesimale, universale, adatta alla poesia”. Sprofondare nel preverbale, in quel luogo dove i linguaggi si sono originati. Mi sentivo come una archeologa nelle necropoli dei miti. L’ho scritto anche nell’autobiografia, Tous les rêves …

G.P. Archeologia, miti e linguaggi originari. Mi hai parlato più volte del tuo interesse per un pittore come Licini, uno di quei personaggi eccentrici, difficili a definire, sfuggenti a ogni categorizzazione. Quelli che a te piacciono particolarmente … Una eco della pittura di Licini, che è densa e forte e carica di simbologie, la si può ritrovare, quasi in trasparenza, in certi tuoi grandi dipinti, affidati alla emozionalità del colore, i rossi, i blu, ma anche a quella sorta di grandi cifre che vi campeggiano, segni primordiali quasi, misteriosi e dall’aria arcana …  Se dovessi dire, direi che Licini sta dietro anche a quel tuo muoverti fra pittura e scrittura, alla ricerca di una sorta di archetipo … anche per lui – come l’archeologia per te – il disegno rupestre, l’arte primitiva e i feticci africani, avevano un senso forte in quella sua idea di ricostruzione del mondo. Una ricostruzione affidata a “individualità creatrici”, all’artista come veggente … È Licini che chiede all’arte di essere “qualche cosa di geniale, d’insospettato, o nulla”  e in mezzo alle sue Amalassunte, alle Croci viventi, alle falci di luna in sembianze umane o dell’Orphée, trova modo di parlare dell’artista primordiale e della sue ricerca senza fine, per cui “i capolavori sono e saranno sempre tutti da fare”…

***

Può essere significativo che in questa mostra compaia anche un dipinto degli anni ’60, Le amiche, un olio su tavola realizzato da lei ragazzina quindicenne, che mostra una singolare padronanza tecnica: buon senso dello spazio, una pennellata piatta e sapiente, colori densi, un po’ calcinati, come fosse un affresco: e un clima leggermente metafisico, di sospensione. In lontananza gli echi di Masaccio, di Carrà e di Pirandello Un dipinto realizzato negli anni in cui frequenta villa Trossi Uberti e che torna adesso in questo percorso. Può essere significativo, dicevamo, per quella idea di arte come vocazione e destino, come impegno nel mondo e per il mondo, che anima tutto il suo percorso e che non a caso fin dagli anni ’70, a Firenze, si muove tra Il Ponte della Ghisolfa milanese, il Soccorso rosso di Franca Rame, vari libri bianchi sulla repressione di quegli anni ’70 e figure come Pio Baldelli o Eugenio Miccini.  È qui, in questo clima d’urgenza che si fa forte il bisogno di superare in qualche modo i generi storici della pittura e della  poesia, quelli che ne imprigionano le potenzialità – per un linguaggio più aderente alla realtà del momento. Riviste come Lotta poetica di Sarenco o Tèchne di Miccini sono in questo senso dei precisi punti di riferimento. Come lo sono alcuni filosofi particolarmente attivi in quegli anni, da Cesare Luporini, Giulio Preti, Ferruccio Masini, Paolo Rossi o Ubaldo Fadini. Nasce qui un fitto lavoro di dichiarazioni poetiche, riflessioni critiche sul senso dell’arte e della poesia, sui rapporti tra arte e potere: pagine e ciclostilati che assumono una forma visiva, con parole scritte a mano in mezzo al dattiloscritto, colori, immagini e impaginature ad hoc. Qualcosa da guardare oltre che da leggere, qualcosa che coinvolge tutto il sistema percettivo perché ambisce a cambiare tutto. Da questo punto in poi è come pittura e poesia e scrittura si sganciassero dai loro supporti tradizionali, dalla tela e dalla pagina, o meglio come se non le considerassero più i soli supporti possibili, per aprirsi a un universo ignoto di possibilità. Tutto si contamina in incursioni visive o oggettuali disparatissime, tutto è arte, l’opera come la discussione politica o l’intervento diretto negli eventi: quasi a realizzare l’auspicio dell’amato Eugenio Miccini, Poetry gets into life, dal titolo di una fortunata serigrafia di quegli anni. Siamo ancora una volta  di fronte a quella commistione di linguaggi, a quell’ idea di opera d’arte totale in qualche modo – arte e vita insieme –  lungamente auspicata prima dai romantici e poi da avanguardie e neoavanguardie. Mondi che lei frequenta assiduamente, quello delle avanguardie appunto e quello dei romantici, particolarmente inglesi, ad alcuni dei quali ha dedicato studi e testi teatrali. Una per tutti Mary Shelley e il suo Frankenstein.

Slides

Questo slideshow richiede JavaScript.

Composizioni allora di vecchie foto strappate, di scritte e frammenti di carte colorate  con le quali lei “uccide – come scrive Alessandro Serpieri – il già morto per recuperarlo nell’’antichità’ di una composizione mitica”; e altre composizioni ancora, con i segni di un alfabeto primitivo e oscuro catapultati nella dimensione di quei suoi grandi dipinti a olio. Come le tante  Scritture, Scrittura su campo rosso (2000 ), Scrittura (2014), Scrittura esagerata (2015).

Un lavoro, nel suo insieme, che esalta l’idea della pittura come linguaggio totale e dell’artista non solo come intellettuale partecipe del proprio tempo ma più ancora come veggente, sciamano che richiama in vita i morti, che si volge alla lingua dei primordi per riscrivere con quella il mondo. Pittura/scrittura e scrittura/pittura e oggetto e gesto/declamazione e musica, perché come confida lei stessa, scrivere  non è altro che  “dipingere con le parole e con i suoni delle parole”. Mentre parola e musica – quello che fa in alcune performances o collages sonori con l’aiuto del musicista Pietro Grossi – va oltre la tela, la pagina e la scrittura  per riaffermare la magia dell’oralità. Della parola.

Decenni di lavoro attorno a questa ossessione di un’arte fuori dai confini assegnati dal sistema stesso dell’arte, durante i quali lei sperimenta ogni possibilità di intervento. Dalla pittura ai collages, e dai collages alle sculture, assemblages anche queste di pezzi incongrui, forme di scarpe, di mani, rotelle da macinacaffè … oggetti di rigatteria ancora una volta, rifiuti della storia. Lo straccivendolo di Benjamin è ancora ben presente come immagine. E poi ancora, dalle sculture alle pagine volanti alle scritte su plexiglass; e da queste a altri collages ma musicali. Fatti, manco a dirlo, di suoni raccolti per strada, rumori del corpo e altro: scarti, di nuovo.

E, contaminazione per contaminazione, decenni fitti anche di partecipazione più che attiva a gruppi, associazioni di poesia, scuole di scrittura, salotti d’arte e movimenti femministi. Mentre fa nascere riviste, pubblicazioni alternative, libri che coinvolgono gli amici quasi a far rinascere il sogno della Casa rossa di William Morris, cenacolo di amici artisti che si passano i saperi, una agorà di artisti e pubblico perché, come scrive nella sua autobiografia, facendo proprio il motto di Longhi, “nessuna opera vive senza la condivisione e comprensione degli altri”.

Dal 2000 in poi, grazie alla collaborazione con il Consorzio Etruria, nascono anche, insieme a Andrea Chiarantini, e avvalendosi di specifiche collaborazioni che poi diventano frequentazioni e amicizie, una serie di opere pubbliche. Panchine, monumenti, bassorilievi, fontane  e sculture dove le forme e gli elementi del loro operare si confrontano in maniera più stringente con la dimensione del vivere quotidiano, del passeggiare, del riposarsi appunto in un giardino pubblico. Oggetti ironici e spiazzanti che caratterizzano spazi altrimenti anonimi.

Ma iniziano anche in questi stessi anni una serie di opere teatrali che finiranno pubblicate e messe in scena ora da attori professionisti ora con lei stessa che se ne fa anche interprete. Seguono quella stessa trama che la porta a inseguire e tentare di unire memorie personali e eventi della grande storia; affronta temi come il terrorismo, la guerra civile spagnola, pagina sanguinante e gloriosa del ‘900, o il drammatico processo a Aldo Braibanti, primo e forse unico – e scandaloso – processo per plagio nell’Italia del secondo dopoguerra. E, sempre per quella sua voglia di riscoprire il lato intimo e più in ombra delle vicende, così come altrove fruga tra vecchie foto e oggetti dimenticati, qui recupera storie. Come la vicenda del poeta contadino Tommaso, suo nonno, finito nel manicomio di Volterra, ufficialmente per un fatto di sangue accidentale, in realtà forse per il suo essere un poeta, uno studioso, un diverso in quel mondo contadino. E questo nonno, nel dramma L’Isola, del 2004,  per sopravvivere nell’inferno della reclusione, incide parole su parole  sui muri del manicomio: “ Io scrivo Tommaso. Questo di me deve rimanere”.

O ne recupera un’altra, quella della storica Franca Pieroni Bortolotti per la cui formazione fu decisivo Aldo Braibanti …

È un po’ il suo uno sguardo sulla storia dall’interno, sulle storie in apparenza minori, storie locali adombrate e sconfitte dalla storia ufficiale, quella con la S maiuscola; uno sguardo che recupera fatti e idee e sentimenti e ne opera – anche qui – un diverso montaggio: la pratica per eccellenza della nostra contemporaneità che torna onnipresente.

***

Certo, un cammino così lungo  è costretto a confrontarsi, magari più volte, con orizzonti sempre nuovi e diversi, mondi totalmente nuovi e alle volte poco comprensibili. Il mondo dell’arte di questi primi decenni del 2000 è incomparabilmente diverso da quello dei decenni ’70 –’80 nei quali lei ha gettato le basi del suo lavoro. E lo sarà ancora, probabilmente, in futuro per via di una accelerazione sempre più forte di ogni sistema di comunicazione. Cambiano non solo i modi ma un intero orizzonte di riferimenti – Marina Abramovic si definiva con un po’ di ironia “la nonna della performance”– e può capitare, in più tratti, di non riconoscersi. Nel finale della sua autobiografia, Tous les rêves du monde, è proprio lei, Kiki, che scrive: “Mi sembra di appartenere a una preistoria conosciuta e assaporata, ma completamente avulsa dalla contemporaneità. Anche spalancando gli occhi non vedo niente, Procedo a tentoni vacillando su di una strada buia”.

Testimonianza viva della difficoltà di confrontarsi con quel mondo sempre nuovo e sempre diverso che anno dopo anno si pone di fronte. Motivo di stupore, di indispensabile confronto, di incomprensione alle volte. Chiunque di noi lo sperimenta quasi quotidianamente. La storia dell’arte però, la vicenda della ricerca artistica e delle sue complessissime relazioni di tutto con tutti, non è un’autostrada dove sfrecciare per cercare di rimanere sempre nel gruppo di testa. È paragonabile semmai – e c’è chi lo ha fatto – a un complesso sistema ferroviario fatto di scambi, binari di scorrimento veloce e altri di scorrimento più lento, cambi di direzione, avanzamenti e ritorni. Ogni percorso è un apporto e tutti gli apporti tutti assolutamente indispensabili al sistema generale. Lo segnalava un eccezionale storico dell’arte statunitense fin dal 1976, George Kubler nella sua notissima Forma del tempo  …

Lei, Kiki, questo sistema di scambi, avanzamenti e attese e inversioni di marcia e riprese, questo sistema di relazione allargata, lo ha vissuto e lo vive appieno. Anche con questa mostra/installazione nel luogo della sua prima formazione, che altro non è forse se non una sua ennesima operazione di recupero e montaggio. Della sua opera stavolta.