Il paso doble, svolto come danza, come lotta, come marcia, spazio condiviso, canto antifonico in cerca di accordi e disaccordi, investe innumerevoli piani della cultura dell’arte

di Pietro Gaglianò

Movimento binario

Non c’è arte senza corpo.
Paul Virilio

Il paso doble è una danza di coppia di origine spagnola legata ai rituali e alle processioni collaterali alla corrida. Nel movimento di questa danza, infatti, è ben visibile l’evocazione incruenta del conflitto tra il matador e l’infelice animale che si affrontano nell’arena. E nella musica che la accompagna echeggia il ritmo della marcia militare.

Entrambe, la coreografia e la sua musica, sono irrorate dalla tensione di un confronto bellicoso, dall’eroismo di una forte personalità che si scontra con un rivale.

Ma nel passaggio dallo spettacolo sanguinoso e iniquo che si consuma nell’arena alla pista da ballo, l’eroismo si è trasformato in erotismo e i due protagonisti, seguendo un copione di seduzione, aggressione e resa, si trovano su un piano di fatto paritario: il paso doble mette in scena un confronto serrato e, come ogni ballo di coppia, si basa sull’intesa tra i due danzatori, sulla capacità di guardarsi e di ascoltarsi, sull’abilità di dare slancio a un movimento unitario che tessa in un’unica maglia lo scontro con l’armonia, al punto che, nelle coppie più affiatate, i due corpi sembrano fondersi in uno solo.

Possiamo usare il paso doble come metafora di un altro movimento, quello che avviene nello spazio della creazione artistica. Qui i due corpi in gioco sono quello dell’artista e quello della sua opera, sia essa tangibile o immateriale: danzano avvinti l’uno all’altra in un legame che sembra impossibile da districare. La forma sensibile dell’arte, l’opera, fino a un certo momento della sua esistenza vive della stessa sostanza dell’artista, dello stesso suo respiro; così tra i due si annoda una lotta virtualmente infinita che sembra echeggiare la battaglia biblica tra Giacobbe e l’angelo: “Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!»”(1).

L’osservazione delle opere d’arte consegnate alla storia rivela a volte le difficoltà e i contrasti che portano allo scioglimento di questo conflitto: i ripensamenti (rilevabili sulle tele con analisi di laboratorio e anche a occhio nudo), gli imprevisti del materiale (nella struttura del marmo e della pietra, per esempio, che impongono un diverso andamento alla scultura), o il continuo mutare della visione che lascia a volte l’apparenza di incompiutezza o il segno di una scelta deliberata, fino ad assumere il tratto di uno stile, di una precisa volontà (come il “Non finito” di Michelangelo, che è di fatto un modo diverso di completare una scultura, o le mani della madre di Arshile Gorky nelle varie versioni de L’artista con sua madre).

La frequentazione degli studi di artisti contemporanei permette di scrutare questo processo da vicino e nel corso del suo prodursi, quando ancora l’abbraccio non si è sciolto, quando l’artista non sa dire che direzione prenderà la guerra amorosa con la sua opera né che aspetto avrà quest’ultima e nemmeno quando, e se, il distacco avrà luogo e come (o chi) lo determinerà, chi deciderà che l’opera è lì, visibile e presente, compiuta o no nel sembiante ma libera, lasciata andare, finalmente benedetta. In questo momento, silenzioso e sommesso o accompagnato dal clamore di una marcia trionfale, l’artista comprende come l’opera, prima o poi, deve reggersi da sola e, come ha scritto Louise Bourgeois, “una volta lasciato lo studio, il lavoro comincia, nel bene e nel male, una vita propria: l’intenzione del creatore non è più rilevante” (2).

Sono due vite che si separano pur rimanendo connesse per sempre ma, scrive ancora Bourgeois nello stesso testo, l’unica garanzia di sopravvivenza del lavoro è la sua forma, non più la volontà, il pensiero o la capacità di controllo dell’artefice.

La danzatrice, artista e coreografa Cristina Kristal Rizzo ha dato il titolo Paso doble a un suo lavoro del 2004 (fortunatamente riproposto in varie occasioni successive). In questa azione l’artista realizza un’improvvisazione davanti al pubblico, la base sonora è del tutto casuale, apparentemente irrilevante, trovata lì per lì alla radio. L’improvvisazione dura cinque minuti e viene ripresa da una videocamera fissa. Le successive ore, impossibile definire quante saranno, vedono Rizzo impegnata a ricostruire il movimento e tradurlo in coreografia, osservando la riproduzione video. È un processo più lungo, e più arduo, di quanto si possa supporre; in Paso doble Rizzo ha la forza di mostrare, in modo quasi spietato, la fatica e la prosa della creazione artistica. Il pubblico può osservare cosa avviene nella mente dell’artista mentre sta lavorando, viene accompagnato fino al momento in cui l’opera diventa una forma autonoma e si stacca da chi l’ha prodotta (sia pure nel caso particolare dell’opera performativa che, fino a quando sarà eseguita dall’artista, sarà sotto il suo controllo).

L’esito così fatale della relazione tra l’artista e il suo lavoro si riflette nella vecchia danza spagnola qui usata come spazio metaforico per esaminare l’andamento della nascita dell’opera. Ha senso ricordare che il paso doble contiene in sé la celebrazione di uno spettacolo che si conclude sempre con la morte di uno dei suoi protagonisti, ma nel rapporto tra l’artista e l’opera non accade niente di sanguinoso né di così immediatamente drammatico. C’è un passaggio importante legato alla percezione della scomparsa: all’inizio è l’opera che scompare dall’orizzonte visivo, dal controllo, dalla disponibilità di chi l’ha creata. Si verifica poi la scomparsa dell’artista (che quasi mai sopravvive fisicamente al proprio lavoro). Così, continuando a esistere nel mondo, l’opera d’arte perpetua un proprio ruolo attivo, quasi intelligente, in un certo senso animato da volontà.

Il paso doble, svolto come danza, come lotta, come marcia, spazio condiviso, canto antifonico in cerca di accordi e disaccordi, investe innumerevoli piani della cultura dell’arte, sia nel momento del concepimento dell’opera sia, come si vedrà, nei rapporti tra l’artista con altre visioni creative, con lo spazio, con tutti gli attori che attraversano l’esperienza dell’arte. Il passo doppio diventa addirittura triplo con la presenza del curatore, quando questi interviene per creare uno spazio di mediazione tra il lavoro delle artiste e degli artisti e quella vita che l’opera attraversa mentre si dà nel tempo e nello spazio.

Le facoltà del critico (e quelle del curatore)

… ciò che conta è il processo stesso del pensiero.
Hannah Arendt

Nell’introduzione alla mostra della Biennale veneziana da lui diretta nel 2013, Massimiliano Gioni scrive della sua volontà di “riportare l’opera d’arte in prossimità di altre espressioni figurative, sia per liberarla dalla prigionia della sua presunta autonomia sia per restituirle la forza di farsi interprete di una visione del mondo” (3).

In gran parte la mostra di Gioni celebrava la possibilità di illustrare attraverso combinazioni eteroclite l’indipendenza dell’opera d’arte rispetto alle cornici critiche, alle sistematizzazioni storiografiche, a tutte le categorie che un pensiero speculativo autoportante ha instaurato per irreggimentare in modo arbitrario e esclusivo cosa sia considerato arte e cosa no (4).

Sulla base di questa intenzione iniziale Gioni aprì i vasti spazi dell’Arsenale e dei Giardini ad autori e autrici letteralmente eccentrici rispetto ai poli tradizionali della produzione artistica: tra i 157 nomi della mostra figurano pensatori diversi (da Jung all’esoterista Aleister Crowley), alcuni malati psichiatrici e un certo numero di “costruttori di Babele” (5).

Il risultato, poliglotta e multiconfessionale come forse in nessun’altra mostra nella storia della biennale lagunare, ha avuto tra gli altri meriti quello di rimettere in gioco anche una facoltà linguistica delle esposizioni, e quindi di chi le cura, portando di nuovo al centro l’autorialità del curatore come atto creativo e il suo lavoro come occasione di riscrittura del mondo – non solo dell’arte.

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Il profilo professionale del curatore è stato sottoposto, nel corso degli ultimi decenni, a un inverosimile numero di travisamenti, interpretato elasticamente come allestitore, organizzatore, direttore artistico o, addirittura, intraprendente animatore di pubbliche relazioni, ora riservato a chi ha seguito costosissime ed esclusive scuole private ora aperto all’arrembaggio di avventurieri di ogni provenienza, saltando qualsiasi competenza, preparazione, inclinazione. Anche per tale ragione, tra i moltissimi motivi legati ai flussi dell’imprenditoria culturale, il senso di questa professione è diventato via via più equivoco e la curatela di mostre, collezioni e altre produzioni dell’arte ha perso specificità  e, forse, valore (6).

Curare una mostra (o una collezione, eccetera) coincide invece con una assunzione di responsabilità che si rivolge in due direzioni: verso l’opera, nei confronti della sua origine, del lavoro e della fatica dell’artista, e verso il pubblico; si intende con ‘pubblico’ quello spazio di riverberazione dell’opera, dove prosegue la sua vita – dove le sue possibili vite continuano – dove spettatori o ascoltatrici attraversano l’esperienza dell’arte. È un percorso che inizia con un atto di ascolto, di studio e di assimilazione di tutte le variabili, affiancando l’artista, analizzando il suo lavoro, gli spazi, il contesto; si sviluppa in un modo simile a una traduzione, concentrato sull’originale (in questo caso l’opera) ma attento anche a chi leggerà (o osserverà); si esprime, infine, come un’azione creativa, con un’autorialità che pur utilizzando i termini creati da altri non è affatto parassitaria.

Chi qui scrive ha sempre avvertito la parte curatoriale del proprio lavoro come collaterale, se non proprio subordinata, all’attività critica, quella che più strettamente si lega all’elaborazione del pensiero. Questo anche a causa dello sfrangiamento del profilo del curatore di cui si è appena scritto. Ho sempre ritenuto centrale nella relazione con i linguaggi artistici, con i loro intrecci con la sfera pubblica, con la loro possibile interpretazione politica, un lavoro attivo di comprensione, come un aspetto militante del mio impegno professionale. Come ha dichiarato Hannah Arendt, una delle voci più importanti della filosofia politica del Novecento: “scrivere significa cercare di comprendere” (7).

Più nello specifico, nella scrittura di critica d’arte, si comprende l’oggetto del proprio studio: le situazioni, le opere, le persone, le relazioni. E si tiene costantemente presente l’esistenza di un lettore su quella stessa pagina ma in un altro tempo: è un dialogo a distanza, che non si cura (come dice ancora Arendt) dell’influenza che il pensiero potrà avere su chi lo leggerà ma ha sempre a cuore, fortemente, la chiarezza.

La pratica curatoriale affianca, e a volte può esaltare, questa tensione interrogante, questo acuto sentire il transitare delle cose tra il mondo così com’è e come viene trasformato dall’esperienza dell’arte. Il lavoro svolto da più parti, su scale anche molto diverse, in ambiti istituzionali e non, sta in questi anni cercando di restituire al curatore attributi meno demiurgici, meno imprenditoriali, meno intrisi di socievolezza. Misurarsi con l’avventura di un ente, come la Fondazione Menegaz, che coltiva la propria eccentricità geografica come risorsa, che incide in modo sensibile sulla realtà locale, che apre riletture, anche eretiche, della recente storia dell’arte, può diventare parte di questa maturazione.

Le storie di una collezione

… una magica enciclopedia…
Walter Benjamin

La mostra di Gioni alla Biennale del 2013 ha aperto i battenti in un momento storico in cui un vasto dibattito critico si stava interrogando sul confine e sul senso della collezione, su cosa la definisce e quali sono i suoi orizzonti, quali le divergenze rispetto alla pratica dell’archivio, e su come la revisione di alcuni criteri possano veicolare una museografia aggiornata, inclusiva e svincolata da intenti paternalistici, egemonici, coloniali (8).

Collezionare è sempre stato un atto di scrittura, l’edificazione di un sistema di riferimenti plastici ed estetici, sociali e morali. Con la costituzione delle grandi collezioni, prima private e poi pubbliche, nell’Europa del Rinascimento vennero tracciati canoni che non smettono di influenzare la concezione del mondo ancora nel XXI secolo, in qualsiasi parte del pianeta. È questo uno dei motivi che impegna artisti, studiosi, direttori di musei e curatori in un attraversamento critico delle collezioni, nell’analisi dei loro archetipi, dei loro meccanismi di funzionamento ed espansione e del loro rapporto con il presente.

Il lavoro di riallestimento, sia pure temporaneo, di una collezione costituisce l’inizio di un viaggio di esplorazione che si svolge su più registri, da quello più riservato, legato alla soggettività del collezionista, a quello più ampio, innestato sulla scena artistica, culturale e sociale. Quella custodita alla Fondazione Malvina Menegaz è una collezione che include, con pochissime eccezioni, opere prodotte nel corso negli ultimi cento anni. Si tratta per lo più di lavori bidimensionali, con una preponderanza di pittura su tela, quasi esclusivamente realizzati da artiste e artisti italiani o con base in Italia. La collezione riflette naturalmente i gusti e le inclinazioni del suo promotore, Osvaldo Menegaz, un professionista di origine abruzzese che vive a Roma e che ha deciso di reinvestire la sua passione per l’arte e il valore che questa produce nel paese natio, a Castelbasso. Nel suo colloquiare, al tempo stesso sommesso e coinvolgente, quando descrive la provenienza di ogni singola opera e la relazione intima con la sua vicenda, Menegaz sembra incarnare il pensiero espresso da Walter Benjamin: “se è vero che ogni passione confina col caos, quella del collezionista confina col caos dei ricordi” (9).

Emerge così, per esempio, che il prezioso olio su tela di Leonetta Cecchi Pieraccini, Suso che legge, ritrae proprio la figlia dell’artista (Suso Cecchi D’Amico, sceneggiatrice per Fellini, Visconti, Antonioni tra i molti altri) dalle cui figlie il quadro è arrivato tra le mani del collezionista, portando con sé un importante segmento di storia della cultura italiana e una piccola storia di amicizia. E parallelamente, in un altro tempo, letteralmente da un altro secolo, arriva un diverso ritratto di donna: una delle Vecchie assicurate rassicurate (2017) nate in seno alla sperimentazione del collettivo Fondazione Malutta. E così è per ogni opera, acquistata o ricevuta in dono, cercata o trovata per caso in una mostra, in una galleria, per diventare definitivamente parte della collezione, dai composti oli di Corrado Cagli e di altri autori vicini alla Scuola romana, alla tumultuosa pittura di una recente e fortunata generazione di pittori siciliani; per dirlo ancora con le parole di Benjamin: “tutto quel che è ricordato, pensato, saputo si trasforma in basamento, cornice, piedistallo, sigillo della sua proprietà. Epoca, luogo di fabbrica, proprietario da cui proviene – tutti insieme, per l’autentico collezionista, formano in ogni singolo oggetto della sua proprietà una magica enciclopedia che nella sua sostanza è il destino dell’oggetto”(10).

Nella crescita di questa raccolta è importante il passaggio dalla sua natura privata a quella pubblica, con la costituzione della Fondazione, l’apertura delle sue sale e il suo incremento anche attraverso progetti che coinvolgono gli spazi condivisi e la comunità di Castelbasso.

Tenendo presente la sua funzione pubblica, e osservando il catalogo dei diversi lavori, appare quindi determinante lo sconfinamento della collezione Menegaz da un fatto esclusivamente privato. La presenza di ogni singola opera, infatti, contribuisce a descrivere una possibile storia della pittura italiana del Novecento e del secolo in corso, con tutti i fattori che determinano l’emersione di tendenze, il favore di alcune aree geografiche, il successo di alcuni nomi, l’oblio, non sempre giustificato, talvolta crudele, di altri – riscattati dal gusto, dalla scelta del collezionista. Si sovrappongono, come si è scritto, due registri: uno di taglio storico, l’altro personale, un ulteriore paso doble che anima il movimento di questo progetto.

Per il riallestimento si è scelto di dare vita a una serie di 23 conversazioni, riavvicinando a due a due opere tra loro lontane, per data di esecuzione, per stile, per area di provenienza geografica e per la temperie culturale che le ha espresse. In tal modo è stato possibile riproporre ai visitatori la visione di tele che per lungo tempo non sono state esposte o che non sono mai state mostrate al pubblico. Il percorso di selezione e composizione di questi dialoghi si è svolto in due fasi. In prima battuta le opere sono state suddivise in tre gruppi, corrispondenti a tre fasi storiche, un po’ approssimate ai confini, che includessero il momento della loro creazione o la più feconda età produttiva dei loro autori: il periodo precedente alla Seconda guerra

mondiale, con l’inclusione degli artisti vicini alla Scuola Romana e di quelli del XIX secolo; il periodo dedicato ai maestri del Novecento, inquadrati con chiarezza in movimenti e correnti degli anni Sessanta, Settanta, talvolta Ottanta e, come si suole dire, storicizzati; dagli anni Ottanta a oggi, con autrici e autori contemporanei, in larghissima parte attivi e viventi, rappresentativi di almeno tre generazioni della storia dell’arte italiana, compresa la più recente. La partizione non ha tenuto in considerazione il medium e pone negli stessi insiemi pittura, scultura e altri materiali; né si è tenuto conto della notorietà e della fortuna critica degli artisti, in una scelta (forse bizzarramente) egualitaria nel dominio della forma e della percezione soggettiva. Questo processo di riclassificazione e di organizzazione è già in sé stesso una reinterpretazione della struttura originaria della collezione; si sovrascrivono, infatti, in parte perché si ignorano, i modi e i tempi con cui le opere vi sono confluite. E si accostano a queste ultime significati talvolta imprevisti.

La fase successiva, la creazione delle coppie, si spinge oltre nel conferimento di senso, scegliendo  prossimità inedite, radunando ai bordi di un’immaginaria scacchiera due giocatori che si affrontano senza conoscersi. Si scopre in ogni lavoro una inaspettata estensione poetica; pur tenendo alta l’idea della capacità assoluta dell’opera di raccontare sé stessa, si liberano altre letture, sollecitate dalla temporanea vicinanza e da una reciprocità dettata dall’arbitrio del curatore. In alcuni casi le coppie si basano su percezioni che riguardano la forma o il movimento delle opere, come è evidente nell’accostamento tra la tela di Carla Accardi (2012) e la scultura in cemento di Arcangelo Sassolino (2017), o nel Ritratto di Emanuele Cavalli (1939), le cui forme e colori hanno un’eco nell’opera informale di Marco Gastini (2002): il circolo del cappello del giovane uomo diventa un disco in cui si inscrive una forma ocra che richiama l’incarnato, mentre un frammento di lapislazzuli ricorda il blu del gilet. In altri casi si è sovrapposta alla lettura formale una

corrispondenza simbolica, dettata forse da forzature ermeneutiche, come nel dialogo tra la scultura in bronzo di Azuma Kengiro (1976) e la piccola tela di Giulio Frigo (2015), entrambe immerse in un misticismo laico e misterioso; similmente è stato per il denso Grumi di paura di Arturo Vermi (1958) e l’inquietante Vladimir di Vedovamazzei (2014). Nostalgia e disillusione ideologiche si tessono invece tra le forme e i titoli del piccolo lavoro di Franco Angeli degli anni Settanta, con la sua costellazione di falci e martelli, e della materica opera di Bizhan Bassiri, Evaporazione rossa (2013), che nelle intenzioni dell’autore non ha nessuna connotazione politica. Altrove, in modo forse più letterale, sono emersi contatti per la rappresentazione della figura umana che echeggia posture simili: per esempio il già ricordato ritratto di Leonetta Cecchi Pieraccini in una silente conversazione con l’opera di Maddalena Tesser (2017); o sono state evidenziate continuità tra i generi, come per le nature morte di Giovanni Stradone (1935) e Toti Scialoja (1951), e per i paesaggi di Piero Guccione (1962) e Andrea Chiesi (2006), caliginoso e onirico il primo, dettagliato ma non meno lirico il secondo. Ogni dialogo è soltanto una possibilità scelta in una serie virtualmente infinita di altre immaginabili tra le opere della collezione (poco più di 40 scelte tra quasi 130). Ugualmente, le descrizioni appena menzionate di alcuni degli accostamenti non hanno niente di didascalico, e la lettura di queste combinazioni è, come l’esistenza di ogni singola opera, a carico dell’osservatore che userà i propri strumenti intellettuali e emotivi per interpretazioni che saranno sempre legittime.

I dialoghi

Tutto quel che dici parla di te:
in particolar modo quando parli di un altro.
Paul Valery

Corpo centrale di Paso doble sono i progetti speciali: a otto tra artisti e artiste, già presenti nella collezione della fondazione con una o più opere, è stato chiesto di avviare un dialogo, un confronto, una danza a due con un’altra persona, da loro invitata, portatrice di una diversa visione creativa. Non sono stati posti limiti sull’ampiezza dell’attraversamento disciplinare né sulla forma che l’esito di questo incontro avrebbe potuto prendere. In tal modo l’artista ha assunto su di sé una sorta di ruolo curatoriale, trovandosi ad affrontare gli inciampi e le improvvise aperture che l’opera vive all’uscita dallo spazio protetto dello studio.

Scegliere di incontrare una diversa dimensione poetica, estetica, formale, vuol dire accettare tutte le eventuali compressioni ed espansioni cui andrà incontro il proprio lavoro. La storia dell’arte contemporanea racconta da oltre un secolo delle opportunità nate dai collettivi, delle forze plurali riunite sotto un nome, un movimento e, talvolta, anche della scelta di smussare la propria individualità in una ricerca di coppia o di gruppo, corale.

Ci sono anche artisti e artiste che hanno una chiara inclinazione per la condivisione di spazi di riflessione e di produzione, pur mantenendo distinta la propria autorialità, o che in diverse occasioni hanno congiunto la propria strada con altre figure, di artisti come di professionisti di altri ambiti disciplinari, dalla letteratura alla musica, alla scienza.

Paso doble crea una cornice specifica per questo percorso, di elezione di un interlocutore con cui si esplora l’articolazione di sentimenti, percezioni e scelte, lasciando alcune ramificazioni aperte e libere di svilupparsi anche lungo strade dissonanti, in cerca di geometrie non euclidee, di scale tonali aperte, di un lessico non ortodosso.

Per Marco Neri, come ammette lui stesso, si è trattato di un’esperienza inedita. Neri è un pittore, secondo il significato più alto e nobile con cui si può usare questo termine. La pittura è il suo linguaggio, a volte esteso in sperimentazioni tridimensionali e installazioni complesse, e sempre praticato all’interno di una visione riferita alla più stringente contemporaneità, come la raccolta tassonomica delle bandiere (in Quadro mondiale, che nel 2001 lo ha visto protagonista alla Biennale di Harald Szeemann), o la più recente ricerca sui padiglioni nazionali dei Giardini. In tutte le sue esplorazioni concettuali Neri è sempre un pittore che utilizza pennelli di setole naturali, tele di lino e colori a tempera, talvolta nastri adesivi e cartoncini, ma sempre usati pittoricamente. E il suo soggetto prediletto è sempre la città: l’architettura, la geometria disegnata dai volumi, dalla luce, dall’ombra.

Su questo piano ha coinvolto Igor Imhoff, artista versato nella sperimentazione dell’immagine con strumenti digitali, contaminata con la musica, con le superfici inattese della realtà solida. Imhoff ha trattato una tela di Neri come se fosse la facciata di un edificio concreto, portando su una effettiva bidimensionalità un’operazione di video mapping che di consueto realizza sulle architetture. Lo ha fatto con raffinata sensibilità, cogliendo le geometrie pure della tela di Marco e scegliendo di usare la grana a larghi pixel e una sequenza di suoni e variazioni di luce fortemente narrative.

Così il linguaggio tradizionale della pittura punta all’astrazione formale e quello più tecnologico si adegua al ritmo di uno sguardo pittorico o filmico.

La parola è centrale nel lavoro di Vittorio Corsini, utilizzata nella sua forma verbale più pura, plasmata nella grafia tridimensionale del neon, composta in materiali volatili e pronta alla dispersione come parte contestuale della sua stessa esistenza. Spesso la parola è anche il punto di incontro con altre estensioni poetiche narrative, e Corsini ha realizzato numerosi progetti di collaborazione in cui le sue sculture e le sue installazioni si animano amplificandosi nella voce letteraria di scrittrici e scrittori. In queste opere è sempre in primo piano il valore plastico di una visione che si solidifica nella tridimensionalità (perché Corsini è uno scultore); parallelamente domina anche il colore, come uno sbuffo, come un barbaglio luminoso, come la sintesi di un’idea (perché è anche un pittore). Qui la parola scelta, ‘cielo’, raduna la grafia del curatore, la sensibilità per la forma dell’autore e il contributo di Valeria Manzi, artista e poetessa. Manzi è presente con la sua voce poetica che risuona nello spazio dell’installazione come parte fondamentale di un’opera eterogenea in cui è protagonista l’attenzione al corpo: il corpo umano che si fa misura del rapporto con la natura, che si rende capace di esplicitarla in forme e colori, che la interiorizza e poi la canta. L’esito di questa collaborazione è un affresco del cielo in cui il linguaggio dei due artisti si intreccia, tra il visivo e il sonoro, e raffigura non più il cielo m a la forma di un’idea.

Flavio Favelli ha scelto di ingaggiare il suo dialogo non con una persona ma con una vastità, fatta di elementi tangibili e immateriali, espressione di un patrimonio sociale, relazionale, culturale, sintetizzato in un prodotto industriale: un foulard di Hermès. Nella cosmogonia di Favelli ogni oggetto, soprattutto se carico di strati di Storia e storie depositati dal passaggio del tempo e dall’uso di una o più persone, è epifania di un’intera cultura che include la produzione, le abitudini sociali, il gusto diffuso, la fortuna di messaggi visivi e di status symbol. L’estetica coltivata dall’artista prevede una continua rimessa in gioco di mobili, accessori, immagini, dalle insegne al neon ai francobolli, dai cassettoni rivestiti in radica alle banconote.

Il rapporto dialogico che Favelli instaura con questi elementi può prendere la forma di un assemblaggio di materiali incongrui, di un collage o di una reinterpretazione pittorica. Questo è il caso del progetto presentato per Paso doble: da un lato c’è il foulard quadrato, preesistente all’opera ma esistente come forma estetica inscritta nell’arte solo grazie alla scelta dell’artista, da questo preciso momento; dall’altro lato c’è la figurazione, il ritratto compiuto dall’artista che segue un movimento inverso a quello della descrizione scientifica. Mentre quest’ultima cerca l’esattezza e una certa universalità attraverso la sottrazione del dettaglio e del particolare, la prima se ne appropria, li soggettivizza, sottrae al generale la vita altrimenti atona di quell’oggetto.

L’iconografia di tutta l’opera di Aryan Ozmaei si caratterizza per la partecipazione a un universo binario. Vi si riprende, in modo ricercato, l’antica antinomia tra il mondo europeo, dove l’artista vive e lavora da anni, e quello asiatico, “l’oriente” letterario, l’Iran in cui è nata e ha avuto la sua formazione. Nelle sue tele si rappresenta l’appartenenza a entrambi gli universi culturali che sono immersi, come si sa, in una antichissima contiguità, profonda al punto di sfilacciare l’idea stessa dell’alterità. Iran e Italia, Asia e Europa, concezioni, forzate, ideologiche o poetiche, di Oriente e Occidente si stemperano in una ambientazione onirica. In rêverie è, appunto, il titolo dell’opera inedita presentata per Paso doble e ispirata alla teoria che Gaston Bachelard esprime ne La poetica della rêverie, pubblicata nel 1960 (11).

Nella grande tela si dispongono i personaggi e gli oggetti in una fitta rete di rimandi simbolici che richiamano le riflessioni del filosofo francese esprimendole nel personale lessico dell’artista. A questa opera Ozmaei ha scelto di affiancare in dialogo quella di Enne Boi. Lo spazio di The painting’s conception sembra organizzato secondo una geometria affine, anche se il linguaggio pittorico segna un passo completamente diverso. In entrambe le tele è centrale la figura umana che innesca una riflessione sulla pratica della pittura.

La ricerca di Thomas Braida si esprime nelle forme di una pittura densa, continua, estensiva come per ricoprire (o per inglobare) tutte le superfici e le situazioni che circondano l’artista. La sua pittura condivide con le sculture e con i lavori su carta un’inclinazione per ambientazioni a più strati dove convergono, dandosi appuntamento per conviti e sfide surreali, eroi mitologici, fanciulle discinte, mostri fitomorfi e animali deformi; tra loro emergono still life di vita quotidiana, oggetti sottratti al più sgangherato immaginario pop ed evocazioni coltissime dall’iconografia e dalla storia dell’arte antica e recente. Il risultato è una raffigurazione epica e brillante, una galleria di opere i cui titoli sono elementi portanti della loro sfera di significazione. La tela che Braida propone in questa mostra, Cristalli tuoi, brillantezza mia, si inserisce pienamente in questa estetica e dialoga con l’artista coinvolto per Paso doble. Alberto Caruso, musicista sperimentale con una matura sensibilità per l’universo delle arti visive, ha portato il soggetto dell’opera di Braida fuori dalla bidimensionalità della tela, quasi come un viaggio a ritroso in cerca di quegli oggetti e di quei vetri che forse hanno ispirato il pittore. Da qui scaturisce anche un’invenzione sonora che espande ancora in un’altra direzione la rete di rimandi tra l’arte e la vita, tra la percezione e la figurazione.

Sophie Ko è autrice di una ricerca artistica che si estende in una dimensione di valori primari. Il suo lavoro torna alle radici della pittura e predilige il pigmento nella sua condizione cruda, asciutta, polverosa. Da qui nascono opere che occupano lo spazio indifferenti alla partizione linguistica, nutrendosi di condizioni che sono proprie, appunto, della pittura ma anche della scultura e dell’installazione. Il rezzo della terra è un’opera esemplare di questa inclinazione dell’artista, arricchita anche da un raffinato, implicito rinvio alle sperimentazioni che negli anni Cinquanta del Novecento hanno aperto l’esperienza dell’arte a nuovi criteri per la creazione e per la percezione (12).

Il telaio di una finestra diventa la cornice per una composizione di terra, erba, foglie e carta, elementi precipitati assieme in una composizione sinestetica, come evoca il titolo stesso dell’opera. In questo lavoro, in cui Ko si spinge ancora un passo in avanti nel territorio di sperimentazione, interviene la voce poetica di Domenico Brancale che pone di fronte all’opera un leggio dorato su cui insiste una semplice frase, una preghiera o una risposta all’arte: “come se avessimo promesso qualcosa a qualcuno che dobbiamo ancora incontrare”.

Omaggio è il titolo scelto da Giuseppe Stampone per l’opera proposta in questa mostra. L’omaggio, formalizzato come un disegno a penna, linguaggio prediletto dall’artista abruzzese, è rivolto a un simbolo inconfondibile della sua terra, il Gran Sasso. Montagna antica, divinità ctonia

ancestrale, riferimento visivo che si scorge da lontano e segna il tempo del ritorno verso casa o della partenza, il volume del Gran Sasso è il soggetto di una piccola opera su tavola dalle dimensioni di un’icona, un oggetto votivo immerso in un’atmosfera di laica devozione. Il sottotitolo, A mio Padre… La natura delle cose, descrive ulteriormente il luogo, indicando il paese natale del padre dell’artista, caricando ancor più il rapporto con le origini. Come voce parallela al suo lavoro Stampone ha invitato un altro artista abruzzese, Gino Di Paolo, che esprime un analogo omaggio con il medium che lo ispira da una vita: la fotografia. Nello scatto di Di Paolo la montagna si staglia dietro una serie successiva di quinte naturali, una fuga di prospettive che restituisce l’ampiezza titanica dell’ambiente naturale ma, al tempo stesso, la ridimensiona ponendo lo sguardo umano come suo metro e come suo vettore.

I due oggetti, di identiche dimensioni, entrambi in bicromia, sono esposti come icone in un santuario e hanno poi una vita moltiplicata nelle copie stampate delle loro riproduzioni. Disposte in due pile, sono lì per i visitatori che possono scegliere di prenderle e portarle via, perpetuando e riverberando il senso dell’omaggio.

Come più volte dichiara egli stesso, Francesco Lauretta procede da anni a una disamina della pittura dissezionando il medium e le opere, con tagli, attraversamenti, accrochage di materiali su tela, ridipinture eretiche, copie e copie delle copie. In questa pratica, che lo pone immediatamente all’esterno di qualsiasi categoria, scuola e facile inquadramento, l’artista, pittoricamente dotato in modo superlativo, si addentra con una messe di strumenti linguistici che includono tra gli altri il corpo, l’azione fisica e la relazione con il pubblico e con altri autori. Ma, più di ogni altra cosa, il lavoro di Lauretta si immerge nel tempo. Il ritorno su quadri già realizzati, ancora accatastati nello studio o già esposti, venduti, ormai parte di collezioni pubbliche o definitivamente dispersi, si motiva nello scrutare in che modo l’immagine sopravvive al tempo, e cosa negli occhi, nella mente, nella mano dell’autore cambia quando cambia il tempo attorno a lui e attorno all’opera. Così accade anche per La lettrice, tela del 2019 conservata alla Fondazione Menegaz, di cui Lauretta propone un’alternativa, altrettanto autentica ma antitetica e, in qualche modo, liberata. A questa apertura del lavoro, anche fisica, alla Fontana, contribuisce Livio Lombardo, musicista dagli ampi orizzonti, che compone per La lettrice un ambiente sonoro. Con la sua traccia musicale Lombardo immerge l’opera in un ambiente denso composto di diverse sonorità come un riverbero in più stanze consecutive; così il musicista immette la tela e la sua protagonista in un altro tempo, dando alla sua posizione una localizzazione, disponendo per lei un passato e lasciando aperto anche il suo futuro.

(1) Genesi, 32-26.
(2) Louise Bourgeois, Form, in Hans-Ulrich Obrist, Marie-Laure Bernadac, a cura di, Destruction of the Father / Reconstruction of the Father. Writing and Interviews 1923-1997, Violette Editions, Londra 1998 [tr. it. Id., Distruzione del padre. Ricostruzione del padre. Scritti e interviste, Quodilibet, Macerata 2009, p. 90].
(3) Massimiliano Gioni, È tutto nella mia testa?, in Il Palazzo Enciclopedico, Biennale Arte 2013, Marsilio, Venezia 2013, vol. I, p. 23.
(4) Su questo specifico aspetto della Biennale di Gioni ha scritto acutamente Mario Perniola, procedendo a un confronto con le pionieristiche operazioni di Jean Dubuffet e soprattutto con l’edizione seguente della Biennale, diretta da Okwui Enwezor, che invece, secondo il filosofo, richiude gli sfrangiamenti con una “svolta accademica” dove “l’artista è chi ha compiuto studi regolari nelle accademie, nelle università, ha ottenuto un riconoscimento mondiale ottenendo selezioni, premi, borse di studio, onorificenze, incarichi di docenza e curatele, e infine è riuscito a collocare le sue opere in prestigiose gallerie e collezioni”; Mario Perniola, L’arte espansa, Einaudi, Torino 2015, p. 90.
(5) La calzante definizione è tratta dal titolo del libro di Gabriele Mina sugli artisti irregolari, “misconosciuti eroi della pietra e del mattone che sfidano le convenzioni e il pubblico sentire, alimentando per decenni la propria utopia e innalzando al cielo le proprie insegne”; Gabriele Mina, Costruttori di Babele. Sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari inItalia, elèuthera, Milano 2011, p. 9.
(6) Sul tema si rimanda a due titoli, complementari e in parte tra loro antitetici: Hans Ulrich Obrist, A Brief History of Curating, Les presses du réel e JRP|Ringier, Dijon – Zurich 2007, Maura Reilly, Curatorial Activism. Towards an Ethics of Curating, Thames & Hudson, Londra 2018.
(7) Hannah Arendt (in conversazione con Günter Gaus), Was bleibt? Es bleibt die muttersprache, 1964, pubblicata in Günter Gaus, Zur Person, Piper, Monaco 1965 [tr. it. Id., Che cosa resta?Resta la lingua, in Antologia, Feltrinelli, Milano 1994, p. 3].
(8) Dalla nutrita bibliografia sul tema si cita soltanto, oltre al già ricordato catalogo della 55. Biennale, Jacques Derrida, Mal d’Archive. Une impression freudienne, Éditions Galilée, Parigi 1995-2008; Hal Foster, An Archival Impulse, in “October”, Vol. 110, Autunno 2004, pp. 3-22; Archivi e mostre. Atti del primo Convegno Internazionale Archivi e Mostre, Edizioni La Biennale di Venezia, Venezia 2012; Suely Rolnik, Archive mania, in C. C. Bakargiev (a cura di), The Book of the Books, cat. 1/3, documenta (13) – Kassel, Hatje Cantz, 2012, pp. 176-182 e il recentissimo volume di Giulia Grechi, Decolonizzare il museo, Mimesis, Sesto San Giovanni 2021.
(9) Walter Benjamin, Meine Bibliothek, 1931, in Illuminationen, Suhrkamp, Francoforte 1955 (tr. it. Id., Tolgo la mia biblioteca dalle casse, Electa, Milano 2017, pp. 22).
(10) Ivi, p. 26
(11) Gaston Bachelard, La poétique de la rêverie, 1960 [tr. it. Id., La poetica della rêverie, Dedalo, Bari, 2008].
(12) Il riferimento è all’opera di Robert Rauschenberg e, in particolare, ai suoi combine painting che il critico Leo Steinberg uso come base per la formulazione di “nuovi criteri”, indispensabili per poter parlare dell’arte dopo il dominio del formalismo modernista; cfr. Leo Steinberg, Other Criteria. Confrontation with Twentieth-Century Art, Oxford University City Press, Londra-Oxford-New York [tr. it. Altri Criteri, in Giuseppe Di Giacomo, Claudio Zambianchi, a cura di, Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Laterza, Roma – Bari 2008].