Il linguaggio filosofico-poetico di Eva Rachele anela a esprimere e ad esperire una forma di amore verso la vita; ovvero, verso un tu che nella letteratura ha modo di rappresentarsi e realizzarsi in tutto ciò che è “possibile e impossibile”

di Giuseppe Siano

Eva Rachele Grassi inizia la sua ricerca nel letterario con una riflessione su ciò che possa essere catalogato come racconto filosofico; e allo stesso tempo indaga il linguaggio per coniugare e far emergere quel suo sguardo mistico e misterico sul mondo dove la parola è sottomessa più al “sentire” e al trovare consonanze col tu, e meno a far risalire dalle profondità quell’opinione dell’io che guarda il mondo o lo organizza come “unica verità”.

La scelta del contatto col tu innanzitutto rivela tutte quelle molteplici relazioni con la filosofia del “possibile”, che sottintende la mano tesa per una probabile accettazione e inclusione dell’altro.

Il suo narrare con immagini poetiche palesa anche la possibilità di analizzare la sua riflessione filosofica con gli attuali modelli linguistici  ̶  questi trasmessi attraverso la scelta delle parole con cui compone le proposizioni  ̶ , e che affiorano come percorso teorico che traduce la percezione estetica in racconto.

Ogni sua opera ha disseminati, nella scrittura di proposizioni dialoganti, nascosti stati d’animo il cui fine però è di indurre il lettore a tracciare con l’autrice quei nessi per la ricerca di una verità profonda che sia compartecipata, anche se distanziata dal proprio luogo di osservazione e dal proprio percorso di esperienza.

La sua ricerca è volta verso una lingua che unisce. Si muove verso una verità che sia espressione linguistica di uno sguardo sugli eventi che vada oltre i fatti, affinché si possano trovare tutte le tracce possibili da condividere e scambiare attraverso le proposizioni che nel frattempo sono diventate traduzione di vibrazioni in narrazione. La lingua è utilizzata giusto come mezzo per comporre e trasmettere messaggi con le vibrazioni di probabili consonanze.

La verità di Eva Rachele Grassi si rivela, pertanto, solo quando si stabiliscono condivisioni di consonanze; ogni volta che un tu emerge e dialoga nel linguaggio seguendo modelli espressivi e interpretativi lungo un percorso sensitivo-vibrante.

Il rinvenire un “possibile” guardare le cose e i fatti con consonanza, anche se per un solo attimo, permette comunque di utilizzare vari schemi di mente accogliente che allo stesso tempo collocano la sua ricerca “oltre”, o meglio, continuamente “al di qua e al di là” del linguaggio.

Si può affermare, pertanto, che ella preferisce coniugare senza un confine la relazione tra sensi e parole nella narrazione di un’esperienza che ha origine e fine ogni volta nel e per il linguaggio.

Con questo intento, ella può annodare la filosofia “di ciò che è” all’arte “del sentire” con la poesia.

Scende, così, im Grunde seines Herzens (nella profondità del suo cuore). Questo atto del discendere lo si trova spesso unito alla gnoseologia dell’Essere specie nella ricerca filosofica del secolo scorso.

Eva Rachele Grassi, però, si avvicina di più a quella “profondità”, o “abisso”, che fu inaugurato  nel moderno da Jacob Böhme, con la ricerca dell’enigma della vita da decriptare, o anche con l’intento di ritrovare la chiave di un mistero che ogni volta si presenta organizzato con una veste diversa, affinché questo agire possa illuminare o dare senso alla consapevolezza della propria visione.

Il fine diventa, così, quel raccontare la scelta di una propria e continua ricerca della verità in un poetico che abbia sempre come centro intermedio il tu linguistico da ritrovare, o da ritrovarsi insieme a un io quali attori emergenti da un’azione narrata (o evento), dalla quale si palesano le consonanze.

Ogni suo racconto filosofico-poetico pur avendo come fondamentale l’azione ha radice nelle relazioni tra elementi discorsivi.

L’io si guarda e si può raccontare anche come un tu attraverso la narrazione della scrittura.

Ciò per la filosofa poetessa è indice di una raggiunta sanità psicologica di equilibrio nella sua mediazione col mondo.

Del resto il linguaggio organizza sempre modelli per collegare con ponti un io e un tu, anche quando queste congiunzioni si lasciano crollare a causa dei valori diversi che sono distribuiti tra gli stessi termini, che acuiscono con le parole due inconciliabili percorsi; ovvero quando s’interrompe quella acquiescente comune assunzione di principî durante il dialogare tra un io e un tu.

In questo modo emergono i conflitti, le guerre e le distruzioni prodotti da ego imperanti che vogliono imprimere il loro sigillo su tutti e su tutto.

Ci si rifugia  nel mistero, per non essere coinvolti nella diatriba.

Il mistero, pertanto, anche per le tracce disseminate nella scrittura della nostra filosofa e poetessa, va riconosciuto, compreso, agito, e praticato nella vita come una “conoscenza consonante” comunicabile attraverso l’azione del linguaggio.

Ecco che la scrittura poetica di Eva Rachele Grassi si manifesta  anche sul piano di una meditazione filosofica connessa all’azione e alla riflessione che rivelano le sue connessioni linguistiche distribuite secondo l’assunzione di principî.

Nel mentre il tempo mostra il suo divenire, le sue riflessioni sprofondano in nessi abissali che cercano l’altro per legarlo a una più intrinseca verità, o a un più comune “senso” profondo dell’azione nel mondo.

Il problema dell’origine, nella parola e nel tempo dell’essere coevo, emerge come un fattore comune e condiviso imperante.

Da qui nasce forse quel pensare la profondità della vita nell’azione, alla ricerca di consonanze percettive che attraverso il linguaggio diventano congiungimenti comunicativi per mezzo di ponti che seguono gli occasionali percorsi tracciati (sempre col e nel linguaggio proposizionale dialogante  tra un tu e un io).

In che modo il lettore potrebbe risalire insieme a lei, novella Euridice apportatrice di quella sua “luce del mattino”, e raccordare nell’attimo il ritrovamento di un “senso linguistico”  ̶  prima dell’occultamento  ̶  di quella specifica esperienza, sebbene vissuta dal proprio luogo o come “fatto” o “accadimento”, in modo consonante o condiviso? Specie poi se la “luce del mattino” può svanire per sempre ed essere persa da quell’alter ego di sé qual è Orfeo?

Questo rivestire di “senso” l’azione con la riflessione linguistica, è permesso solo con la ricerca.

Il ricercare si presenta alla riflessione linguistica solo dopo, quando si è dato uno specifico senso al racconto del fatto, che segue l’accadimento. Quando cioè, seguendo una logica proposizionale, la filosofa attribuisce all’azione interpretata in “forma linguistica”  un “senso”.

In effetti, quando scompare l’azione emerge il “senso linguistico” della riflessione sull’agire.

Sono, in effetti, i nessi che si costruiscono col linguaggio che ammantano l’azione passata di conoscenza di mistero di misticismo.

Importante diventa, perciò, quel raccordare e collegare gli eventi alle espressioni della lingua. In questo modo nel “tu”, o “altro vivente” può apparire sia la condivisione momentanea della verità profonda, e sia lo sguardo primo e ultimo della vita.

In questo modello, o schema, si ritrova Eva Rachele Grassi quando organizza la ricerca del tu e dell’io nel suo raccontare di consonanze, perché ella vuol trovare condivisioni nel linguaggio con tutti coloro che incontra. Da qui sicuramente emerge quel suo “senso” di trascorrere la vita come un mistero che produce conoscenza per sé e condivisione con un tu, con un qualsiasi tu.

Qualunque sia la condivisione linguistica tra un tu e un io che s’impone come “senso” si produce sempre uno sguardo distaccato e allo stesso tempo profondo che si è trasmesso finora con il linguaggio proposizionale. È questo linguaggio che segna l’esperienza linguistica del filosofare.

Ogni esperienza di ogni attimo di vita è segnata dal raggiungimento di una origine propria, di un proprio equilibrio che va ricercato nell’altra presenza, il tu, da cui poi emerge la storia che Eva ammanta e intende come presenza linguistica di un senza tempo e di un senza luogo, che si presenta come un frammento di sogno premonitore da decifrare  ̶  o un “in sé” da accogliere  ̶ .

Qualsiasi movimento d’interpretazione attraverso il linguaggio tra un io e un tu può essere raccontato sia come un’esperienza mitica e sia come un’esperienza mistica della vita al di là dell’accadimento; ma la narrazione può seguire anche un qualsiasi altro percorso  ̶̶̶  di segni, di gesti o di immagini  ̶  attraverso cui si possa raccontare l’agire umano come cronaca di ciò che “si percepisce” o “si vede” e “si sente”.

Comunque sarà necessario creare (o fare affiorare) sempre un ponte con la narrazione attraverso il linguaggio, per dare un “nostro senso linguistico” a questa effimera e transeunte azione quotidiana che è fuggevolmente presente.

Inoltre, la poetessa filosofa sceglie un proprio “posto buono” da cui percepire e raccordare gli eventi dello scorrere della vita alla “verità” della ricerca linguistica profonda col (e del) tu.

Sembra più un metodo, o strategia filosofica, per sentire e raccontare raccordando piuttosto che un sistema. I frammenti di presente emergenti nelle narrazioni, ogni volta possono produrre una disseminazione di “sensi linguistici diversi” per la ricerca di consonanze che l’Autrice ha posto a fondamento del suo senso profondo  ̶  o sguardo  ̶  che ha degli accadimenti nella vita.

Questo è quanto percepisco nelle sue composizioni linguistiche durante l’osservazione dell’azione attraverso l’esercizio del “senso linguistico” in un hic et nunc, o meglio in un hic et post dell’evento.

L’atto iniziale, però, consiste proprio nello scegliere un “posto buono” che impone una decisione con cui osservare, riflettere e narrare il divenire col tu, durante il manifestarsi della riflessione che determina il tempo linguistico dell’io senziente.

Il tu è uno schermo linguistico dell’io attraverso cui quest’ultimo può condividere con altri l’insensatezza della propria vita?

O è invece alla divinità greca del Kairos, il figlio più giovane di Giove, che è la personificazione del “momento opportuno” a cui Eva Rachele abbandona la guida delle proprie esperienze e del proprio intervento linguistico-proposizionale?

La decisione iniziale di abbandonarsi al dio Kairos l’ha indotta poi a scegliere e a comprendere in che modo nel linguaggio potrà probabilmente seguire e svilupparsi quella sua azione conoscitiva “bella e possibile” attraverso l’analisi dell’evento che nel linguaggio filosofico e poetico è divenuto racconto.

Credo che solo in questo modo si può comprendere come nel linguaggio possa emergere quella sua eutopia che svelerà dapprima a se stessa “un senso” attraverso il rinvenimento di consonanze dialogico-linguistiche col “proprio” tu.

Il fine sarà sempre: quanto nella riflessione linguistica le è concesso di conoscere, percepire e guardare dopo quel fuggevole attimo di presente “vissuto” e a cui bisogna dare, da letterata, “senso” per mezzo di processi dialogico-linguistici con cui si costruiscono ponti che possono congiungere in sequenza ogni accidente della vita?

Nella narrazione dell’azione Eva Rachele perciò vi partecipa anche con la sua visione di realtà, che è il racconto di un “sentire qui e dopo col linguaggio”  ̶  (ma sarà forse proprio questa sua riflessione linguistica che, non potendo e volendo fare esperienza di un altro presente sensitivo, la induce a  “sentirsi” e a raccontarsi dal suo “luogo di conoscenza eutopico”? Da quel “posto buono”, da quel “luogo” per lei voluto dal dio Kairos, che giunge sempre al “momento opportuno”? Solo così forse può raccontarsi e raccordarsi dopo l’evento e dare un “senso linguistico” all’incontro e alla condivisione con l’altro (da sé o sé), il quale osserva con la riflessione ciò che ha percepito nel e col linguaggio? Ma forse ciò che partecipa alla riflessione linguistica è solo il voler condividere la condizione di un comune stato di vivente? Col “senso” da dare all’hic et post?.

Sembra che ella operi come se il suo sentire dovesse raccontare gli eventi del mondo dal punto di vista di una “cosa in sé” ma allo stesso tempo deve produrre un modello di racconto proposizionale con cui entrare in consonanza con tutti gli altri “se stessi” che osservano o entrano in consonanza con gli eventi nel qui e dopo.

Il posto buono occupato da Eva Rachele Grassi poetessa filosofa da cui osserva il dramma (qui inteso dalla radice del greco dran = agire, azione) della vita impone, perciò, nei suoi componimenti linguistici la ricerca di rinvenire insieme a un tu quella condivisione di una esperienza e di una conoscenza che si suppone sia originaria, e che indirizza gli eventi percepiti verso un fine linguistico. Ma può un presente che sfugge all’analisi dell’istante qui e ora apparire come una delle tante narrazioni linguistiche, una tra tante filosofie di esperienze che cercano una propria consonanza da condividere?

Ecco che nell’ambito del linguaggio si genera una riflessione utopica, che viene dopo l’azione e l’esperienza, ma che dà compimento metafisico e personale a una qualsiasi forma del raccontare.

La poetessa filosofa trasforma, così, l’azione presente e l’esperienza quotidiana in narrazione  mito-poietico che ha bisogno di connettersi con il linguaggio a un’origine e a un fine; sia quando questa origine la si fa risalire ai rimandi misterici originari, o a un’immagine simbolica di un mito ancestrale, giusto per rivestire di nuova luce gli eventi e i fatti attuali che ella riscontra nelle relazioni contemporanee a partire sempre dal luogo “eutopico” (qui nel senso di “posto buono”) prescelto dal dio Kairos, che sopraggiunge sempre come “momento opportuno”.

La scrittura di Eva Rachele Grassi, pertanto, possiamo definirla una ricerca sulla profondità della riflessione con la scrittura sull’uso del linguaggio. Questa azione ha origine ogni volta dopo che ella ha individuato il suo posto buono; dal quale prende le mosse la sua riflessione linguistica dell’azione tra favola, mito e mistero, che è influenzata anche dalla consonanza con un tu che si confronta e si annoda nel dialogo a un io che osserva e s’interroga (e che la poetessa filosoficamente poi definisce “nessunale”).

Le relazioni che producono gli eventi hanno una vita dinamica che non impongono giudizi contingenti ma sono solo formativi e utili a ricostruire un probabile suo mondo metafisico, a cui solo lei può attribuire nella lingua quei suoi eterei ma profondi valori di intima verità che prendono le mosse sia dal rapporto io/tu, significato/significante, che col le filosofie del mistero o del misticismo, o più in generali metafisiche.

L’interrogarsi nel linguaggio, per Eva Rachele, ha quella funzione di creare quei nessi con cui l’evento si fa storia ed esercizio linguistico; mentre ella poi è intenta a ricercare anche un’origine che la possa connettere a “quel posto”, a quell’”occasione” (o “momento opportuno”), da cui emerge la sua filosofia della conoscenza attraverso la condivisione.

Sia la conoscenza che la condivisione nel racconto linguistico hanno una profonda relazione col tu e con le altre esperienze del raccontare.

Emerge sempre un senso profondo del vissuto che viene affidato alla forza evocativa di un sogno proprio a partire dall’eutopico prescelto e manifestato come se fosse un’occasione, o kairos coevo.

La sua ricerca di filosofia e di poesia è un reiterarsi di un metodo, a cui ora si aggiunge un altro elemento.

Dentro questo mondo letterario costruito su abissi e nessi la cui interpretazione è il pre-testo di una collazione di eventi che Eva Rachele Grassi sta vivendo, ha vissuto o ricorda mentre annota e scrive, per disseminare di poesia la sua storia quotidiana… di un “sentire col linguaggio” che nel tempo è diventato presenza nessunale, ma che collaziona ancora fatti raccontati e analizzati col linguaggio sempre da quel buon luogo di osservazione prescelto da un dio, e con cui al “momento opportuno” si raccorda col tu nell’esercizio di una narrazione costruito con un linguaggio che nel tempo scandisce sequenze proposizionali.

La sua scrittura attraversa ora il divenire, il sogno, la realtà o “la cosa in sé”, della scrittura contemporanea senza porre differenza alcuna.

Ogni volta ella sceglie il suo posto buono da cui risalire a una conoscenza metafisica o mistica.

Il suo linguaggio si muove verso la ricerca di una affabulazione incantata, generativa di un’origine vincolata a quell’azione, il cui superamento è un reale che cela miracoli e misteri.

Nel XX secolo c’è stato un filosofo che ha fondato sulla indeterminatezza la sua estetica e filosofia. Infatti, nell’indeterminatezza iniziale Essere e Non ente per Martin Heidegger coincidono. Non si può ora che sottolineare che da allora il Non ente sia diventato il collegamento possibile, con cui si possa entrare attraverso lo stato di indeterminatezza in consonanza.

In questo modo sembra che Eva Rachele Grassi cerchi ancora la propria originalità nei termini proposizionali che collegano e creano nessi nella sua metafisica della parola sempre secondo la scelta di una eutopia con cui trovare connessioni col tu  ̶  e non più col Non ente originario  ̶ . Sebbene questa volta sia l’io che il tu partecipano alla vita come  io e tu  “nessunali”.

Si trova così a scrivere della scelta della sua dimensione di vita: quella che altri filosofi da lei studiati potrebbero definire la ricerca senziente di un’essenza che è presenza solo come residuo, come ad esempio l’esser-ci nel linguaggio.

La parola il linguaggio e l’essere nel suo divenire continuano imperterriti a cercare per ognuno il proprio luogo eutopico da cui raccontare con distacco ciò che “si sente” con quella metafisica minore generata dalla parola significante/significato e dal proprio sentire estetico. Ma chi è che sente nel “sentirsi nessunale”?

Qualsiasi principio, che potrebbe essere valido in ambito morale ha solo il riconoscimento di una realtà eutopica, ovvero esso è indipendente da una qualsiasi interpretazione.

Eva Rachele scrive solo da quel proprio luogo buono, bello e vero (in quanto per il mondo greco il buono, il bello e il vero coincidono nel “sentire”). Ella è cosciente anche che il principio di ogni vivente trova il suo fondamento teorico nella scrittura che media tra l’io e tu, o nel suo punto di vista direbbe Gilles Deleuze.

Il mondo esterno, sebbene riconosciuto come inemendabile, insieme al rapporto tra schemi concettuali ed esperienza sensibile  ̶  (l’estetica, in questo modo è riportata al suo significato etimologico del 1750-58, di “scienza della percezione sensibile”, e di “metafisica minor”,  così come fu enunciata da Alexander Gottlieb Baumgarten)  ̶  acquisiscono ora una rilevanza primaria nelle connessioni poetiche col tu che si traducono anche per Eva Rachele Grassi in rilevamenti di modelli linguistici costruiti su sequenze proposizionali.

Rinvengo questi suoi presupposti teorici in una intervista rilasciata da Eva Rachele Grassi a Laurent Monges Chevalier, che a me sembrano vicini alla “ontologia critica” di Maurizio Ferraris specie quando questi riconosce al mondo della vita quotidiana una impenetrabilità, se si analizza questo mondo per mezzo di schemi concettuali.

Il mancato riconoscimento di questo principio quasi sicuramente può essere fatto risalire alla confusione tra ontologia (la sfera dell’essere) ed epistemologia  (la sfera del sapere), di cui Ferraris articola un’analisi critica che trova il suo fondamento proprio in quel carattere di inemendabilità, che è proprietà dell’essere rispetto al sapere. La riflessione ferrarisiana sul realismo trova il suo compimento nel 2011, nel Manifesto del New Realism.

Nel frattempo Eva Rache Grassi fa derivare la sua presenza realistica dalla visione metafisica del proprio esser-ci con uno sguardo “nessunale”; che sebbene questo sia sempre una presenza di un “qualcuno” viene percepito e raccontato come la costante nientificazione del proprio io, del proprio piano di realtà, e probabilmente anche del tu.

L’io e il tu vivono per indeterminatezza nessunale, per dirla alla Heidegger.

In molti casi l’io è costretto a sdoppiarsi, persino a moltiplicarsi, per raccontare e raccontarsi come tu (o molti) dal proprio punto di vista eutopico che include sia il “luogo buono” che il “momento opportuno”.

Questo riferimento allo stato eutopico dura una composizione filosofico-poetica perché nella narrazione degli eventi il lettore è indotto a raggiungere talvolta quella condizione di vaporizzazione, che non credo sarà mai annientamento della realtà, anzi tutt’altro; in quanto lo scavo profondo di una scrittura riflette sull’evento e su altri modelli di sentire che nel nostro caso propone innanzitutto la ricerca di consonanze.

Il linguaggio filosofico-poetico di Eva Rachele anela a esprimere e ad esperire una forma di amore verso la vita; ovvero, verso un tu che nella letteratura ha modo di rappresentarsi e realizzarsi in tutto ciò che è “possibile e impossibile”.

Il modello da seguire è sempre deciso dall’interpretazione dell’io, anche se lo si vuol considerare “nessunale”; oltre al fatto che gli eventi appaiono semplici manifestazioni dell’occasione, del kairos, inteso qui solo come miriadi di evocazioni ma non del tutto riconducibili al dio Kairos. E allora chi organizza gli eventi e ne traccia il percorso di un ritorno al metafisico, al misterico o al mistico?

Ogni principio di realtà si unisce in modo innovativo al principio di piacere e di verità determinati dalla scelta, in Eva Rachele Grassi, che si presenta ogni volta con un proprio sguardo “eutopico”.

Da qualsiasi sequenza proposizionale emerge il racconto dell’autrice che va ora osservato individuando l’indicatore caratterizzante quello “stato d’esser-ci”; per cui andrebbe anche ricercato e contestualizzato quali siano stati gli elementi scatenanti quella visione hic et post. Se anche lo si facesse il suo nessunale comunque rimarrebbe “inemendato” come suggerisce la filosofia di Ferraris.

Eva Rachele è un’autrice dalla scrittura non semplice; infatti, ogni volta sebbene colga un aspetto dei propri meccanismi psichici, evidenzia nello svolgimento della narrazione come non sia importante una delle tante frammentazioni generate dal suo stato d’esser-ci, ma ciò che emerge è quel suo potere della trasformazione in riflessione metafisica degli eventi narrati attraverso il linguaggio, dopo la scelta sempre di un posto buono sebbene sia diventata occasione da cui narrare e trovare consonanze col tu nella modalità nessunale.

Un tu e un io si cercano ora con la cifra del “nessunale” e di “tutte le possibili” emergenti nuove forme di racconto.

Credo che ella abbia letto anche il linguista  Roman Jakobson che ci ha permesso nel 1974 di coniugare in modo diverso l’arte verbale con la poesia, insieme poi allo studio dei segni.

Inoltre, credo che lo studio delle opere del linguista Jakobson abbia potuto suscitare una certa influenza sulla formazione della nostra autrice.

Non a caso la sua formazione è stata indirizzata ad abbracciare vari campi come la sociologia, la psicologia, la filosofia e la psicoanalisi, indicative sono le due lauree conseguite.

Sicuramente questi suoi studi l’abbiano indotta a interessarsi  di quella simultaneità dinamica presente nella scienza semiotica di cui Jakobson è stato uno di quei padri fondatori nel dopoguerra.

Il suo approccio strutturalistico del linguaggio era già annunciato durante gli anni giovanili di formazione e di studio di Eva Rachele Grassi.

Non dimentico, del resto, che Jakobson in quel periodo degli anni ’70 era conosciuto nell’Università di Salerno, luogo di formazione di Eva Rachele, e veniva studiato spesso in vari corsi insieme al testo Morfologia della Fiaba di Vladmir Propp.

Inoltre credo che sicuramente la nostra autrice abbia avuto sentore che, in quegli anni, oltre alla semiotica comunicativa un’altra semiotica, matematica, si stava affermando.

Fu così, immagino, che ella abbia iniziato a prendere coscienza nella società di quel nuovo modo di intendere la semiotica che iniziò ad affermarsi e a differenziarsi già a quel tempo e che prevedeva il passaggio da una semiotica dei segni comunicativi alla semiotica cibernetica dell’informazione (fondata sui calcoli della teoria dell’informazione 1948).

I segni linguistici della cibernetica già allora si presentavano di natura totalmente diversi nella struttura e nella logica di connessione e di trasmissione rispetto a quegli altri segni convenzionali che venivano desunti dalla comunicazione linguistica umana o animale.

Da qui quei due aspetti analitici della semiotica: da una parte l’aspetto tecnocratico e dall’altro l’aspetto progressista.

Il progressismo della semiotica introduceva allora nello studio dei segni una visione utopica, come fine da raggiungere nella significazione.

L’utopia del segno di Roland Barthes (già annunciato nel primo convegno internazionale della semiotica tenutosi a Milano nel 1974) porta alla constatazione di una metodologia del racconto che ha fondamento sul desiderio.

E molto del desiderio nessunale” della filosofa del linguaggio Rubina Giorgi, della quale è stata allieva Eva Rachele Grassi, si “sublimò” a quel tempo nelle successive pubblicazioni degli Esercizi, che anch’io ho letto e interpretato come “gioco letterario” di un io filosofico che si annichilisce sovrapponendo piani interpretativi nella ricerca linguistico-proposizionale attraverso la scrittura.

Già prima della pubblicazione de “La Società della mente” (1989) Marvin Minsky, matematico e fautore della complessità della mente, andava illustrando la sua teoria sulla “molteplicità di io” a fondamento di ogni struttura o rete di relazioni cognitive costituita da ogni individuo e da cui emergono ogni volta delle relazioni tra cognizioni.

Queste cognizioni, che non sono altro che modelli per sistemi operativi applicabili agli eventi, possono essere affidate anche a un sistema di analisi dei segni logico-matematici prodotti e trasmessi come informazione elettronica nel linguaggio della elaborazione delle macchine.

Credo che da questo modello trasferibile di un punto di vista logico-matematico sia nato l’interesse di Eva Rachele Grassi per l’organizzazione informatizzata dei messaggi che portarono alla sua pioneristica organizzazione della manifestazione Semi di Luce.

Qualche decennio prima a Semi di Luce si era celebrato anche il primo convegno sulla semiotica nel 1974 a Milano.

I risultati della maggior parte dei congressisti andavano “contro l’annichilimento dell’io”, anzi: qualsiasi “io” presente in sé, nella sua relazione comunicativa, instaura un rapporto con una struttura cognitiva e segue uno svolgimento cogliendo un aspetto retorico (o anche di significato/significante linguistico) degli eventi durante la narrazione, sia per quanto riguarda l’interpretazione metafisica sia come meccanismo che mette in moto il desiderio. L’interpretazione invece auspicava che si giungesse a una “oggettività” interpretativa.

Credo che risalga ad allora la decisione mediana di Eva Rachele per quanto riguarda la scelta della sua ricerca attraverso il linguaggio, specie in che modo questa dovesse emergere dal suo punto d’essere nessunale.

Nel suo intento si dovrebbe costruire una relazione tra il proprio io nessunale indeterminato e fare in modo che sia consonante al tu nessunale indeterminato. Questo dovrebbe avvenire sempre dopo la ricostruzione proposizionale (o linguistica) che impone la riflessione dopo l’evento, a cui si partecipa con una inemendabile riflessione. Per quanto riguarda le interpretazioni possono anche attraversare più approfondite analisi che vanno da quelle filosofiche, a quelle sociologiche, psicologiche e linguistiche, …, fino alle valutazioni monetarie ed oltre. Bisogna essere coscienti però che qualsiasi modello proposizionale e logico adottato può subire altre continue modificazioni, in quanto tutte le analisi sono il prodotto di riflessione proposizionale che ha radice sempre in nessunali indeterminazioni.

Facendo in modo che, forse, neanche nessuna delle due forme di interpretazioni semiotiche fosse assertiva a tal punto che potesse prevaricare l’altra.

Da questo modello indeterminato la sua struttura di narrazione può essere ricomposta di nuovo e manifestarsi ogni volta secondo uno schema aggiornato.

Si può passare attraverso il ricordo o la percezione di un frammento di vita vissuta, che sebbene possa evocare o nascondere un desiderio, questo va superato per la ricerca filosofica di un linguaggio nessunale, dove non esiste un tempo dinamico, perché esso (tempo) ha radice solo nella verità di un’origine metafisica, o della personale conoscenza ontologica.

Ciò che invece propone la nostra Autrice sono equilibri precari, consonanze momentanee e relative in continuo divenire.

Da queste riflessioni potrebbe essere emersa la convinzione che qualsiasi desiderio o evento o percezione o verità o sapere trova sublimazione  (o si stempera) nella forza di raccordare linguisticamente il suo “io-nessunale” a un qualsiasi principio metafisico della realtà, basta che produca quella visione eutopica e di inemendabilità, che, ripeto, è proprietà più dell’azione dell’essere che del sapere.

Bisogna però fare ancora uno sforzo: trovare nel racconto linguistico degli eventi consonanze col tu; ovvero che le cose accadono anche con la partecipazione di quella parte dell’io che osserva e che è guidato sia dal dio Kairos che dall’occasione prodotta dal caso nel divenire degli accadimenti. Questa accettazione del caso, anche se provocato in modo inconscio, si può rinvenire nello Zarathustra di un altro poeta-filosofo di fine Ottocento, Friedrich Nietzsche, nella celebre locuzione “non così fu ma così volli che fossi”; questi è anche ricordato per aver permesso a Sigmund Freud, attraverso Georg Groddek, di assumere il termine ES per indicare l’“energia pulsionale” o la forza vitale.

Credo, pertanto, che il significato indicatore della ricerca di questa filosofa della parola, attraverso lo svolgimento di una narrazione poetica sia che coinvolga la fantasia o il ricordo o la verità o il proprio corpo, trova la sua origine non nell’identità o in un pensiero o in un essere narrante ma nel “sentirsi-nessuno”; in quanto l’uomo è spinto da forze pulsionali, che poi con la mediazione del linguaggio si possono analizzare secondo delle decisioni preordinate o variabili, subite o provenienti da intenzioni originarie, da uno o più punti di vista, ma che per lo più sono relegate e represse in modo diverso dai vari meccanismi psichici  che formano le tante coscienze dei vari Io presenti in sé, negli altri e nei diversi ambienti relazionali di un’epoca.

Il linguaggio lo possiamo considerare un intermediario comunicativo che fornisce all’analisi \ dei fatti altri percorsi indeterminati e arbitrari con cui un qualsiasi osservatore può riconosce una molteplicità di schemi e di modelli costitutivi di realtà. Allo stesso modo si potrebbe frapporre nella riflessione un’altra mediazione tra un io e un tu, o un io e la molteplicità di altri io presenti in un ambiente relazionale. Ma c’è di più nel linguaggio possono emergere anche desideri inconsci, repressi, non controllabili dalla nostra coscienza nel mentre si dialoga col tu. Comunque quando s’interviene ad analizzare l’evento, quando si trova e si trasmette un proprio percorso di analisi attraverso il linguaggio avviene solo per trovare proprie consonanze e divergenze con il fatto osservato da un altro punto di vista.

Nelle consonanze si trasmettono anche i motivi attraverso cui gli eventi sono sempre considerati lontani dalla “cosa in sé”, che in quel contesto è diventato significato nascosto o latente.

Questa distanza/vicinanza che interviene dopo col linguaggio ci fa affermare che anche nella ricerca della filosofia del linguaggio attraverso il “nessunale” c’è una parte di verità indicibile, che si ripresenta ora sotto altra veste del mistero della scrittura, ad esempio come linguaggio “rimosso”.

La posizione di Eva mi fa pensare che ella abbia fatto trasmigrare nella sua scrittura poetica il pensare che il racconto sia composto su differance (Jacques Derrida).

Non a caso non potendo emettere alcun giudizio critico sugli eventi e né assumere una posizione, essendo ella dichiaratosi nessunale, il centro della operazione di trasformazione degli eventi in narrazioni poetico-metafisiche di Eva Rachele Grassi è diventata l’eutopia, un “luogo bello e possibile” che trasforma l’evento in una verità non condivisibile se non con il mistero o il misticismo o la metafisica, oltre per chi vuole ricercare nel “rimosso” del linguaggio dei segni di meccanismi psichici.

La parola deve condurre la conoscenza verso questo luogo, o almeno indicarne le tracce che determinino delle consonanze di movimenti energetici tra un qualsiasi io e un qualsiasi tu nel e attraverso il linguaggio.

Del resto il “vissuto” si compone ogni volta in uno svolgimento di un racconto poetico la cui tensione è rivolta verso un’origine da cogliere col dire non dicendo di un qui e ora osservato in uno spazio-tempo relativo insieme all’ambiente relativo e all’analisi osservata attraverso i collegamenti.

Le riflessioni filosofiche della Nostra autrice sebbene prendono le mosse da un ideale o da una visione fantastica, o da un desiderio verso un oggetto che potrebbe avere oggi anche le sue origini nel simbolico e nella psicoanalisi, però, caratterizzano ogni sua storia quando questa è letta come unità di racconto che ha radice nella memoria che tende a un’origine linguistica, metafisica, o meglio percepita attraverso una “eutopia” che muove ogni volta verso un luogo per trovare delle consonanze col proprio tu.

Possiamo dire che la poetessa Eva Rachele Grassi nei suoi scritti utilizza la filosofia della decostruzione di Derrida? Questo suo modo di operare nel poetico che si manifesta anche come filosofia estetica lo possiamo considerare un metodo?

A molti appare che Derrida nel suo testo Della Grammatologia faccia propria la necessità espressa da Heidegger in Essere e Tempo di de-sedimentare la conoscenza dell’essere da tutte le incrostazioni che si sono costruite intorno ad esso nella storia del pensiero.

Derrida afferma che è sua intenzione procedere in questo percorso non in senso storico, ma strutturale.

La decostruzione si comporrebbe di tre fasi: l’epochè, la differenza e la dialettica.

L’epochè, o sospensione del giudizio, è posta in senso morale, assiologico. L’interruzione del giudizio c’impedisce di considerare in modo diverso le coppie concettuali su cui è basato il pensiero occidentale, come, ad esempio, bene/male, anima/corpo, ecc., come già affermava Friedrich Nietzsche. La differance invece ci invita a sostituire un termine all’altro, non annullando la differenza. La differance è qualcosa che unisce i due termini e  li tiene insieme in modo dialettico, in una dialettica senza una fine. Perché la differenza, è differance, cioè un insieme di differenza e differimento, rinvio, nel tempo. Derrida, sostituisce alla parola francese difference il termine  differance, cambiando la e in a.

Le due parole sono omofone; però si presentano come un inganno per l’uditore e il ricercatore metafisico. Da ciò emerge anche la polemica sulla linguistica rivolta a Ferdinand de Saussure.

In queste considerazioni sembrano consistere, in modo sintetico, le convergenze tra il pensiero di Eva Rachele Grassi e la lettura del pensiero derridiano, che riguarda in effetti la critica al logocentrismo/fonocentrismo della filosofia occidentale.

A questo punto non importa se per altri il “nessunale” potrebbe essere travestito da uno stato d’essere negato, o se quella narrazione potrebbe essere indagata come la sublimazione freudiana generata da un desiderio di realtà o di piacere.

Tutto l’apparato morfologico e narrativo della scrittura di Eva Rachele Grassi sembra che possa dare all’autrice, prima che al lettore, una nuova interpretazione utile a trasformare o spiegare o dare un senso a quella condizione di oblio che appare oggi comune a tutti coloro che si sentono imprigionati in una routine quotidiana superficiale, menzognera e consumistica.

Del resto già al primo apparire questa operazione è stata attribuita all’intervento devastante dell’organizzazione sociale operata sul simbolico.

Il fine di questo tipo di organizzazione è quello d’inglobare, fagocitando, tutte le interpretazioni degli eventi della vita riducendoli alla ricerca di un desiderio. Si è lucidamente affermato che il desiderio può essere soddisfatto quando gli umani possono acquisire e possedere un banale segno simbolico; questo segno trova il corrispettivo nella sua sublimazione e nella traslazione sessuale. Il desiderio costruisce feticci e simulacri. (Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, e Simulacri e simulazioni).

Le produzioni poetiche di Eva invece hanno abbandonato e per molti versi la giusta critica sociologica dei segni di Baudrillard perché la sua filosofia e il suo approdo provengono dal mettere in guardia del possesso di falsi oggetti,  dei non-luoghi provenienti dal desiderare oggetti reali che possono soddisfare il possesso anche dell’utopia.

Raccordare il proprio passato alla condizione attuale attraverso il filo sottile del racconto produce ogni volta delle efflorescenze “rizomatiche”; che sicuramente sono state care agli studi di Eva che ella deve aver assimilato specie attraverso quella macchina da guerra teorica enunciata nell’opera Rizoma da Gilles Deleuze e Pierre-Félix Guattari. (Non frutti prodotti da alberi “genealogici” con radici ma radici che sono già frutti).

La mappa psichica che consegue da questi studi perciò lascia trasparire nelle composizioni di Eva ogni volta anche una delle sue tante condizioni (o efflorescenze rizomatiche) d’essere un esistente che attraversa questo tempo occupando e narrando con la scrittura ogni volta da un luogo, che è il proprio posto buono e occasionale da cui osservare e narrare insieme a un tu formando un momentaneo  linguistico-filosofico insieme nessunale.

Attraverso le storie poetiche il lettore può assistere al comporsi e decomporsi delle diverse visioni dell’io, le quali rivelano ogni volta una scelta verso cui il segno indicatore indirizza quel suo racconto utopico che ha come fine di stemperare le distanze e le opposizioni pur lasciando le differance, e dove l’analisi della sessualità non è affatto il segno predominante.

Ci troviamo non più nell’inevitabile luogo di un conflitto  tra la manifestazione o l’insorgenza e la realizzazione di un desiderio e le conseguenze che questo comporta.

Eva stempera tutti i conflitti nella consapevolezza che i fatti accadono e dove per scelta il poeta-filosofo deve assumere la condizione “d’essere nessunale” e parteggiare per ciò che va sempre oltre i fatti o le motivazioni personali contingenti.

Ella è cosciente che il kairos, l’occasione, è un elemento cardine della filosofia e dell’arte dei situazionisti che fanno dell’evento-performance il loro modo di intervenire modificando i segni linguistici (Guy Debord, La società dello spettacolo).

Ecco come appare quel suo processo originario modificatosi nel tempo, che induce la poetessa filosofa a una riflessione e trasformazione metafisica della scrittura, che in lei va oltre il desiderio del mascheramento psicanalitico;  e la sua dialettica linguistica si svolge oltre il desiderante/desiderato o il significante/significato del linguaggio: e allo stesso tempo ha radice coeva nell’insieme e nella differance.

Non a caso solo nelle variegate scelte, verso cui s’indirizzano le narrazioni poetiche delle sue composizioni, può emergere la decisione filosofica di quel transitare nell’“esser-ci nessunale”.

Proprio con questo (transitare) ella partecipa a un racconto “sentendosi” sospesa tra un’origine metafisica che include il mito, il mondo dalla favola, fino al già visto e a distaccarsi dalle conseguenze di atti che provengono da lontano, e dall’altra parte il nuovo che impone l’occasione, la performance un linguaggio che tenga conto delle continue riorganizzazioni dei termini uniti con le relazioni nella differance.

In questo modo l’autrice sottende che vi sono alcuni ideali indicatori che caratterizzano le proprie decisioni, e che le fanno sospendere il proprio giudizio critico sugli eventi. Essi divengono sempre o sono in perenne trasformazione nel mondo delle cose.

Questo atteggiamento non importa se proviene da un passato lontano, o da riflessioni filosofiche o da un misticismo meditato e acquisito o addirittura qualche volta da un’altra vita vissuta. Tutto sembra abbia origine nella “grammatologia” della scrittura  come differance.

L’insieme di ideali, di azioni e decisioni fanno emergere nei passaggi poetici dell’Autrice quello stato d’essere; che non è altro quel suo osservare differente, che si è arricchito di esperienze in quel “complesso sistema vivente” che è diventata Eva Rachele Grassi durante il corso della “sua” vita.

Bisogna risalire a questo insieme di azioni formative e costitutive del sistema biologico vivente (Humberto Maturana e Francisco Varela Autopoiesi e cognizione)  tra il razionale e l’irrazionale, tra l’infanzia utopica e la realtà dinamica della vita in continua trasformazione, attraverso cui si organizzano i fatti emozionali e si trasmettono attraverso la scelta tra le varie espressioni proposizionali e linguistiche, che vedono coinvolti sia il mondo fantastico, che quello mistico, insieme a quello filosofico e alle sfere percettive dell’individuale e delle organizzazioni sociali… fino agli studi dei linguaggi tecnotronici.

Del resto il sentire narrativo della disciplina estetica fin dalla sua nascita nel moderno, (Alexander Gottlieb Baumgarten [1750-58], intende l’estetica come conoscenza sensitiva, gnoseologia inferiore, metafisica minore, arte del pensare in modo bello, …)  permette ad analizzare e riflettere sul linguaggio e sulla scrittura attraverso l’organizzazione dei modelli di racconto, e su quanto congiunge o viene posto con le differenze tra il mondo alto della metafisica filosofica e quello “del sentire” con la metafisica minor, o artistico-poetica.

Da queste considerazioni sui fatti proviene anche quella scelta di “condizione d’essere eutopico” che racconta di tanti “momenti opportuni” che hanno imposto ad Eva nel tempo di rivestire la sua ricerca sul linguaggio di quell’io e di quel tu “nessunali”.

Ella quasi contestualmente scrive una propria “cronaca” interpretativa dei fatti. Decide del loro apparire con la loro origine proposizionale, con cui trasforma l’evento in un racconto.

La traduzione linguistica dei fatti a cui si assiste diventa un insieme  interpretato secondo una serie di sequenze proposizionali o slegate tra loro che ora seguono l’interpretazione o l?analisi di un percorso linguistico  di “senso” nella scrittura.

Le proposizioni si flettono e riflettono, poi si legano, alle osservazioni o a una narrazione secondo una propria logica dei fatti, percepiti e raccontati secondo la scelta di un modello poetico-estetica.

Si collazionano inoltre nel “sentire” e nell’”osservare” le reminiscenze ai segnali utopici, o le emozioni possono entrare in relazione con gli impulsi di desiderio; ma si possono anche evocare fantasie mitiche che trasformano gli atti in proposizioni sequenziali che permettono di mettere in relazione eventi riconosciuti  alle esperienze poetiche del passato o di un’origine sessuale o mitica o mistica o ontologica…

L’importante è che l’azione segua le peripezie e il pathos della narrazione logico-emozionale della seduzione della parola. La storia può seguire i canoni della poetica e dell’oratoria  in modo che i fatti si possono rilevare sia da un buon luogo e sia si possa intendere che siano costituiti anche da tanti “momenti opportuni”.

Ogni luogo buono produce sempre un segno originario di riferimento a cui si affianca una parola generatrice di un significato/significante dal quale procedono poi le varie altre differance che seguono e generano  e danno un ordine sequenziale sia agli eventi proposizionali narrati e sia alla forza oratoria seducente che è riscontrabile nel racconto.

Del resto un qualsiasi significato/significante a chiunque potrebbe apparire già come la descrizione di un’origine che trasforma nella cronaca le proposizioni di un “esser-ci” in uno stato “nessunale”.

Questo stato prodotto dal “sentirsi” “nessunale” include ancora una metafisica dell’esperienza attraverso il raccordo linguistico della parola nella scrittura.

La scrittura traduce nelle proposizione i fatti seguendo la logica del narratore.

In questo modo l’“Essendo-ci nessunale” di Eva Rachele Grassi trasforma la serie e la sequenza delle proposizioni in una cronaca metaforica e poetica della sua vita mentre cerca l’origine di una indicibile e indecidibile verità dei fatti  osservati con un linguaggio “bello e possibile” di un’eutopia, ovvero da un “posto buono” o che si manifesta in un “momento opportuno”, o per un’”occasione“ specie quando ella costruisce nessi decostruendo differance.

Avendo sempre presente quanto Ludwig Wittgenstein ci ricorda nel suo celebre Tractatus logico-philosophicus, che nell’organizzare un qualsiasi percorso descrittivo-proposizionale dei fatti innanzitutto bisogna essere consapevoli che “6.54   Le mie proposizioni fanno chiarezza in questo modo: colui che mi comprende, infine le riconosce sensate, se è salito per esse – su di esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo.” Anche perché chiunque accetti questa tipologia di organizzazione del racconto attraverso proposizioni può essere indotto a un’analisi del sentire che possa dare origine a una qualsiasi verità indeterminata, perciò alla fine si potrà solo affermare che “7. Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.

Si può concludere che al di là di un qualsiasi esercizio dei modelli proposizionali anche con l’interpretazione linguistica nessunale degli eventi ci sarà sempre un’altra azione, un altro evento un altro desiderio che cerca e trova le sue consonanze.