Il poema, offre la visione di un duplice viaggio: nelle profondità dell’io e nei meandri della realtà esteriore, delineando una specie di labirinto che è sia interiore che esteriore

di Marco Tabellione

Quando nel 1956 Edoardo Sanguineti pubblicò Laborintus, la letteratura italiana cambiò strada, aprendo alla stagione dell’avanguardia che avrebbe caratterizzato tutta la prima parte degli anni Sessanta. Il poema fu accolto in maniera contrastante dalla critica, c’è chi lo considerò negativamente, parlando in forma ironica di resoconto di un esaurimento nervoso, chi invece vi vide il definitivo superamento della poesia ermetica e neo-crepuscolare.

Sicuramente si trattava di un poema complesso, criptico, vulcanico in certe sue avventure linguistiche, simbolico oltre ogni dire, e decisamente controcorrente rispetto a certi stilemi della poesia ermetica o neorealistica. Ma ciò a cui Laborintus non rinunciava era la presenza di un fondo romantico, come una specie di retrogusto che dominava le pulsioni e il simbolismo presenti nella stesura poetica. E questa irrinunciabile vocazione romantica, che si stratificava ad esempio nell’idea della discesa alle madri diffusa sull’intera trama dei versi, ebbene questa vocazione romantica ricollegava direttamente Laborintus a certe suggestioni tipiche del surrealismo. Soprattutto la componente psicanalitica e certe forme di esplorazione delle zone nascoste dell’io, accostava non poco l’opera di Sanguineti alle teorie del maestro del surrealismo vale a dire André Breton. E infatti che cos’è Laborintus se non una perfetta realizzazione del principio surrealista dell’esplorazione di una realtà altra che possa offrire un senso alla realtà apparente nella quale navighiamo?

L’opera, così, è sì una provocazione al linguaggio borghese, una denuncia dell’incomunicabilità, ma è anche vero che questo capolavoro non si esaurisce nella carica destruens. In effetti, il percorso che il poema, diviso in 27 capitoli, compie, conferma il sostrato romantico. Il titolo rimanda ad un’opera medioevale, Laborintus di Everardo Alemanno, dove si fa riferimento ad un labor, una sorta di travaglio, che nella rappresentazione di Sanguineti diventa il travaglio psichico dell’individuo alle prese con le pastoie della realtà, il labirinto a cui il titolo fa riferimento. Il travaglio è la lotta che l’io conduce contro l’ambiente esterno, contro la complicazione radicale del tutto, cercando di difendere sé stesso, la propria integrità, di conquistarla. E per far ciò, per riuscire a riconquistarsi, a riassettarsi, l’io del poema scende dentro i propri abissi interiori, si separa dal resto, dalle condizioni esterne, per cercare verità dentro la propria psiche. Ma ciò, al di là degli ovvi riferimenti a Jung e Freud, non è che una ripresa dell’antica lotta romantica dell’io contro il tutto. Sanguineti successivamente non ha avuto il coraggio di seguire quei suoi ardimenti giovanili, e la sua poesia è diventata via via sempre più realistica. Ma Laborintus rimane ancora un punto di riferimento per coloro che vedono nell’arte il tentativo di un approfondimento continuo della condizione umana.

Il poema infatti, come già abbiamo preannunciato, offre la visione di un duplice viaggio: nelle profondità dell’io e nei meandri della realtà esteriore, delineando una specie di labirinto che è sia interiore che esteriore. Nell’ambito della perlustrazione esteriore e del confronto con la realtà esterna Sanguineti combacia perfettamente con la poetica dei novissimi, gruppo di cinque poeti (Antonio Porta, Elio Pagliarani, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani che curò nel 1961 l’edizione di una storica antologia del gruppo e appunto Edoardo Sanguineti), poeti che all’inizio degli anni sessanta si proposero come gli ultimi e nuovissimi di una lunga tradizione letteraria, con l’ambizione di offrire un nuovo linguaggio poetico. Giuliani individuò per il gruppo due riferimenti teorici, la riduzione dell’io, riduzione della componente egoica e narcisistica che impedisce la perlustrazione delle regioni autentiche dell’io, e la visione schizomorfa, matrice teorica dedicata all’esteriorità e alla ripetizione della schizofrenia del mondo contemporaneo in senso linguistico.

La visione schizomorfa, in particolare, rappresenta una chiave per comprendere la poesia dei novissimi, ma in fondo tutta l’arte della neo-avanguardia. In questa visione si cercò di rafforzare il linguaggio per consentirgli di nuovo di misurarsi con il labirinto del reale, come lo chiamava Calvino che frequentò il Gruppo 63, fenomeno collettivo dedito a numerose conferenze, sempre all’inizio degli anni sessanta e nel quale l’esperienza dei novissimi era inglobata. Per far sì che il linguaggio e dunque la letteratura e dunque la poesia non fossero risucchiate dalla globalità onnivora della contemporaneità, bisognava che il linguaggio stesso da rappresentativo si facesse mimetico.

La sfida al labirinto e al mare dell’oggettività si pretendeva poter essere vinta mediante una parola che, avendo ripudiato la sua funzione rappresentativa della realtà, non può più essere strumentalizzata. L’obiettivo dell’arte d’avanguardia era quello di rivitalizzare il linguaggio, utilizzarlo strappandolo alle grinfie della dimensione che sembra più congeniale al sistema contemporaneo industrializzato e oggi globalizzato, quella razionale. Ecco, la poesia di Sanguineti, in particolare, raccolse questa sfida, e fu d’altronde proprio lui a coniare la definizione di “rivoluzione sopra il terreno delle parole”.

Il suo Laborintus era dunque un tentativo, legato alle pretese artistiche giovanili, di rifondare il linguaggio, ma soprattutto rifondare la sua funzione. E in ciò Sanguineti è sì rivoluzionario, ma ha dietro molti altri rivoluzionari: simbolisti, surrealisti. Infatti l’idea di adoperare il linguaggio con funzione mimetica e non rappresentativa, risale in modo consapevole almeno ai simbolisti. Il linguaggio mimetico dei simbolisti diede origine a due rami, due branche che hanno caratterizzato il Novecento: la branca del primo Novecento della poesia essenziale ridotta alla pura parola, parola che mima la realtà facendosi iconica, si pensi ad Ungaretti, e la branca della seconda metà del Novecento come appunto quella dei novissimi.

Se la sfida della prima branca mirava a potenziare il linguaggio liberandolo dalla pesantezza parolaia, ad esempio la retorica dannunziana, nel caso dei novissimi e di Sanguineti il linguaggio lancia la sua sfida alla realtà amplificandosi, in una specie di inflazione linguistica. Inflazione che finisce per coinvolgere anche altre lingue presenti e passate, in un mistilinguismo in cui ciò che conta è la mimetizzazione del linguaggio e dunque della parola. Da ciò nasce anche il verso lunghissimo dei novissimi.

Insomma oltre il linguaggio della comunicazione si pone la ricerca del linguaggio della comunione, un linguaggio che riesca ad essere più di un linguaggio, cioè più di uno strumento. E questa è sempre stata la grande aspirazione della poesia. Dunque in Sanguineti sopravvive un sottofondo romantico, l’idea della poesia come mezzo di conoscenza e anche come mezzo di esistenza. Così l’intero poema Laborintus alla fine si presenta come una discesa alle madri; una discesa alle sorgenti della vita e dell’essere, che da esperienza apparentemente negativa si trasforma in un’esperienza di rigenerazione. E in questo nuovo significato il capolavoro di Sanguineti andrebbe riletto e studiato, per poter cogliere in pieno la sua portata storica nella tradizione letteraria non solo italiana.