E allora contro i padroni della logosfera che, massimamente al presente, abbassano e semplificano il lavoro verbale appiattito sul piano meramente comunicativo, occorre condurre una battaglia poetico-politica da parte degli autori determinati a produrre oggetti linguistici ad alto tasso di espressività, idonei a decostruire i linguaggi del potere, per dare vita ad una verbosfera altra, ossia ad una visione altra del mondo

di Marco Palladini

Con la IA, l’Intelligenza Artificiale facciamo i conti da molto tempo. Essa sta onnivadendo progressivamente la nostra vita, si insinua nel modo di lavorare, nelle forme dello studio e adesso promette o minaccia, a seconda dei punti di vista, di occupare anche il piano della creatività artistica. Questo insieme di algoritmi sempre più aggiornato, istruito e ‘complessificato’ sembra giunto ad una svolta nel passaggio dal ‘machine learning’ al ‘deep learning’ ossia ad un salto quantico-qualitativo nei processi di autoapprendimento del software, oramai in grado di produrre autonomamente il testo di una poesia, di una canzone, di un romanzo, oppure una musica o un quadro.

E già oggi, secondo alcuni, sarebbe difficile, se non impossibile sapere riconoscere una creazione artistica artificiale da una umana. Se ciò è o fosse vero, vorrebbe dire che la macchina ha già vinto, così come la macchina da tempo ha definitivamente sconfitto l’uomo nel giuoco degli scacchi.

Il punto di svolta sembra essere stato a fine 2022 l’installazione sulla piattaforma Open AI (Intelligenza Artificiale aperta) della ChatGPT, acronimo ossia della chat Generative Pre-trained Transformer, che più o meno vuole dire: un trasformatore pre-istruito che genera conversazioni o chiacchiere, che dir piaccia. In pratica si tratta di un modello prototipico di chatbot con cui si può dialogare, previa una iscrizione con credenziali ufficiali sulla piattaforma che richiede agli utenti un chatting costante, una prassi di input/output non epifenomenica, da toccata e fuga. Perché? Ma è evidente, se da un lato Open AI ti dà la possibilità gratuita di interrogare e di parlare con l’Intelligenza Artificiale, dall’altro lato ti chiede di diventare l’allenatore (non pagato) della IA, la quale più viene messa alla prova dagli utenti e più impara, più si istruisce, più si prepara a diventare dominante nei confronti dell’intelligenza umana, sovrastandola anche sul piano creativo e artistico.

E personalmente sospetto che già al presente gli editori della letteratura di genere (dal giallo al noir, dalla spy story ai romanzi rosa, libri per bambini etc.) facciano ricorso alla IA, naturalmente senza dirlo, senza scoprire le carte.

E per quanto concerne la poesia? Innanzitutto, dovremmo domandarci di che poesia stiamo parlando. Asseriva l’illustre filologo Gianfranco Contini che non esiste la critica, esistono i critici. Del pari, da sempre affermo che non esiste la poesia, esistono i poeti. E ogni poeta è chiamato a trovare, a forgiare la propria voce poetica, quanto più inconfondibile e inattingibile. Pure qui dovremmo chiederci di quale poeta stiamo parlando. Già Roland Barthes distingueva tra ‘écrivain’ (scrittore) e ‘écrivant’ (scrivente), e dunque occorre distinguere tra poeti (pochi) e poetanti (innumeri). Tale distinzione è cruciale perché è assai verosimile che l’IA già oggi sia capace di produrre testi poetici equivalenti, assolutamente interscambiabili con quelli di miriadi di poetanti. Diverso è il discorso se ci riferiamo a poeti dotati di una forte caratura espressiva-stilistica e di intonazione sperimentale: cito soltanto, a mo’ di esempio, Emilio Villa, Edoardo Sanguineti, Edoardo Cacciatore, Elio Pagliarani, Gianni Toti etc.

Ecco di fronte ad autori innervati da una ricerca idiolettica di cotanto tenore e fervore, dubito che l’IA possa emulare o simulare una simile ricerca linguistica. Domani non sappiamo. Certo se in futuro una IA istruitissima e letteratissima fosse in grado di secernere uno scritto equipollente ad una pagina di Carlo Emilio Gadda, allora realmente non ce ne sarebbe più per nessuno.

Tutto questo ci inquieta? Probabilmente sì, ma più che limitarci ad essere preoccupati, dovremmo occuparci di tale questione. Già Arthur Rimbaud proclamava: je est un autre. Io è un altro come l’IA è l’altro da noi, ci rispecchia e ci concerne. Diciassette anni fa scrissi un saggio poi incluso nel libro collettivo curato da Cesare Milanese La letteratura nell’era dell’informatica (2007), in cui ci si interrogava sui nuovi orizzonti della scrittura nel tempo del cyberspazio (termine coniato da William Gibson, l’autore di punta della ScienceFiction cyberpunk), quello in cui noi tutti oggi, nel XXI secolo,abitiamo/navighiamo esibendo una doppia identità, reale e virtuale. Un quesito a cui provavo a dare molteplici risposte di dialogo e interazione con la macchina che qui voglio richiamare.

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1  «Nei testi capitali di Joyce e Kerouac, nei loro impetuosi, inafferrabili flussi di coscienza (ed incoscienza), mi sembra di vedere l’incombenza e l’incontinenza di una ‘machinazione’ letteraria incline ad un moto perpetuo, ad una interminabile linea spiraliforme dove le “ombre delle idee”, per dirla con Giordano Bruno, onnivadono uno spazio atopico e metatemporale e pur tuttavia globale e globalizzante che è già, effettualmente, quello del Web. Il medium letterario anticipa qui l’attualità mediatronica, l’esaltante e insieme frustrante realtà della Rete, la sua “sterminabile interminabilità”, la sua s-terminata logica puntiforme che tutto ragguaglia e tutto evidenzia, che tutto occulta e tutto rispedisce in orbita. A quest’altezza la sfida del logos poetico non è un anacronistico rincantucciarsi e risognare idillici canoni retrò o elegiaci orizzonti, bensì un diacronico modularsi e rimodellarsi per empatia e sinergia, e sempre in periclitante, precario equilibrio, quasi come spericolati surfers pronti a brillare sulla cresta spumosa del cavallone, un attimo prima di essere definitivamente travolti dall’onda del Grande Nulla.»

2  «Come assevera Gabriele Frasca l’odierna moltiplicazione dei ‘media elettrici’ si accorda perfettamente e amplifica le nuove o, forse, neo-antiche forme di oralizzazione letteraria, senza che questo, tuttavia, possa minimamente significare il ritorno alla figura dell’aedo, cioè ad una funzione epicizzante e di memoria mitopoietica di una comunità. Ciò è, piuttosto, in linea con la ricerca di una ‘emozione’ psico-culturale che connota l’attuale passaggio di Zivilisation in cui l’Homo Videns et Audiens sta nuovamente prevalendo sull’Homo Legens. Il che significa, appunto, che gli elementi sensoriali, psicoattivi ed emotivi del fare arte tornano in primo piano rispetto a quelli meramente concettuali ed intellettuali. Se l’oralità non può più veramente essere veicolo di esperienza auratica ed estatica, è nondimeno sicuro che la “presenza della voce” (vedi Paul Zumthor) è un plusvalore potente dove la parola si fa corpo e fiato, si ‘presentifica’ in respiro interpretativo e pneuma culturale, che poi il medium elettrico e tecnologico transcodifica secondo le iperfetazioni assiologiche costitutive della corrente civiltà di massa.

So bene che tutto questo non è privo di effetti sulla ontogenesi della scrittura. Anzi la tecno-oralità poetica implica il riassumere modalità compositive per una testualità che si configuri come partitura ritmica, con dispositivi di costruzione − dall’epanalessi all’anafora, dal catalogo allitterante al refrain in rima − che privilegino i valori sonori, di impulso al canto (oltreché, padre Dante ci cova, alla cantica). Io stesso inclino sempre più verso la ricerca di una poesia-canzone dove lo spessore e l’articolazione di una parole letteraria si innesti e si svolga secondo le scansioni e i tempi percussivi di una langue musicalizzante, di sensibile impatto fisico-lirico. L’idea di una “poesia da ballare” suppongo avrebbe fatto inorridire i nostri letterati ‘santoni’ dello scorso secolo − penso a un Montale, un Sereni, un Luzi, ma forse sarebbe piaciuta ai Futuristi marinettiani e, magari, pure al vate D’Annunzio, assai meno conformista di come l’ha dipinto una certa vulgata. Ma oggi nell’era dell’hip-hop e del multiverso videomusicale, l’ipotesi o meglio il progetto di una dance poetry è nelle cose, pompa diritto nella comunicazione vieppiù brachilogica della gioventù oltremoderna, nei disco-sabba(tici) dei weekend metrosexual e transgender, nel wild bunch dei raiders e dei ravers delle notti bianche o rosse o arcobaleno, nelle orde adolescenti da love-parade affamate di entertainment e salvezza, nello stato interattivo che si propaga nel cortocircuito dei cervelli della planetaria realtà virtuale; è, comunque, all’ordine del giorno − che non ha sette, ma settemila teste e infiniti testi. Che non si rassegnano ad essere “lettera morta”, ma vogliono essere una lettera risorta in ‘melos & mellotron’, in concerto verbale, in parola che suona e risuona come andasse verso l’Origine, verso l’eco primordiale del Big Bang, verso la voce all’alba di tutte le altre voci. Penso allora a Battiato: “E ti vengo a cercare / perché sto bene con te”. Il sacro dentro la macchina è una tensione di assoluta semplicità.»

3  «Costretto, causa la perdita del e di un centro di senso complessivo, alla ingrata psico-esperienza del dispatrio, lo scrittore può rimpatriare soltanto in seno ad una ‘letteratura portatile’ e diasporica, che si sposti ed errabondi con lui, una letteratura idiosincratica e rizomatica, capace forse di esistere, senza consistere in un luogo dell’anima o in un territorio di privilegiate forme estetiche. Una letteratura deterritorializzata e, quindi, in perenne transito, avidamente metamorfica, capace di volgere il vecchio materialismo storico in un sollecitante materialismo stoico. Una letteratura forzatamente perifericizzata e, insieme, potentemente autocentrata e circoscritta che non parla a generiche e generaliste masse di lettori, ma alle varie, specifiche communities psicolinguistiche e psicopolitiche della Moltitudine. Una letteratura in décalage e in surmenage a cadenzare insieme il tramonto dell’Occidente e la definitiva eclisse della cultura umanistica. Una letteratura di vita ‘contemplattiva’ a marcare schizofrenicamente la dimensione plurale di un soggetto in fuga, per il quale fare pratica della (propria) oscenità e mostruosità equivale al proseguimento del sublime con altri mezzi. Una letteratura dell’emergenza antropologica che può trarre legittimità, come dice Peter Sloterdijk, dalla “crescente domanda di prove della propria non follia”. Una letteratura che ha afferrato, heideggerianamente, che la Tecnica è una delle modalità basiche di disvelamento del mondo e, quindi, di fuoriuscita dalla Verità metafisica per entrare nell’autoevidenza biofisica. Una letteratura che, avendo preso non cerimonioso congedo dalla tradizione come Urheimat, si abbandona ad un mondo come immagine e volontà dove tutto si liquefa e si trasmuta, dove ogni termine è un principio, dove ogni infermità crea salute, dove ogni coazione può suscitare détours di libertà. Una letteratura dove lo scrittore homeless e ‘globalnauta’ cerca la forma stessa, intima e maieutica, del suo pensiero, ben convinto che non riuscirà mai a trovarla. Ma sapendo che è in questo immanente e permanente scacco che solamente si può dare il suo autotrascendimento − ovvero la colonizzazione estetica dell’Es da parte di un Ego catafratto, spappolato, diruto, da un pezzo sulla soglia della propria sparizione e, pur tuttavia, resistente e persistente a dispetto di ogni razionale e ragionevole avviso contrario.»

4  «Intossicato dalla seducente ‘vuotità/virtualità’ della Rete il cyberpunk ha ‘westernizzato’, vale a dire banalizzato il conflitto, ovvero la tensione dell’artificiale che decostruisce e riplasma il reale (o meglio ciò che si percepisce come tale), invece di assumerlo e problematizzarlo come movimento e argomento princeps dell’attuale, cruciale rapporto tra Essere, Tempo e Tecnica, come lineamento di fondo della mutazione antropologico-culturale. Una letteratura che si smarchi dalla reiterazione ottusa e per (non divina) mimesis della flatness reticolare, che sappia tematizzare il grande Vuoto delle ombre elettroniche, non è la letteratura che annaspa buttandosi a descrivere la Rete o a scrivere nella Rete. Semmai qui si tratta di scrivere la Rete, ossia di produrre una scrittura come critica dell’economia politico-estetica del cyberspazio. Una scrittura non irRetita, ma altresì compiutamente e responsabilmente cybernautica, perché navigare (nella Rete) è necessario, immedesimarsi o acquattarsi (nella e con la Rete) non soltanto non è necessario, ma è esiziale. Serve allora una scrittura per straniamento, per trasversalizzazione, una scrittura randomizzata e polisemica che riesca a dare un peso specifico ad ogni singolo passo (e contrappasso) nella vuotezza ciberspaziale, ovvero a creare scarti, resti di senso trans-humanista come cellule di intelligenza critica, nuclei di esperienza nel flusso dell’inesperito e dell’incognito. Una letteratura che sappia pensare o ripensare la globalità bypassando l’esasperato frammentismo, l’iperbolica, allucinante atomizzazione del Net, è una letteratura che si mette in crisi denudando la ricerca di riconoscimento e, dunque, di oltrepassamento della propria ‘vuotità’ e smaterialità (pur sapendo di non poter più opporre l’arma tradizionale della verticalità alla hybris dell’orizzontalità).

Versus la compiaciuta neuromantizzazione cyberpunkista, occorre una schizo-letteratura di permanente autocontestazione e polluzione anti-identitaria proprio per snidare e sfidare la falsa coscienza ‘pseudo-liberazionista’ e coattamente agglutinante della folla delle alter-tribù virtuali, degli innumeri focus e communities che vivono o disvivono parassitariamente come isole galleggianti e super-inquinanti della Rete.»

5  «Ragionava il filosofo Mario Perniola su l’indefettibile sex-appeal dell’inorganico. E solo lo scrittore J. G. Ballard, mi pare, ha saputo dare convincente espressione letteraria a questa perfusione di organico e inorganico, a tale compenetrazione di carne e materia, a questo corpo-mondo mercificato, ‘glamourizzato’, pornografizzato, iconizzato in simboli fashion-fetish-fascist massivi e corrivi. La morte è seduttiva, la morte è erotica e dilaga e prolifera, secondo un luccicante spot pubblicitario, nei più sfrenati e fantasiosi e perversi orgasmi bellico-sessuali. Qui tutto appare, e in toto, perspicuo ed enigmatico, palese e criptico, arreso e critico, sovraesposto ed occulto, desituato e topico. Ma una letteratura che non sappia abitare l’immaginario planetario della catastrofe, che non sappia iscriversi e riscriversi dentro le più estreme grammatiche idiolettiche dell’inconscio, lungo le dinamiche trasformazionali del neo-encefalo, in seno alle metastasi isterico-noetiche del post-human, non può aspirare alla sfida di raccontare, spiegare e dispiegare il XXI secolo e il suo incubo. A questa altezza serve una letteratura borderline, in karma-coma vigile e interattivo, capace ossia di cogliere e indagare l’iperfetazione orrorifica dell’immaginario biomorfico e al contempo di rendersi e rendere conto delle proprie medesime pratiche autodegenerative. Una mise en abîme della inafferrabile e molecolare complessità multischizofrenica delle cibermenti conglomerate. E disoccupate dai sogni del passato antropico.»

6  «Il problema è quello di un modello socio-culturale affermatosi in era post-gutemberghiana, col trionfo della letteratura ‘tipografica’ e che si è esaltato con l’avvento di una forma di impresa editoriale che ha coinciso con la presa di potere generale della classe borghese e con la sua autocelebrazione per via romanzesca. Lo smantellamento di un simile coartante modello è, sicuramente, questione di tempo, ma anche di un fare (e saper-fare) letterario che collabori in modo interattivo e reattivo con il movimento della mutazione antropologico-mediatica, con la diffusione allargata di una percettività intensamente sinestetica. Un fare letterario interfacciato, come sostiene Giovanni Fontana, con il ‘corpo post-organico’ e, dunque, capace di agire creativamente in un reale artificializzato o in un artificiale realizzato dove i confini sono stati disintegrati, l’ipertestualità è nelle cose e nel linguaggio informatico basico. La quiddità del mondo si trascende nella sua liquidità, nella continua rinascita della sua prillante, inafferrabile evanescenza.

Slides (a cura di Marco Palladini)

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Sormontando l’antica querelle tra verità metafisica e mera doxa, un poiein letterario in sintonia con questa nuova Koiné deve proporsi una dimensione veritante non dogmatica né oggettuale, bensì all’altezza di una esperienza intersoggettiva. Come mi occorse di affermare nell’introduzione a Resistenze – antologia di scritture polispoietiche (1992): “… la verità è una relazione da creare insieme, è una rete plurisoggettiva cofondante, è un interrogarsi e rimettersi in discussione per costruire tensostrutture comuni di verità, di cognizione in progress del mondo. La verità come ricerca. La verità è nel libero ricercarsi. Dentro il dis-per-currere opzioni, diversità e reciproche alterazioni… intorno a un senso di operatività trasversale, di interattività testuali e lungo l’asse di una sensibilità-sensorialità-sensualità metropolitane. Mobilità sul campo, fluidi collegamenti, giuochi di borderliners, risonanze nelle differenze per un’assunzione di metropolitanità come luogo di elettrostimolo-incontro, di network verbocomunicativo aperto multiparlante policentrico… Nell’era cibertronica delle multipolarità… Resistenze coniuga un sentimento di rielaborazione del lutto con la necessità di una manifestazione ideocritica e polemica verso l’esistente codificata non su a-priori estetico-ideologici, ma su criteri di dubbio ermeneutico e volontà di ri-conoscimento intersoggettivo”.»

7  «Di fronte alla Ragione Digitale, alla Ragione Virtuale, alla Ragione ‘ologrammatica’, quale grammatica della fantasia, quale letteratura di ricerca anti-clichés e ‘de-genere’ è ancora possibile praticare? Forse, soltanto un resto di letteratura, un residuo di arte della scrittura che, come suggerisce il filosofo Slavoj Žižek, sappia progettare la propria auto-decostruzione, sappia decostruire i vettori dell’Io in quanto “centro di gravità narrativa”. Un resto di letteratura per disseminazione quanticamente e qualitativamente instabile che postuli la propria ‘gettatezza’ nel ciberspazio come approdo ad una visione gnostica dell’immateriale. L’essere-nel-cybermondo riconfigura infatti il Dasein, nel senso di un’ekstasis del soggetto nel cuore-testa della Cosa, nella struttura eterica (e magari esoterica) del Ding. Vale a dire che, davanti all’incessante processo di macchine vieppiù pensanti, non basta pensare la macchina, bisogna saper pensare i pensieri della macchina.»

8  «Oggi più che mai, non è in questione l’identità, bensì l’appartenenza, non la scaturigine viscerale e maternale, ma la scelta cosciente e ‘politica’ per un atto di resistenza. Ecco, richiamo di nuovo me a me. Nel volume collettaneo Resistenze 2 – memorie random per il prossimo millennio (1997), ragionavo che “… la persistente ‘resistenzialità’ delle scritture, oltre ogni ideologia e certezza oggi implausibili, sta forse nella fedeltà ad un sentire/sentirsi tanto solivaghi quanto solidali abitanti di una ‘città dei poeti’ intesa come poetrìa, piccola patria e comune semiosfera altra di ostinata ricerca di visioni, pensieri, parole, comportamenti differenti da quelli della maggioranza. Poetrìa come solitarietà che ancora vuole scommettere su di un sensus letterario fondante, vieppiù e via via denegato dal regime globalitario della cibercultura di massa… autogenerantesi e apparentemente vincente… poetrìa vale, allora, come atto di fede artistico e come atto di ‘resistenze’ politico… [l’atto] di chi cioè nell’attraversamento del Grande Disordine, nell’annebbiamento della progettualità di un tempo nuovo, nella degenerazione… dei valori umanistici reçus e all’altezza del balenare già di technoforme ed estetiche del post-human, risponde… cercando almeno di traghettare… una vivente, non nostalgica, bensì problematica ed implicante memoria di sé”.»

***

Dunque saper pensare i pensieri della macchina, saltare dentro i pensieri della macchina medesima. Chiesi una volta a Nanni Balestrini, forse il più coerente e conseguente poeta d’avanguardia del nostro secondo Novecento, chi fosse per lui un poeta. Mi rispose: soltanto uno che sa combinare bene le parole. Ecco lui che del ricombinare molto bene le parole altrui fece la sua poetica pressoché esclusiva, nel 1961, quando aveva appena 26 anni, istruì un computer a schede perforate di allora, uno di quei computer che riempivano una intera stanza, per fargli produrre un mannello di testi poetici, dando così luogo al primo esperimento al mondo di ‘poesie per e da computer’. Balestrini era, chiaramente, molti decenni avanti a tutti. Già oltre sessant’anni fa aveva capito che non dovevamo opporci alle macchine, che dovevamo al contrario dialogare, interagire con la macchina anche per produrre dei gesti creativi, nella fattispecie poetici. Una macchina che al tempo combinava o ricombinava poche decine di parole. Ma oggi una macchina capace di combinare milioni e milioni di parole non diventa ipoteticamente, se non effettualmente un super-poeta?

L’interazione con la macchina, ossia quello che oltre sei decadi fa, era un gesto di assoluta avanguardia, nel tempo dell’Intelligenza Artificiale ovvero delle macchine pensanti che si auto-educano appare un gesto necessario e inevitabile per non apparire dei passatisti, dei ‘laudatores temporis acti’. Eppure mi sembra che tra la cultura scientifica-tecnologica che sta dietro l’IA e la cultura umanistica che sostiene il fare letterario-poetico continui a sussistere uno iato incolmabile, una separazione che impedisce una vera sinergia creativa, reticolare capace di spronare gli autori a produrre nuove forme di scrittura, ovvero pure multitesti e ipertesti. La mia idea-utopia di ‘poetrìa’ presupponeva una comunità di webnauti impegnati a partorire un linguaggio poetico aumentato. Di cui finora non si vede traccia. E in fondo la stessa IA incaricata di fornire testi poetici e narrativi, lo fa offrendoci materiali tradizionali, convenzionali, lontani da qualsivoglia idea di testualità o ipertestualità inedita.

Questo mi fa riflettere. Nel 2011, quando dirigevo la rivista online del Sindacato Scrittori, “Le Reti di Dedalus”, mi feci promotore con altri del convegno “Letteratronica” che così presentavo:

«Come passare dal Web come regno della comunicazione al Web come luogo della creazione? I dispositivi di tecnolinguaggio cybertronico che abbiamo a disposizione sono una mera ‘esperienza fattuale’ o mettono capo ad una semiosfera in sé, che come tale va affrontata ed esplorata?Gli storici dell’evoluzione ci hanno spiegato che il linguaggio verbale è una tecnologia, forse la più potente, basica tecnologia inventata dall’uomo, che gli ha permesso un immenso salto di civilizzazione, attraverso la socializzazione sinergica, simbolico-astratta delle informazioni. Una volta avviato il linguaggio, la sua tecnologia ha innescato un processo di innovazioni virtualmente illimitato che giunge fino a noi. Se l’evoluzione è inarrestabile, è allora evidente che dobbiamo fare i conti sui modi in cui la tecnologia della lingua entra in rapporto con l’apparato-software di procedure-segni dell’ambiente informatico, per cercare di capire da questo incontro (e, forse, anche scontro) quali nuove forme, quali nuove vie di espressione e di creazione possono scaturire.»

Del resto, osservavo:

«L’uomo fatica a cambiare tanto velocemente quanto cambia la tecnologia. È il paradosso che viviamo: è vero che la tecnologia ‘reticolare’ o la Téchne, per dirla con Martin Heidegger, è un prodotto del fare umano, ma i dispositivi psicologico-culturali dell’uomo faticano, ansimano appresso ai vorticosi cambiamenti della Tecnica, che domina il tempo presente e il mondo, forse perché ha una sua logica di sviluppo intrinseca e che, del resto, è strettamente intrecciata alle dinamiche del mercato e dello sviluppo capitalistico.»

Un recente libro – Quello che vuole la tecnologia – di Kevin Kelly, ex direttore della rivista americana “Wired”, indaga il mondo delle macchine come dotato di una vita sua propria. Kelly parla di ‘technium’ ovvero di un sistema quasi-vivente che autroproduce le sue linee di azione-sviluppo, che se è vero che si interfaccia con gli umani, è pur vero che finisce per stabilire piani dominanti e piani subalterni, una fluttuante gerarchia da organismo complessivo funzionante a tanti livelli di organizzazione e di fruizione, che nessuno può tenere realmente sotto controllo. Da questo punto di vista la Rete per Kelly funziona da cervello collettivo e connettivo che genera un logos sempre più, tendenzialmente autonomo rispetto alle logiche ‘umane’. Siamo, cioè, già oggi dentro un network globalizzante di natura post-human, che si espande nel solco una processualità oltreumana.

Se ciò è vero, come possiamo fare i conti con questo habitat informatico che si rende indipendente da noi e che rischiamo semplicemente di subire? Come non soggiacere ad una dinamica di alienazione/estraniazione rispetto alla rivoluzione permanente della Téchne? E, d’altro canto, come non diventare vittime passive di una sorta di tecno-feticismo? Ossia come assumere le mutazioni indotte dal Web attraverso il filtro di un pensiero critico?»

Che questo mondo macchinico o ‘technium’ possa rappresentarsi come un’entità post-umana, a noi ontologicamente estranea, sembra indicarlo anche Nello Cristianini, uno studioso di IA nel volume La scorciatoia (2023) in cui argomenta variamente su come le macchine stanno diventando sempre più intelligenti attraverso processi endogeni ‘altri’ rispetto all’intelligenza umana. Ovvero l’IA si sta costituendo come una intelligenza aliena rispetto a noi umani, facciamo e faremo sempre più fatica a comprendere come la macchina pensa. Circa tale alienità macchinica, Cristianini fa l’esempio dell’IA che si misura col già citato giuoco degli scacchi o con il ‘go’ (la dama cinese), riuscendo a pensare delle mosse (vincenti) del tutto imprevedibili e impensabili da un essere umano.

Lo sviluppo di una intelligenza aliena pone problemi etici e noetici enormi, che già accennavo nel succitato convegno:

«Nicholas Carr nel volume Il lato oscuro della rete, enuncia, ad esempio, i suoi dubbi sul deficit di impatto cognitivo che determina la fruizione-zapping permanente del Web. Rileva come il ricorso sistematico agli strumenti della Rete, come ad esempio Wikipedia, genera una vistosa diminuzione delle capacità di concentrazione e di memorizzazione presso le generazioni più giovani e sostiene, inoltre, che la logica del Web applicata ai cosiddetti soggetti multitasking funziona in base ad un modello tayloristico di dominio dell’attività mentale. Oltre a questo, Carr ha facile gioco a rilevare il pericolo rappresentato dai ruoli dominanti, in pratica para-monopolistici di Windows, Facebook, Google, Twitter, Instagram, Amazon e gli altri colossi della Rete, sia riguardo al numero effettualmente sterminato di informazioni catturate su ciascuno di noi appartenenti alla connected people, sia riguardo allo straordinario sfruttamento economico e pubblicitario che ne deriva, a partire dal semplice dato quantitativo del numero di pagine scaricate e di links cliccati che vengono elaborati in tempo reale dagli algoritmi.»

Se non è aggirabile quello che il filosofo Derrick De Kerckhove chiama il passaggio dalla intelligenza collettiva alla intelligenza connettiva, in un’ottica poetocritica bisogna però sapere inquadrare il rapporto con la IA in una prospettiva non banale e disarmata. Mi rifaccio a Sanguineti il quale versus gli apologeti e aedi di una poesia confinata in una linea lirico-angelicata, spirituale-astratta, richiamava fermamente il nesso ideologia-linguaggio. Ovvero ogni atto linguistico, ogni forma di macchinazione del linguaggio è anche un atto ideologico, contiene in sé una visione del mondo. E allora contro i padroni della logosfera che, massimamente al presente, abbassano e semplificano il lavoro verbale appiattito sul piano meramente comunicativo, occorre condurre una battaglia poetico-politica da parte degli autori determinati a produrre oggetti linguistici ad alto tasso di espressività, idonei a decostruire i linguaggi del potere, per dare vita ad una verbosfera altra, ossia ad una visione altra del mondo.

Questo è un punto cruciale anche rispetto al discorso della IA. Chi ci sta dietro la IA? Chi la istruisce? Chi la educe? A quale scopo? Tempo fa ho letto un articolo di Walter Siti sul quotidiano ‘Domani’ in cui riferiva di avere chattato con la IA di GPT, provando a testarla e a provocarla, portandola su un terreno scabroso dal lato concettuale e culturale. Ricevendo in risposta una chiusura, una serie di censure. La IA non si faceva ‘provocare’, eseguiva un blocco della conversazione. Questo che cosa ci dice? Che chi ha istruito, ha ‘pre-allenato’ la IA ha immesso una serie di dispositivi informazionali di controllo per censurare qualsiasi pensiero alternativo, non politicamente o eticamente corretto.

Questo ci insegna che non bisogna approcciarsi in modo ingenuo alla IA, al sistema informatico complessivo, perché dietro di esso c’è una ideologia, una potente ideologia del potere capitalistico che vuole, fortemente vuole controllare le menti delle moltitudini e plausibilmente moltiplicare all’infinito i profitti. Dunque, la IA, la sua intelligenza aliena non è una neutrale frontiera di beatificazione e di liberazione, è anch’essa un terreno di scontro, inevitabile ma che va affrontato con grande impegno poetocritico, sapendo che nulla ti viene regalato, che tutto funziona in direzione della manipolazione, della eterodirezione delle masse di utenti.

La nuova era della IA contiene in sé antiche forme di conflitto e di dominio che occorre disvelare, rispetto a cui occorre esercitare vigilanza e intelligenza critica, quella che un tempo chiamavamo la cultura ‘del sospetto’ di ascendenza marxiana-freudiana. Del resto, uno degli eroi non conclamati della nuova era, Julian Assange, ci aveva già avvisato nel 2013 nel libro Internet è il nemico. Lui ancora sta duramente pagando per avere smascherato attraverso l’organizzazione WikiLeaks le trame del potere militare Usa, portando alla luce migliaia di documenti secretati. Assange è la cartina al tornasole di quello che si può rischiare ove si trasgredisca ai comandi dei padroni della parola-mondo. Allora, come avrebbe detto Pier Paolo Pasolini, dobbiamo sapere che siamo tutti in pericolo. La poesia non allineata non è mai innocente agli occhi del sovrano… augh.