Resta il fatto che sia il rock duraturo sia il rap a scadenza o già scaduto alla fin fine sono funzionali al sistema. Incanalano rabbie e malesseri giovanili, e di fatto li neutralizzano, li narcotizzano, invece che accendere la miccia della necessaria rivoluzione

di Marco Palladini

01 –  Rap e rock pari non sono?

Tra il rimorso e il rimosso risuona lieve la Blue Note, la nota malinconica della vita, forse della vita di ognuno. Come una improvvisazione free jazz, tra dolce e rabbiosa, tra ottusa e luminosa, tra invitante e declinante.

Come una corsa defatigante alle prime ore dell’alba, col fiato sempre più ansimante per svuotare il cervello dei pensieri. O come un lungo tramonto con colori rosso vivido che via via stingono nel nero tenebra della memoria.

Fabrizio Carbetti non è più un pischello, ha superato da un po’ i cinquanta, ma si ostina con i jeans dilavati e stracciati e il ‘chiodo’ sdrucito a conciarsi secondo un esuberante ragazzotto, sempre (apparentemente) a kazzoritto. Sta raggiungendo Rocco Manitano, un nipote ventenne che lo ha invitato ad una serata rap dove si esibiranno, tra gli altri, Club Dogo, Mondo Marcio, Marracash e CaneSecco. Il rap non gli piace, ma tempo fa ha avuto una discussione con Rocco.

Il nipote gli diceva: “Voi rockettari del kazzo siete fortunati”.

“Ah, sì, e perché?”.

“Ma perché il rock non finisce mai. Nel rock la vita si prolunga, secondo me indecentemente, attraverso i decenni. In giro ci stanno ancora rockstar ultrasettantenni, dei veri, osceni dinosauri, tipo i Rolling, McCartney, Neil Young, i Pink Floyd, Who, Zeppelin, eccetera, che non ne vogliono sapere di smettere, che non vogliono ritirarsi e godersi il loro resto di vita da pensionati miliardari. Continuano ad esibirsi, svociati ed artritici, ripetendo inesausti se stessi. Vogliono morire sul palco, gli stronzi, con le parrucche, le dentiere, i lifting, tenuti su da non so più che mix di droghe e di farmaci energizzanti”.

“Ho capito, ho capito, ma poi che è, un delitto? Loro ancora si divertono, la loro vita è il rock, fuori dal rock non sanno fare altro e i fans sono ancora tantissimi. Quando duri così tanto, un motivo ci deve essere. Forse la loro musica, i loro pezzi sono ancora dannatamente buoni e hanno superato la barriera del tempo. Sono diventati dei classici e loro sono delle ‘living legends’ come dicono in America. Voglio vedere i tuoi diletti rappettari a settant’anni”.

“Infatti, è questo il punto. I rapper a settant’anni non ci arriveranno mai. Già a quaranta un rapper sembra un tipo un po’ ‘suonato’, un anacronistico sfigato. Puoi, a quell’età, andare ancora a giro col cappellino da baseball rovesciato, la felpetta da tamarro, i tatuaggi in ogni dove, le catenone simil-oro al collo, il cranio rasato, i pantaloni oversize, le mutande griffate bene in vista sotto la cintura bassa e le Nike senza i lacci ai piedi, senza sembrare un vistoso, patetico coglione che cerca di far sopravvivere la sua mala e maleducata adolescenza? Puoi continuare a smitragliare sul palco rime di guerra e di scazzo come se fossi un teppistello di strada a vita?”.

“Certo, che no. Ma è perché, come ti ho sempre detto, il rap fondamentalmente non è musica. Si fonda su basi ritmiche looppate e scratchate e dei giuggioloni inkazzati che ci parlano sopra. Io qualche brano lo apprezzo pure, ma un disco intero di rap non lo reggo. Dopo un po’ ti fai due palle così”.

“Per un ragazzo come me è triste ammetterlo. Il rap è a scadenza come gli yogurt. In America pure gente strafiga come i Public Enemy è più o meno sparita, i vecchi draghi negri delle prime ondate hip-hop o sono morti o sono diventati boss e producer di nuovi rapper ventenni, o se ne sono andati in pensione anticipata”.

“E già gli va bene. Che poi me li ricordo quei video dove si mostravano tutti come dei supervanitosi e superkazzuti superpapponi neri, sbracati e arroganti, beoti e iattanti, circondati da decine e decine di zoccole seminude a cui fare gestacci e mimare con il bacino il movimento del coito. Il luogo prediletto dei rapper yankee mi pareva il bordello”.

“In Italia, però, c’è un’area rap con una coscienza diversa, dove la militanza rap ha un senso di rivolta politica”.

“Guarda, a parte qualcuno più sincero e ostinato, tipo Assalti Frontali, mi paiono tutti finti, gente che si mette in posa, che recita la parte del duro perché e finché gli conviene, ma è tutta fuffa, aria fritta. Almeno in America era tutto più autentico, parecchi dei rapper black venivano dalle gang criminali, gente con anni di galera e omicidi alle spalle, gente che veniva dai ghetti delle ‘inner cities’ dove la vita è davvero dura e ogni giorno a rischio. E poi c’era il fatto dell’orgoglio nero e dell’autodifesa contro il permanente razzismo che ogni anno ammazza centinaia di giovani neri e ne mette a migliaia in carcere. Lì mezzo secolo dopo Malcom X e Martin Luther King e mettici pure Muhammad Alì, anche se il Ku Klux Klan non si manifesta più come un tempo (ma c’è ancora), la guerra bianchi contro neri è più viva e attuale che mai. Ma qui che c’è? Dovrebbero essere i figli degli immigrati, le vere tribù stradarole che pistano a sputare il loro odio rappando”.

“Qualcuno, in realtà, ce n’è”.

“Non li conosco. Resta il fatto che sia il rock duraturo sia il rap a scadenza o già scaduto alla fin fine sono funzionali al sistema. Incanalano rabbie e malesseri giovanili, e di fatto li neutralizzano, li narcotizzano, invece che accendere la miccia della necessaria rivoluzione. Noi cinquantenni siamo stati fregati nel medio periodo; voi ventenni precari siete, invece, stati fottuti in partenza. Com’è che non ve ne rendete conto?”.

“Ce ne rendiamo conto, ahivoglia se non lo capiamo. Ma non abbiamo speranze. Un altro mondo possibile non lo vediamo. La rivoluzione non sappiamo che cos’è. Utopia è una vecchia parola che leggiamo sui libri scolastici. Dietro di noi ci sono soltanto giganteschi fallimenti, disastri politici. Tutti vostri, peraltro. Mi dici che cazzo dobbiamo fare, a parte andare ai concerti che ci piacciono?”.

“Guarda, al prossimo a cui vai, ti accompagno. Per solidarietà ziesca”.

02 – Beatles o LesBeat?

LesBeat è una cover band che si è formata cinque anni fa. Una cover band dei Beatles, una cosa sinceramente non proprio originale. Di cover band beatlesiane ce ne sono a frotte in questo malnato spaese. Solo nella capitale se ne contano almeno una decina. Non diversamente dalla maggior parte delle altre cover band, i LesBeath anno in repertorio le canzoni dei primi ellepì, quelli fino a fino a Help (1965). Quelli insomma dei pezzi che gli stessi Beatles eseguivano in concerto fino alla loro ultima apparizione al Candlestick Park di San Francisco il 29 agosto 1966. Del resto per gli stessi originali Beatles non sarebbe stato possibile rifare dal vivo brani come A Day in the Life,I’m the Walrus, Strawberry Fields Forever o Tomorrow NeverKnows, se non riarrangiandoli completamente rispetto alla versione registrata. E si sa, invece,che il principio cardine delle cover band è esattamente quello di mantenersi fedeli, fedelissimi al sound originario, di riprodurlo filologicamente, usando i medesimi strumenti e, persino, la medesima amplificazione Vox d’epoca. Molte band vestono anche i medesimi abiti e ricreano le stesse acconciature anni Sessanta dei quattro di Liverpool. Perché l’intento è quello di reincarnarli, di produrre l’illusione, il miraggio di avere clonato i Beatles, di avere trasportato una cellula spaziotemporale dall’Inghilterra di oltre mezzo secolo fa al presente. Ecco le cover band vogliono abolire il passato, lo vogliono rendere un eterno presente, lo vogliono cristallizzare in una bolla perfettamente anacronistica, ma che regala per quell’ora, ora e mezzo di concerto l’illusione di retrocedere nello spaziotempo. Ossia di ripresentificare un momento aurorale e aureo, felicemente sorgivo, splendidamente nativo del beat-rock che fu così allora e poi mai più, ma loro lo rifanno devotamente proprio per consegnarlo a un possibile, sperabile ‘per sempre’.

Certo, per chi guarda da fuori, sono cose patetiche o ridicole o menate addirittura deprecabili, ma per i cultori, cioè per gli addetti al culto beatlesiano sono i fondamenti del loro agire. Tale culto è, in tutta evidenza, un fenomeno parareligioso, un virus fideistico che pare trasmettersi di generazione in generazione, dai padri, ai figli, sino ai nipoti. La beatlemania esplosa nel 1963 dopo oltre cinquant’anni, grazie anche alle centinaia di cover band, è viva e vegeta e… canta, suona e balla e lotta assieme a noi.

Così, assolutamente la pensano Stefano De Mirtina e Giorgio Delgrossi. Il primo ha 25 anni ed è il bassista dei LesBeat col nome di Battaglia di ‘Paolino Hofner’ (lo strumento appunto di McCartney). Il secondo è un suo vicino di casa, un avvocato in pensione di circa settant’anni, fan della prima ora dei Beatles, che possiede tutti i dischi e i dvd del quartetto, compresi i bootleg in vinile da collezione. Delgrossi poi si vanta che lui assistette al terzo dei quattro concerti romani dei Beatles, che si tenne al Teatro Adriano, lunedì 28 giugno 1965 alle ore 16.30. Qualche suo vecchio conoscente smentiva la circostanza, ma lui prontamente, a richiesta, esibiva il biglietto d’ingresso di quel giorno, che però, secondo alcuni, lui si sarebbe procurato successivamente pagandolo salato a qualcuno che il concerto lo aveva visto sul serio. Che si trattasse di invidia marcia o di un tarocco confezionato ad arte, fatto sta che Delgrossi il biglietto ce l’ha e ti recita a memoria l’esatta scaletta dei pezzi suonati quel lontano pomeriggio. Inoltre, tuttora porta in testa un berretto nero con la visiera, copia perfetta di quello che esibiva Lennon durante i concerti capitolini.

De Mirtina così inclina a credere ai suoi racconti e, comunque, lo sta ad ascoltare per ore quando Delgrossi ricama memorie sui dorati anni ’60 e sulla beatlemania. Delgrossi lo ricambia andando spesso ai concerti dei LesBeat e approvando il loro considerevole repertorio che include: I Feel Fine, She’s a Woman, I Wanna Hold Your Hand, I Saw Her Standing There, Help, Baby’s in Black, She Loves You, Love Me Do, Please PleaseMe, Ticket to Ride, Long Tall Sally, Twist and Shout, Dizzy Miss Lizzy, I’m Down, Can’t Buy Me Love, I Wanna Be Your Man, Till There Was You, Roll Over Beethoven, This Boy,I’am a Loser, You Can’t Do That, Everybody’s Trying To Be My Baby,All My Loving,A Hard Day’s Night,Yesterday,Rock ’n’ Roll Music.

Bene, ottimo, commenta, è pressoché il meglio di quello che loro suonavano allora dal vivo e voi lo eseguite egregiamente, con grande fedeltà, anche nelle sfumature dei cori, dei controcanti e degli urletti. I compagni di De Mirtina si compiacciono del suo placet, presentandosi con i loro madornali eteronimi: Gionni Rickenbacker, Giorgetto Gretsch e Riccardino Ludwig.

Quando perciò è uscito il docufilm firmato da Ron Howard Eight Days A Week, incentrato proprio sugli anni della beatlemania furiosa, è stato inevitabile per De Mirtina e Delgrossi decidere di andarlo a visionare insieme. E dove? Ma naturalmente all’Adriano, che però oggi è un cinemultiplex e dell’antico teatro conserva a malapena la facciata esterna. Eh, sì, è cambiato tutto, che dispiacere, dice Delgrossi entrando. In ogni caso, il luogo ‘storico’ è quello e il docu si lascia godere sino al filmato finale, debitamente rimasterizzato, del concerto beatlesiano allo Shea Stadium di New York, il 15 agosto 1965.

All’uscita i due non possono non commentare quello che hanno visto.

“Beh, che te ne è parso, Giorgio?”.

“Che ti devo dire Stefano, tutto ben calibrato, ben montato, ma anche tutto molto scontato, già visto e stravisto milioni di volte. Insomma, nulla di nuovo”.

“Sì, è vero, anche se dicono che c’erano alcune immagini inedite. A me comunque è piaciuto. Per esempio, c’è quel momento in cui chiedono a John: ma perché urlano tutto il tempo? E lui prima dice che non sa proprio spiegarselo e, poi, che forse è come quando i tifosi urlano dopo un gol. La sola apparizione dei Beatles era come un fantastico, gigantesco gol nel mondo del pop-beat-rock. Che poi a strillare come ossesse erano per lo più le ragazze, ipereccitate e che si orinavano addosso, come fossero preda di un orgasmo isterico, sino allo svenimento”.

“Beh, certo, si sa, il rock e la musica dei Beatles avevano allora una formidabile funzione di derepressione e di catarsi erotica. Erano un richiamo sessuale fortissimo e irresistibile. Le ragazzine che urlavano stavano dicendo al mondo e a se stesse: voglio fottere, fottere, fottere, fottere e, ancora, bifottere, quadrifottere e strafottere senza fine… La musica beat-rock era come un simbolico megafallo che le trapanava tutte… Comunque, sulla beatlemania aveva, in fondo, già detto tutto, un film come A Hard Day’s Night di Richard Lester, poco valutato quando uscì nel 1964, e invece era una perfetta, ironica, ultradinamica e creativa rappresentazione della beatlemania colta in tempo reale, nel momento stesso in cui stava deflagrando. È divertente che adesso il regista Richard Lester ultraottantenne, ci racconti che la produzione gli aveva chiesto di girare la pellicola al risparmio, velocemente e senza sprecarsi, che tanto entro l’anno il fenomeno Beatles sarebbe finito. Mai profezia fu così comicamente sbagliata. Il film in Italia lo ribattezzarono sciaguratamente Tutti per uno, scambiando John, Paul, George e Ringo per i moschettieri D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis: però quel titolo apocrifo fu in un certo senso preveggente, Lester tra gli anni ’70 e ’80 girò ben tre film sulle avventure dei personaggi di Alexandre Dumas: The Three Muskeeters, The FourMuskeeeters e The Return of the Muskeeters”.

“Ma sai proprio tutto di questo regista inglese…”.

“Non è inglese, è americano, nato a Filadelfia. In ogni caso A Hard Day’s Night non è affatto invecchiato, dopo oltre mezzo secolo te lo puoi rivedere con piacere, come un videone musicale avanti-lettera e in bianco & nero, pieno di leggerezza ed arguzia. Non si prendeva sul serio e, te lo ripeto, diceva già tutto sulla beatlemania, il film di Howard da questo punto di vista non aggiunge nulla, anzi”.

“Okkèi, ma tu, invece, da beatlemaniaco della prima ora che cosa ti ricordi?”.

“Cosa ricordo? … Ricordo la tristezza della mia vita di ragazzino in quella Italia al principio degli anni ’60… avevo una famiglia modesta, stavo nella mia cameretta grigia a fare i compiti, c’era la scuola che non mi piaceva, anche se poi mi obbligavo a studiare, giocavo a pallone, ma non ero molto bravo, il massimo del pop che entrava a casa mia era Gianni Morandi (Fatti mandare dalla mamma, Andavo a 100 all’ora) oppure Mina (Renato) o Peppino Di Capri (Speedy Gonzales)… persino il Celentano di Il tuo bacio è come un rock,24000 baci e Stai lontana da me sembrava troppo moderno e trasgressivo con quel suo ancheggiare disossato e provocante alla Elvis Presley. Ecco Celentano introduceva il corpo, un corpo animalesco, ipersessuato nella scena della canzonetta italica e già quello era uno shock nell’Italia democristiana, baciapile e sessuofobica di allora. Ma quando un mio compagno di scuola, Massimo Gecchi, che strimpellava la chitarra ed era avanti a tutti per gusti musicali, mi fece sentire i primi dischi dei Beatles pubblicati da noi, fu come se si accendesse una luce. Una luce colorata, anzi multicolore, un arcobaleno musicale che mi apparve una visione. Una volta Wim Wenders disse in una intervista che il rock gli aveva salvato la vita. Ecco, non so se a me ha salvato la vita, ma certamente il rock, in primis dei Beatles, me l’ha illuminata… la mia vita in bianco e nero di colpo si riempì di colori allegri, entusiasmanti. Sì, proprio nel senso dell’enthusiasmòs del greco antico, del dio che filtra dentro di te, che ti indìa, e tu ti senti posseduto, come invasato da una energia che ti libera, che ti solleva, che ti dischiude inedite prospettive, che ti apre un nuovo mondo. Ecco, è così che mi sono sentito quando ho scoperto i Beatles e, attraverso di loro, il rock. Oggi credo che sia impensabile una epifania musicale e insieme ideale di portata così totale, coinvolgente e sconvolgente. La beatlemania per milioni di persone come me è stata una sorta di rivoluzione interiore, di ri-nascita, i cristiani direbbero una metànoia, un cambiamento radicale, dal quale non si poteva più prescindere…”.

“Sai Giorgio, ogni volta che ti sento riparlare di quei tempi, provo una invidia fottuta, perché tu e i tuoi coetanei allora c’eravate, eravate lì in tempo reale, mentre tutto questo accadeva, mentre nasceva… avete goduto in diretta dell’epoca d’oro del rock, del suo momento, come dicono i filosofi, aurorale…”.

“Lo so, e mi ritengo fortunato per questo… ricordo la trepidazione di tutti noi fans quando doveva uscire un nuovo disco dei quattro di Liverpool, e allora uscivano in Italia sempre in ritardo di settimane o mesi rispetto al Regno Unito e agli Stati Uniti… ma c’era comunque una febbre di attesa prima di acquistare… che so…Help o Rubber Soul o Revolver e non ti dico Sgt. Pepper’s, un vero delirio… perché avevi la sensazione di ascoltare una musica che era come una rivoluzione/rivelazione, di entrare in un mondo magico e incantato, dove grazia, fantasia e libertà si fondevano spontaneamente, quasi miracolosamente… Ecco, sì, i primi ascolti su precari giradischi d’epoca di quei long playing ti apparivano quasi un miracolo, ti facevano scoprire un universo musicale e ideale fino ad allora impensabile… forse gli stessi Beatles se ne rendevano conto solo fino ad un certo punto… forse loro catturavano magneticamente certe energie, certi enzimi epocali e li trasformavano in note musicali, come fossero canali, medium di forze misteriose, il cosiddetto Zeitgeist, che li attraversava, che si esprimeva attraverso di loro…”.

“Sì, tutto quello che ho visto, letto e ascoltato di quel periodo corrisponde più o meno a quello che racconti… una ventata di rinnovamento, di palingenesi epocale che trovava nei Beatles i portavoce primi, l’avanguardia pop-rock che batteva il ritmo del proprio tempo di cambiamento radicale. Noi, lo so, siamo soltanto le lontane copie di tutto ciò. Siamo dei graffiti musicali sorti in un’epoca antitetica alla tua. Siamo una sorta di rimpianto… io del resto sono nato dieci anni dopo la morte di Lennon…”

“Sì, ma tu e i tuoi compagni non vi crucciate troppo. Quello che fate come cover band è bello, la musica non passa, la musica vive, rivive ogni volta che la si suona. Rifacendo così devotamente i pezzi dei Beatles oggi, voi in un certo senso li eternizzate, comunque li rendete nostri contemporanei… del resto, le orchestre che suonano Haydn o Mozart o Beethoven, non fanno lo stesso? LesBeat è un atto d’amore, di vero, totale amore e come cantava Paul in Abbey Road: ‘And in the end the love you take / is equal to the love you make’…”.

“Mi confortano Giorgio le tue parole… sai, sento da più parti ripetere che il rock è morto e, forse, è vero, visto quello che passa la produzione attuale e allora mi domando se non siamo dei necrofili, dei puri passatisti…”.

“Ma lascia perdere, è sempre vero e, insieme, non è mai vero. Il rock non sarebbe fatto per durare, eppure dura. Anche quando Elvis se ne andò a fare il servizio militare e indossò la divisa dell’esercito yankee, qualcuno disse che era la morte del rock ’n’ roll. O quando nel giro di poco tempo tra fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 morirono in sequenza Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, i giornali suonarono le campane a morto per il rock. E invece, secondo me, quello che aveva capito tutto e aveva fatto un passo nell’altrove che poi era il suo delirio, un delirio veggente, era Syd Barrett, il ‘diamante pazzo’ dei primi Pink Floyd. Lui, mercé i suoi viaggi allucinogeni, aveva ‘visto’ la follia della sua epoca, aveva compreso la vanità del tutto ed era andato via, aveva ‘staccato’ il jack della sua chitarra, la corrente degli amplificatori e si era rinchiuso nel silenzio, in un suo silenzio creativo, da ‘uomo vegetale’ come diceva in cui aveva forse trovato la propria ‘peace of mind’ o magari no”.

“Mi è sempre sembrata una storia molto triste quella di Barrett…”.

“Chi lo sa… lui secondo me aveva realmente avuto una ‘visione’ inattingibile da tutti gli altri, in primis dai suoi compagni di band… Lui era la vera mente creativa del gruppo… l’esploratore verso lidi sconosciuti del rock e della psiche… canzoni straniate, suoni distorti, ossessivi, come a voler cercare una ‘lux eterna’ o il ‘buio assoluto’ che magari coincidono… un ellepì con i Pink, un paio di altri album solisti inclassificabili… un serie di esibizioni finali interrotte bruscamente dopo pochi minuti… forse lui sentiva l’insensatezza di tutto quello… il suo ritirarsi, fu un ‘aprirsi’ a qualcos’altro che non sapremo mai che cos’era… è vissuto fino a sessant’anni senza inviarci altri segnali, altri messaggi… la sua mente era volata in un altro spaziotempo, in un altrove psico-cosmico da cui non si ritorna, da cui non si può più comunicare…”.

“è la cosa che personalmente mi spaventa, quasi mi agghiaccia, perché è come un incubo che è il contrario del sogno contenuto, rappreso nella beatlemania”.

“Sì, Stefano, ma pure la beatlemania è finita, i Beatles si sono sciolti, il sogno colorato degli anni ’60 che loro rappresentavano, a cui davano voce musicale si mutò in qualche cosa di dark, di oscuro, in un malessere di cui fu avvertito per primo John Lennon, pensa alla sua The Dream is Over…”

“Quindi noi ‘coveristi’ sbagliamo tutto…”.

“Ma no, tu sei un ragazzo intelligente, lo sai bene che è un’altra cosa. Vivi in un’altra epoca. Tu riproduci un sogno che è, però, cosa ben diversa dal sognarlo e agirlo in tempo reale. Il sogno differito è, comunque, un atto poetico, ma nel segno del ‘ritorno del dolore’, la nostalgia. Rivivere un piacere contiene sempre al medesimo tempo il dolore per il momento primigenio di quel piacere, che quando lo vivi in diretta non sai che sta accadendo, lo vivi e basta, tu sei nell’accadimento, coincidi con il divenire, sei nel puro flusso dell’entusiasmo. Quando lo riproduci è un replay, è sempre bello, ma il piacere è necessariamente depotenziato, perché sai già di che cosa si tratta, non è più una scoperta, è un riscoprire… ma va bene così, non ti dispiacere”.

“Okkei… siamo arrivati… allora ciao, e… noi quando ci rivediamo?”

“Al prossimo concerto dei LesBeat, no?”.

03 Dee-Jay: le pare normale?

«Out of the Blue, sì, il pezzo dei Nude Vikings ce l’hai? Me lo dovresti mandare in onda con la dedica a una ragazza. Puoi prendere nota? Si chiama Gardenia, e io sono Spillo. Sì, basta così, lei capirà. Ciao… ah, sai che è proprio forte sta trasmissione. Ciao ciao, grazie».

Piero ‘Dj-Phantom’ Scansanti trascrisse meccanicamente i due nomi. La voce che aveva appena telescuffiato nelle sue auricole doveva appartenere a un ganzo di diciassette, diciott’anni massimo. Era una voce biascicata, di uno sballato senz’altro, pensò. Una quaterna di primavere aveva festeggiato, si fa per dire, in quel buco di culo di studio radiofonico. Radio Galassia. Tutte le notti da mezzanotte alle tre e mezza a mandare avanti da solo la trasmissione “Dedicanzoniamoci”. Una cazzata. Me se l’era voluta lui. Una cazzata schiavizzante oltretutto, visto che era tra i programmi di punta di quella scassata emittente locale. Nonostante o, forse, proprio in ragione dell’ora di messa in onda.

In ogni caso, Piero era diventato in quattro anni un esperto di voci. Un vociologo. Quante migliaia, anzi decine di migliaia di favelle aveva dovuto ascoltare in tutti quegli anni? Oramai riconosceva le fonotipologie a volo: la zona d’origine, l’età, il censo, lo stato psicofisico, persino se era la voce di uno o una che aveva appena chiavato e dedicava il brano all’amante ancora ansimante sdraiato accanto. Caso tutt’altro che infrequente. Il popolo notturno dei radioascoltatori era anche fatto di viziosi. Ciò lo attirava. E di maniaci. Ciò lo eccitava.

 

Chiamò Georgia, studentessa americana, voleva dedicare Janie’s Got a Gun degli Aerosmith all’amica Lilli che aveva giusto sparato ad un padre molestatore. Due in particolare erano i telefono maniaci tuttora suoi assidui interlocutori. Una donna all’incirca sessuagenaria con voce asmatico-bronchitica cronica che vomitava alla cornetta il suo odio per i commercianti e per i froci. Torrenti di insulti ai primi perché la derubavano cotidianamente esentasse. Ai secondi non si sa perché. Non lo aveva mai spiegato. In compenso per gli uni e per gli altri inventava ogni volta supplizi terrificanti horror-medievali a base di arti segati, occhi bruciati, impalamenti, ingurgitamenti di cazzi e coglioni ancora sgocciolanti, soffocamenti con cocktail di feci umano-bestiali e via strapazziando.

Rullo chiese Jailhouse Rock, la cover incisa dai Masterpiece, per Vaniglia. L’altro era un machomaniaco quarantenne brutale e sicuro di sé. Un tipo interessante perché si rivolgeva a Phantom secondo fosse una pin-up da telestuprare vantando la qualità pneumo martellanti della sua iperdotata nerchia, la possanza dei suoi muscoli, l’abilità della sua mano penetrante, persino l’afrore altamente erotico della sua secrezione sudorifera. Scansanti al principio aveva provato a dirgli che o aveva sbagliato numero o c’era uno sbaglio di persona e genere sessuale. Il fonomaniaco non se ne diede per inteso. Semmai raddoppiò la quantità e qualità delle sue avances. Un giochino che Piero dopo un po’ di telefonate aveva perfettamente inteso. Fingeva di resistere, di protestare per il piacere di sentirgli ruggire le volgarità più sporcaccione.

Non lo negava, no, che godeva molto nel sentire l’alito e la bava di desiderio sopra il suo fantasmatico corpo femminile: ti spanerò il culo fino a fartelo uscire dall’altra parte, ti leccherò quelle tette da maggiorata fino a fartele scoppiare, te lo infilerò per quanto è lungo giù in quella gola profonda da mangiacazzi mondiale che non sei altra e ingoierai litri e litri della mia sborra. Talora Piero si arrapava sul serio e metteva su un pezzo dedicato “ad un amico particolare”. Per esempio,Sex is Murder degli Stones.

Era il 12 agosto, mezza estate, la canicola era davvero tremenda. Essendo sabato poi, la più parte degli ascoltatori si spupazzava il week-end fuori città. Ciò spiegava il numero relativamente basso di richieste di dediche. All’una e quaranta, Phantom innestò la segreteria telefonica, programmò una sequenza di pezzi di circa venticinque minuti e uscì dallo studio. Meta il pianobar dall’altra parte della strada. Conosceva più o meno tutti. Rapidi saluti, il solito gin liscio. Da Ricard, il barman, un giovane sveglio con i capelli sempre lucidi di gel e un orecchino d’oro al lobo sinistro, che ti allungava lo sprack, l’ultima droga sintetica di moda, con la stessa eleganza con cui ti serviva il Michelangelo Bourbon o la Caipirinha, si fece presentare le due nuove entraineuses.

Due nere: Jade, martinicana, treccine rasta e occhi furbi fissati a un sorriso davvero noctilucente, e Milla, nigeriana, tutta crespa e inguainata in un tubino sotto cui esplodevano due enormi chiappe ben divaricate. Scansanti trescò un po’ con la seconda. “Il tuo numero?”. “Non me lo ricordo. Però, Ricard lo sa”. “Me lo farò scrivere, allora, sul conto”. Intascato lo scontrino del ruffiano, uscendo promise ai nuovi acquisti del locale che avrebbe dedicato loro un brano molto luxurioso.

Ripreso possesso della consolle, sorridendo mise sul piatto Je t’aimemoi non plus nella versione trucidissima degli Hard Squallors.

Ascoltò le telefonate registrate. Quattro richieste. La quinta proveniva da una donna. Ventisette anni più o meno. Nessun segno peculiare. Non voleva ascoltare alcuna canzone. Diceva soltanto: sono Bionca. Voglio che mi richiami. Il mio numero è 00-97-24.

Creature femminili cuori solitari o corpi in calore che cercavano l’aggancio non erano mai mancate. Nessuna tuttavia lasciava così d’acchito il suo numero telefonico. Piero che da sempre si barcamenava tra il gusto anche morboso di andare a scoprire il gioco altrui e la preoccupazione di non ficcarsi in storie rompipalle, con una delle tante matte col botto e macho prive che ti armano solo casini, restò lievemente spiazzato.

Voglio che mi richiami. È una abituata a comandare questa, si disse. Un tono quasi che non ammette repliche. Sarà una donna in carriera o una soldatessa, sghignazzò. Bionca, Bionca: ma non è il nome di una pornostar specializzata nella linea “anal”? Altra richiesta. Tunnel of Love di Bruce Springsteen per Herri da Tamara. Decise di richiamare.

Al sesto squillo il clic di una telesegreteria: sapevo che avresti richiamato, non sei un tipo difficile da agganciare. Del resto, ti ho studiato, ti conosco bene. Soprattutto conosco il tuo segreto, ma non ho fretta. Avremo tutto il tempo per… Ah, piuttosto: è inutile che cerchi di scoprire la provenienza delle telefonate. Dispongo di un sistema-pirata per strumentare le linee altrui. Potrei chiamare da qualsiasi posto. Da un altro continente, ad esempio. O da un altro pianeta, chissà… Ciao maschione minchione, o no? ah-ah-ah-ah-ah! Clic.

Ma è la stessa voce di prima? si chiese Phantom. Aveva a sua volta registrato il messaggio e lo riascoltò due volte prima di concludere che, sì, la radice fonica era la medesima, ma stavolta c’era una particolare vibrazione metallica. Forse usa, pensò, dei filtri distorsori, roba comunque da specialisti.

Erano le due e tre quarti. Nessuna richiesta. Il caldo quasi trasudava dalle pareti dello studiolo. Mise sul piatto Mondo mongoloide, il pezzo che preferiva dei suoi amici Pistole di Mezzanotte. Hard-core funk ’n’ roll puro.

Il segreto? Ma a quale segreto alludeva questa Bionca? Era forse una traccia quell’ironico e dubitevole riferimento alla sua maschioneria? Forse parlava del fatto che mi piace andare con i mulatti transessuali? Ma che segreto è, visto che lo condivido con molti amici e conoscenti? Questa città è stata sempre e soltanto un immenso trojaio. E io, ormai, l’ho, come dire, completamente introjettata. Donne o trans riesco a scoparli solo se li pago. È così e non c’è altro da dire. Me ne sbatto di farmi psicanalizzare. È roba da strizzacervelli di cent’anni fa. Fottetevi strozza encefali!

A venticinque anni appena compiuti, Scansanti storicizzava già con precisione la sua carriera sessuale. Sverginamento o iniziazione a quindici anni e tre mesi. Sì, un po’ tardi. A dire il vero sono stato precoce in nulla. Fino ai diciotto anni e mezzo, rapporti più o meno regolari con sei fidanzate. Il più o meno si riferisce al fatto che ogni volta dovevo fingere che era la prima volta che scopavamo, così inventavo complicati rituali di finzione. Quando non funzionava o qualcuna di loro si scocciava, grandi litigate e per settimane neppure ci sfioravamo.

Poi dai diciotto e mezzo ai diciannove e mezzo la grande folgorazione. Lei aveva circa trent’anni. Separata con casa disponibile. Si trombava tutti i giorni, ragazzi!, due, tre, anche cinque volte. Un’ossessione. Lei aveva il mito del sesso. Poverina, s’era liberata tardi. Illibata fino al matrimonio e s’era sposata a ventitre anni. Voleva mangiare sesso a colazione, pranzo e cena.

Credo che facesse anche degli spuntini senza di me. Inesauribile. Io dopo un anno ero esaurito invece. E poi senza i miei rituali mi sentivo espropriato, mi annoiavo. Faceva tutto lei. Così naturale, così abominevole come scrive il poeta. Le feci conoscere un mio amico che le sbavava dietro e mi sganciai.

Astinenza totale per sei mesi, poi una sera festeggiando il compimento dei vent’anni e della prima casa, gli amici mi fecero recapitare a domicilio un bel puttanone biondo: maxitette, volgare al punto giusto, gioielli falsi, risucchio “high professional”. Ci presi gusto. Pagare e comandare. Comandare per fottere. Niente più implorare e contrattare sul filo del ricattino sentimentale. Patti chiari, denari contanti e sesso lungo.

Tre e zerocinque. Un ganzo insonne con la voce impasta dall’acido chiede Psychedelic Blood dei Cramps.

Dunque, Phantom e il trojaio. Un capitolo lungo cinque anni. Arricchito dalla partecipazione a un paio di film porno. Solo come comparsa. Purtroppo. In uno, a dire il vero, si vedeva di scorcio e di lontano il mio uccello spompinato per cinque secondi. Comunque, avevo bisogno di soldi e il regista era un amico e un pornoset è un luogo anche divertente. C’erano per esempio due eccitatrici, anzianotte e maiale la loro parte, che provvedevano con acconce stimolazioni manual-boccali ad arrazzare gli stalloni meno esperti e professionali prima delle riprese. E si dannavano e sbuffavano le vecchie troje aizzate dalle bestemmie del regista, a sua volta arronzato e sturbato e sollecitato dal produttore, un giovane laido e ringhioso figlio di puttana, che aveva gran fretta di concludere con un po’ di scopate, qualche ammucchiata e via.

Ancora due richieste alle tre e un quarto. Una addirittura per Rod Stewart, vero pop-rock d’antiquariato, l’altra per i Plastika Bastardi Rompete le righe, non rompete i coglioni.

 

Per anni con l’amico Sandoz e quel lemure di Falco a dragare sistematicamente i marciapiedi metropolitani. Sandoz aveva ereditato e pagava per tutti e tre. Il suo obiettivo strategico era di incularsi tutte le battone e i battoni della città, che aveva diviso in zone strategiche su una vecchia mappa militare che aveva appeso sul retro della porta della sua camera da letto. Era la prima cosa che vedeva quando la mattina si risvegliava. Conduceva la sua campagna di penetrazione sodomitica con rigore ed energia inflessibili, coniugando Sade e Von Clausewitz. Non ammetteva defaillances. Entrò in crisi Sandoz quando si rese conto che la papponeria riciclava con una certa regolarità gli effettivi della prostituzione, e che quindi il suo progetto era irreale, puramente maniaco-ossessivo. La sera che bussò a quattrini, confessandomi di aver dilapidato l’eredità, litigammo di brutto. Con freddezza, com’è mio solito in simili circostanze, gli alitai in faccia la mia diagnosi. “Sei un porno mentecatto paravisionario. T’ho seguito negli ultimi tempi solo per noia e per vedere fin dove ti saresti spinto. Ora sei a zero e me ne strafotto. Ho un suggerimento: fai la prova a rovescio. Mettiti tu a battere per vedere se riesci a farti tutti i culattoni di questa dannata città. Forse mi avrai tra i clienti”.

Ci picchiammo. Gli spezzai un incisivo con l’anello testa-di-morto stile Keith Richards che portavo al medio della mano sinistra. Con una testata lui mi fece un taglio sotto l’occhio destro. Ci separarono delle mignotte afro. Dopo quella serataccia non ci siamo più sentiti.

Tre e venticinque. In transito sul raccordo un camionista con radiotelefono e filo-underground

chiede Dirty Candy di Jesus e Mary Chain. Mi viene in mente che l’altro giorno stavo seduto ad un caffè e c’era una signora ad un tavolino accanto al mio che all’improvviso ha fatto una mossa goffa e le è caduta per terra la borsetta da cui sono uscite delle chiavi, un rossetto, un portamonete e il tubetto di una crema antirughe. L’ho prontamente aiutata a raccogliere tutto e lei mi ha ringraziato con un sorriso sbiadito. Era una donna sulla quarantina con un volto tra interdetto e sconsolato: “Lei mi crede se le dico che quando la mattina mi sveglio e mi alzo, sono già stanca? Penso alla colazione da preparare, ai bambini da vestire e accompagnare a scuola. E poi al pranzo e alla cena da fare e, insieme, a dovermi truccare, vestire, essere impeccabile per mio marito, così che vorrei che fosse già sera per ritornare a dormire. Ecco, le pare normale pensare sempre a dormire, come unico piacere della vita?”. L’ascoltavo stranito e interdetto pure io. E non sapevo che dire, come risponderle. Lei insisteva: “Le pare normale?”. “No, certo. Magari è un periodo di particolare stanchezza… forse dovrebbe fare una vacanza”. “Sono anni che vado avanti così. Non ce la faccio più. Le pare normale?”. Quindi la donna si è infilata la borsetta sotto il braccio, si è alzata di scatto e si è allontanata senza nemmeno salutarmi. Mi sono sentito un po’ uno sciocco di fronte a quella moglie-madre, una donna qualunque, già sull’orlo di una crisi di nonsenso o persino oltre. Lei viveva la irrealtà di una quotidianità meccanica, ripetitiva, che in fondo, riflettevo, ci riguarda tutti. Riguarda anche il deejay che sono e che notte dopo notte mette in automatico dischi dedicati da degli schizzati ad altri schizzati.

 

Sono le tre e mezza, trasmetto l’ultimo pezzo richiesto: Baroque Bordello degli Stranglers, da quell’album capolavoro che è The Raven. Mi sembra una conclusione punk perfetta. Il mondo è giusto un bordello barocco e privo di senso. E la percezione di una insensatezza panica ci sovrasta tutti. Rientrando a casa, mi arriva un sms: “Ti sto alle calcagna Phantom, ti tengo d’occhio. Sai che diceva lo scrittore Ennio Flaiano? ‘Coraggio, il meglio è passato’. Per te, sicuramente. B”.

B chi? Bionca? Bionca chi? E come ha avuto il numero del mio cell? È uno scherzo o una persecuzione? Comincio a preoccuparmi, mi accompagna la sensazione di un non so che di ancestrale in cui s’immerge e si spaura il male di vivere o disvivere non trovando mai un senso. Risento come un eco la voce atona di quella donna: “Le pare normale?”.