La pellicola? Un soggetto molto sensibile che si lasciava impressionare facilmente dalla luce dalla quale traeva vitalità ma sempre pronta a prendere fuoco
di Roberto Soldati
Nel ‘72, ancora studente presso L’I.E.D (Istituto Europeo di Design) di Roma, venni a sapere che all’Accademia di Belle Arti a L’Aquila fu istituito un corso di disegno animato diretto non solo dal vignettista satirico Pino Zac, disegnatore e fondatore della rivista satirica Il Male,
ma anche da Emanuele Piccirilli, uno dei tanti leggendari cineasti dell’ Istituto Luce che, prima dei grandi mezzi di comunicazione di massa e dei computer, venivano sguinzagliati ovunque ci fosse un evento da documentare.
Quando ancora vivevo in paese, senza neanche un’edicola e pochissime radio, i cinegiornali Luce erano l’unica fonte d’informazione disponibile per noi campagnoli, anche se ce li proiettavano una sola volta l’anno come un antipastino sempre disturbato dalle ombre vaganti delle seggiole sul telone, in attesa che “lu cinematografo” così lo chiamavamo, chiudesse la festa patronale. La mattina dopo la festa noi ragazzi ci improvvisavamo cercatori d’oro: un orecchino, una catenina, un braccialetto, perso nel buio della festa lo trovavi sempre. Male che andava potevi comunque raccattare qualche mortaretto non esploso dal fuoco pirotecnico da conservare per la notte di San Silvestro. Una di quelle mattine, quando avevo solo una dozzina d’anni, trovai per terra qualcosa che segnò il mio futuro. Un misero spezzone di pellicola 35mm con Marcellino pane e vino mentre ritraeva il braccio dal morso dello scorpione che lo uccise. Era una serie di immagini che viste attraverso la luce tremola di un neon, con mio sommo stupore, si animavano. Fu lì che decisi il cammino che mi condusse dritto dentro l’aula in cui Emanuele e Pino Zac ci svelavano i segreti del cinema. Nel 1948 Emanuele Piccirilli collabora attivamente col laboratorio titoli e trucchi di Eugenio Bava che all’epoca era uno dei massimi esponenti degli effetti speciali cinematografici in Italia.
Nel ‘52 Piccirilli viene assunto dall’Istituto Luce, con il resto del reparto, nel laboratorio “Titoli e trucchi”, laboratorio scientifico in cui si mettevano in campo le tecniche di ripresa ed edizione più avanzate che richiedevano da parte degli adepti una grande perizia ed una vera vocazione per quel genere di professione. Contrariamente ad oggi dove le moderne tecnologie consentono, purtroppo, spazio anche agli improvvisatori. Nel 1971 come ho già detto, Piccirilli diventa assistente di Pino Zac, presso l’Accademia di Belle Arti di L’Aquila. Nel 1968 si trasferisce negli studi cinematografici Barrandov di Praga per realizzare il lungometraggio animato “Il Cavaliere inesistente” sull’omonimo libro di Italo Calvino di cui Zac fu il regista e Piccirilli il direttore della fotografia. In questo film fu utilizzato, per la prima volta in Italia, l’innovativa tecnica del Front–procession che serviva a far interagire i disegni con gli attori.
Il cavaliere inesistente di Italo Calvino Film animato di Pino Zac
Nel 1984 Emanuele Piccirilli lascia l’incarico dell’Istituto Luce per proseguire la sua attività da libero professionista, continuando a lavorare sia per il Luce che per la RAI. Vi lascio immaginare quanto fosse complicato gestire un set pullulante di operatori, attori e tecnici, intrigato da una babele di cavi elettrici, carrelli cavalletti, fari, schermi, cineprese; il tutto senza uno straccio di computer che oggi svolgerebbe un buon 60 per cento di quel lavoro.
Voi!! filmmaker moderni, viziati dagli agi digitali, lo sapete o no che, quelle cineprese si ciucciavano 24 fotogrammi al secondo di preziosa pellicola? Che tradotto in soldini facevano circa 40 cent di euro odierni al secondo? Fatevi i conti e scoprirete quanto costava un film di allora.
Un costo che dovrete moltiplicare almeno per quattro, perché tanta era la media dei tentativi da fare prima di azzeccare una scena decente. Da cardiopalmo ve lo assicuro! Insomma fare il filmmaker ai nostri tempi non era mestiere per ansiosi, perché l’ansia non finiva lì ma si prolungava, per i 3 o 4 giorni e notti insonni necessari allo sviluppo e stampa; con la reale prospettiva di dover buttare tutto via e ricominciare da capo. Oggi puoi girare 1000, 10.000 ore di filmato praticamente a costo zero. Emanuele mi raccontava a proposito un paio di divertenti episodi, solo per farvi capire.
– Emanuele: «Parecchi anni fa, io con un mio amico e collaboratore dovevamo fare una ripresa ad una ragnatela nella quale ci si doveva impigliare una mosca, sicuri che il ragno si sarebbe avventato sulla preda, e, filmarlo; quindi catturai una mosca e la consegnai al mio aiutante perché la lanciasse sulla ragnatela. Parte la ripresa, al mio segnale l’aiutante lancia la mosca e quella anziché impigliarsi, buca la tela e va oltre. Ripetiamo la scena. Motore! ciak Ma anche al secondo ciak, la mosca ribuca la tela e va oltre, al terzo ciak idem. Ascolta, dico all’aiutante, Tu non devi scagliarla addosso alla ragnatela ma lanciarla con delicatezza (mimandogli persino il gesto di quando si lancia un aeroplanino di carta), e andiamo avanti con un’altro tentativo: Ok, motore! Ciak!!…niente da fare!, la mosca ribuca la ragnatela e va oltre. Alla fine il povero aiutante esasperato mi fa: “Senti Emanué ecchete sta mosca e fa’ comme te pare”. Come non bastasse, il povero ragno terrorizzato da quel mostruoso insetto, si acquattò nel nido e non si mosse per un bel po’ prima di farsi riprendere. Se vi capita di vedere un vecchio documentario dove un ragno divora una mosca ricordatevi quanta fatica è costata quella scena».
– Roberto: «Mentre noi studenti stavamo preparando i fondali per un film d’animazione su musica di Domenico Cimarosa, Pino Zac mi incaricò, visto che già vivevo a Roma, di seguire i lavori di smontaggio di una speciale cinepresa per il disegno animato e relativo stativo e banco ottico, per essere trasferita da Roma all’Accademia d’Arte di L’Aquila. Un’attrezzatura che pesava almeno 200 chili: non era mica il programmino per animazione Adobe Flash che si usa oggi e che pesa solo qualche grammo. Mentre aspettavo presso lo studio Dodi di Roma finalmente arriva il camioncino da L’Aquila, ma dei facchini e di Pino Zac neanche l’ombra, Il camionista, impaziente di ripartire, e senza la minima voglia di aiutarmi a caricare la pesantissima attrezzatura se ne stava con le mani in tasca. Tra l’altro c’era minaccia di pioggia e il camioncino era scoperto. Provai a rintracciare Pino o chi per lui ma niente da fare. Il camionista, nel frattempo si era ficcato dentro il camioncino smadonnando.” Guardi che questa è un’attrezzatura delicatissima e costosa, non può viaggiare sul suo camion scoperto sotto la pioggia”, gli dico irritato: “Guardi che se mi fa tornare a L’Aquila scarico le accollo tutte le spese”, mi replica il camionista. Il titolare dello studio più scocciato di noi due messi insieme, pur di sbarazzarsi di quell’ingombro, bofonchiando un po’, accettò di aiutarmi ad impacchettare alla meglio l’attrezzatura e finalmente partimmo. Il camionista non aveva nessuna voglia di parlare e neanch’io mentre imploravo Giove pluvio di far cessare la pioggia che diventava sempre più battente fino a trasformarsi in un diluvio. A quel punto il mio stomaco era diventato un blocco di pietra perché quell’improvvisata protezione di cellophane non garantiva affatto l’impermeabilità dell’attrezzatura. Arrivammo a L’Aquila verso le 10 di sera e fummo costretti a svegliare l’addetto comunale affinché ci aprisse il portone per scaricarla in qualche modo. Dopo aver passato la notte insonne mi precipitai all’Accademia per verificare i danni e cercare di porvi un qualche rimedio. Ma mentre aspettavo l’apertura vidi la foto di Pino Zac sul Messaggero con un trafiletto a fianco che diceva: Il vignettista Pino Zac arrestato a Parigi per vilipendio al presidente Pompidou. Rimasi di ghiaccio, ma poi sentii un certo orgoglio di essere un collaboratore di Pino Zac, Il genio del “Male”.
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Zac! Il Savonarola, Zac! Il fustigatore di corrotti e corruttori, Zac! Il senza Dio né Stato, né servi né padroni. Zac, era lo pseudonimo che lui stesso si era ritagliato recidendo con un colpo netto di forbice il suo vero cognome Zaccaria Giuseppe. Qualche anno dopo, nel ‘76, mi volle suo assistente al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, di fronte a Cinecittà, dove vi organizzammo un corso di disegno animato.
In seguito, con Pino Zac, facemmo dei lavoretti saltuari per la neonata RAI 3 in uno studio vicino Montecitorio che si rivelò un covo terroristico frequentato da rampolli dell’ area di “Palazzo”. Meglio non far nomi, perché la faccenda finì in prima pagina nazionale anche se io e Pino ne uscimmo fortunatamente puliti; dopodiché ci perdemmo di vista. Lo rividi, qualche settimana prima alla sua scomparsa in un caldissimo giorno di luglio dell’ 85, con giubbetto e capelli al vento a 130 all’ ora sull’ A24 alla guida di una macchinetta Citroen Mehari scoperta, mentre tornava dal Belgio. Ci incontrammo all’autogrill, mi offrì una spremuta, parlammo un po’ del più e del meno, e ci salutammo per l’ultima volta. Purtroppo fu un addio per sempre.
Nel 1972 Emanuele m’invitò a visitare il suo studio presso il leggendario Istituto Luce dove mi regalò l’altrettanto leggendario Lunasix, un vero e proprio gioiello di esposimetro, sogno di tutti i fotografi in erba. Dopodiché mi fece fare una specie di giro turistico attraverso l’atmosfera magica degli studi di edizione con tutti gli artefici dei famosi Cinegiornali Luce che, come dicevo prima, riuscivo a vedere solo durante le feste patronali nei vari paesini del mio comune in Abruzzo, ma quel nome “Luce” così semplice ed evocativo mi era sempre rimasto impresso. In effetti, era la Luce, la vera protagonista di quel posto che le complicate macchine di edizione, i registi, i tecnici e gli operatori dovevano solo modellare dando corpo e vita a tutte quelle immagini che per decenni ci hanno accompagnato ed oggi costituiscono il più imponente archivio della storia italiana dal fascismo in poi. Venne a sapere, delle mie frequentazioni del Luce, anche un mio ex professore dell’istituto d’Arte di L’Aquila che gli era capitata tra le mani una bella moto Bianchi 175 targata numero 001 pregandomi di frugare l’archivio Luce per scovarvi la prova che quella moto era stata presentata dal Duce in persona a Cinecittà nel 1938. Emanuele riuscì, aldilà della più rosea aspettativa, a procurarmi nientemeno che la foto del Duce sopra la Bianchi numero 1 che il mio ex prof. poté esibire in tutti i motorshow da gran protagonista.
A parte questa curiosa parentesi Emanuele mi raccontava un divertente episodio avvenuto sul transatlantico Leonardo da Vinci navigando verso New York per fare un lavoro per la Tirrenia:
«Prima di partire ci avevano avvisati che il comandante della Leonardo è un tipo molto ma moooolto severo, quindi lavorate con discrezione mi raccomando». Il comandante, Ribaric, così si chiamava, venne a curiosare che cavolo stessimo combinando e ne approfittai per fargli una domanda:
– Senta comandante, posso chiederle una grossa cortesia?
– Dica! mi fa con fare garbato il comandante.
– Siccome abbiamo bisogno della luce del sole da questo lato, potrebbe girarci la barca?
Il comandante, paralizzato dallo stupore, si ricompose frettolosamente, modellandosi in faccia un’ espressione di stizzito sussiego, poi sbottò in una scrosciante risata dopodiché mi fa divertito:
– Mi dica, signor Piccirilli, come faccio secondo lei a girare questa “barca” con più di mille passeggeri a bordo?
E finì così. Quella stessa sera mi si presenta il commissario di bordo con una bella bottiglia di Champagne dicendomi con fare servile:
– Il comandante è desolato di non poterla avere per cena e le manda questo messaggio” che recitava: “Signor Piccirilli, sia comprensivo ma con una nave carica di miliardari americani che tornano in patria, se la vedono a tavola con me anche loro pretenderanno lo stesso trattamento d’onore. Sa sono solo un migliaio, perciò accetti questo sincero omaggio per avermi fatto fare la bella risata di ‘stamattina”.
Lavorando nel cinema può anche capitare, di trovarsi di fronte personaggi molto famosi, VIP gente di spettacolo rockstars, divi hollywoodiani, ma addirittura un papa è veramente troppo. All’inizio degli anni 60, stavamo in Vaticano per filmare un’udienza-premio con Papa Giovanni che l’ENEL offriva ai suoi pensionati. Il regista mi disse, conoscendo la mia spregiudicatezza:
– Emanuele, mi raccomando, discrezione: qui siamo davanti al Papa.
Ma io lo rassicurai ed andammo in udienza. Papa Giovanni, notando la mia insofferenza a stare al di là delle transenne esclamò con la sua proverbiale affabilità ai presenti:
– Vedo che qui c’è un operatore impaziente di farci delle riprese. Venga, si accomodi dentro.
Non me lo feci ripetere due volte e cominciai a girare al suo santo cospetto con mia somma soddisfazione ed anche di quel regista che pretendeva di tenermi a guinzaglio».
Servizio di Emanuele Piccirilli sulla nave Leonardo da Vinci verso gli Stati Uniti
– Roberto: Realizzare documentari richiedeva tutta la pazienza di Giobbe ed una infinita perseveranza, specialmente quando si dovevano far riprese sugli animali che richiedevano sempre parecchie ore di appostamento e chilometri di pellicola, prima di ricavarne uno misero spezzone di pochi secondi utilizzabile. Permettetemi di citarvi una mia piccola esperienza personale a proposito. Nel 1974, in un film tedesco ambientato nel ‘700 era prevista una scena col tiro al piccione, ovviamente senza ucciderlo. La scena mi venne talmente bene che fui costretto ad improvvisare una dimostrazione per il WWF onde evitare una severa denuncia per un presunto maltrattamento di animali. Emanuele mi raccontava invece, la sua snervante esperienza con un impertinente Picchio maggiore, omologo del più famoso Woody Woodpecker, da noi conosciuto come Picchiarello, del disegnatore Walter Lanz. L’idea di Woody Woodpecker è saltata fuori durante la luna di miele del disegnatore con la neo moglie Gracie, quando un rumoroso picchio disturbò i due, cospargendo di buchi la loro baita. Fu in quel momento che a Lantz venne l’idea di creare un cartone animato su quell’uccello, a cui darà la tipica risata che sua moglie imitava alla perfezione. Da quanto mi riferisce Emanuele il suo picchio era anche peggio di Picchiarello. Ne è la prova una foto di Emanuele imboscato tra le fronde assieme al regista Giuseppe Jesué, armato del binocolo usato per prendere in castagna il pennuto che entrava nel nido ricavato nel tronco di un albero ad una decina di metri da loro.
– Emanuele: «Quel disgraziato, d’un pennuto giocando d’anticipo, ci fregava sempre arrivando a razzo da dove meno te lo aspettavi. A volte lo vedevi uscire dal tronco senza averlo nemmeno visto entrare, oppure entrare senza averlo visto uscire, per cui prendemmo una drastica decisione. Prima che sua moglie, la picchia, deponesse le uova in quel nido. Assistiti da un etologo, pensammo di catturarlo ingaggiando una sfida di abilità e astuzie varie tra lui e noi, in un parapiglia che sembrava senza uscita: Ok! sembrava dirci il Picchio esasperato: “Finiamola qui questa manfrina, portatemi a studio fatemi tutte le riprese che volete e chiudiamo questa faccenda per sempre così non mi rompete più”. Lo tenemmo per qualche ora in gabbia e ce ne andammo a sistemare il set di ripresa, ma quando tornammo a prenderlo, con nostro stupore, aveva bucato la rete metallica rifugiandosi sopra una trave, tanto per dimostrarci che un picchio che si rispetti non lo ferma nessuno, anzi, se avessimo tardato ancora un po’ avremmo trovato anche un bel buco attraverso la porta e addio riprese. Lo liberammo la sera stessa nei pressi del nido, Grazie Picchio!».
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