Senza il senso dell’essere e della sua verità la strada al totalitarismo è aperta
di Francesco Correggia
Per prendere coscienza sul tema dell’universalità del linguaggio vorrei tornare al pensiero di Aristotele e al suo celebre passo sulla preminenza della vista. All’inizio della Metafisica si dice che la vista è il primo e il più importante dei nostri sensi perché rende percepibile un gran numero di differenze. Questo è il motivo guida di gran parte dei fautori della preminenza dell’immagine, e dell’occhio sulla parola
L’affermazione non dice bene ciò che veramente Aristotele pensava. Altrove egli attribuisce questa preminenza all’udito. E lo fa nel libro: Del senso. In effetti l’udito ascolta i suoni del parlato dando modo così di percepire il maggior numero di differenze, tutte le differenze possibili. L’universalità dell’udito rinvia all’universalità del linguaggio. Un altro brano su cui Aristotele prende posizione sull’argomento è la famosa definizione dell’uomo, nel contesto del libro: La politica, come animal rationale. Il grave errore in cui s’incorre fa notare Heidegger è quello per cui si traduce nel passo aristotelico, logos con ratio e si definisce l’uomo, un essere dotato di ragione.
L’errore è di non comprendere fino in fondo il nesso che lo lega al tutto. Il contesto in cui dobbiamo leggere logos è la natura. Si parla della natura che negli uccelli si è sviluppata al punto tale che possono scambiarsi segnali che indicano la presenza di pericolo o di cibo. Nell’uomo invece la natura è andata oltre donandogli il logos, ovvero la possibilità di indicare le cose mediante le parole.
Quando tentiamo di definire che cos’è parola dovremmo, intanto, precisare che cosa intendiamo dire. Non si tratta della parola presa rispetto a una promessa o di una specie di agente della comunicazione sociale, la parola parlata, anche se questa oggi è di notevole importanza, ma intendiamo riferirci alla parola esprimente, alla parola dicente. A quella parola che pronuncia un senso, che afferra una cosa, che dice la distanza ma anche la prossimità. Vogliamo qui riferirci alla parola matura, come germe vivo di infinite formazioni. Sono la voce, il suono, la lingua il terreno fertile di questa parola che permette a ogni uomo di sentire in modo vivo che egli è, nient’altro che una particella del tutto. È proprio nel sentirsi dentro un progetto umano e al contempo divino che fa della parola la casa dell’essere.
Tra la parola e le cose c’è lo stesso rapporto antinomico e complesso che c’è fra scienza e filosofia. Sia la scienza sia la filosofia sono descrizioni della realtà ovvero sono una lingua, che in entrambe ha una forza particolare. Il cammino della scienza, che ora è del tutto piegata alle nuove tecnologie, ha reso ancora più difficile se non impossibile, tale rapporto. Le tecnoscienze promettono l’eternità. L’uomo è alimentato da una corrente insaziabile di tecnologie che si rivelano come un progetto demiurgico, come una promessa. La produzione intermediale ha eliminato l’antica alleanza verbo- iconica che rispondeva ad una logica veritativa, alla volontà di comprendere il senso e la portata significativa di ciò che si mostrava.
Ora le immagini sono come le cose, sono la stessa realtà anche se essa viene chiamata realtà virtuale. Gli schermi, che ormai esprimono la latitudine infinita della nostra possibilità di vita, non sono semplici superfici riflettenti ma supporti di luce, quasi entità divine che si diramano nello spazio e si connettono fra di loro. Quel nesso interpretativo fondato sulla capacità della lingua di esprimere il pensiero umano in rapporto al divino, pur nello scarto fra parole e cose, immagine e realtà è consegnato alla volontà delle immagini e allo sguardo dei media che pretendono da noi sempre più soggezione e asservimento.
Neppure la parola di Dio può salvarci da questo mescolamento, da questo indistinto di luce e tenebre. Il Verbum è confinato in uno spazio metafisico dove l’idea stessa di trascendenza è annullata dalla speranza robotica, dall’intelligenza artificiale, dalla capacità tecnologica di poter essere eterni. Questa distanza fra la parola e il mondo deriva dalla mancanza di una parola matura, che sa nominare le cose, sa chiamarle da e per il loro luogo .
Il concetto di emulazione fra l’essere umano e la macchina è un esempio estremo di come la scienza e cioè il progresso scientifico nella sua dimensione tecnologica stia sostituendo la religione come modo di realizzare aspirazioni e illusioni culturali profonde. Il transumanesimo ne è un esempio tipico. Dietro le tecnologie future, scrive Mark O’Connell, sembra riemergere il mormorio di idee antiche: si parla di trasmigrazione delle anime, di eterno ritorno, di reincarnazione. Nulla è veramente nuovo, non c’è nulla che muoia davvero; tutto rinasce in una forma nuova, con un nuovo linguaggio, un nuovo sostrato per la mente.
Questi aspetti della tecnologia che caratterizzano l’uomo odierno non sono inscindibili dalla lingua e dalle parole che usiamo per descrivere la realtà e definirne il senso. La peculiarità della lingua consiste nel suo aspetto convenzionale nel suo essere parlata e compresa ma anche nel suo essere di volta in volta inventata, nel suo essere oggettiva da una parte e individuale dall’altra, rigida ed elastica al contempo. Come dicevano gli antichi, il nutrimento di un popolo è la lingua nelle sue antinomie. La forza della lingua è la sua costante reinvenzione, pur nel rispetto dei suoi aspetti normativi, oggettivi. Queste due anime, la dimensione convenzionale e quella creativa convivono in essa come una coppia. Con la loro contraddittorietà esse danno luogo alla lingua, all’infuori di esse la lingua non può esistere .
La parola all’interno di questa antinomia è la porta della conoscenza. Sono le parole che chiamano ad esistere e che portano le cose allo sguardo. La parola deve essere considerata non il supplemento delle immagini o delle nostre menzogne velate di trasparenza, ma come oggetto della conoscenza, atto che permette di entrare in contatto con la sua sostanza significativa, con la sua energhèia che apre al vero vedere. Si tratta di qualcosa che sta al di là della nostra esperienza reale sebbene la contenga. Purtroppo la rappresentazione del nostro mondo è senza una parola sintetica, è senza pensiero, ma quel che è sostanzialmente terrificante è che siamo in preda a quella dimensione di dominio del potere delle tecnoimmagini che nel semplificare ogni atto di parola ci allontana dal pensare. Non sono le immagini che ci fanno smettere di pensare, non è lo sguardo con cui catturiamo il visibile, ma l’alleanza tecnologica fra immagini e realtà che ci induce a riflettere fino in fondo sulla nuova condizione esistenziale. Viene meno quel nesso fra parola e visione, essere e sguardo, parola e pensiero, parola e verità che ci fa essere umani e senzienti. Al loro posto c’è la pericolosa tendenza alla mitizzazione, al simbolismo arcaico e preverbale, all’aspetto distruttivo della parola.
Slides (a cura di Francesco Correggia)
Senza il senso dell’essere e della sua verità la strada al totalitarismo è aperta. Esso è filtrato dallo schema di un linguaggio che ha abbandonato l’essenza della lingua, la sua dialettica transnazionale e affossato per sempre quella parola capace di trattenere presso di noi il respiro della libertà: il Logos. La parola dicente è desiderio di spirito e di libertà, di un popolo, di un insieme di differenze raccolte sotto lo stesso nome, di tradizioni, di saperi, di conoscenze.
Purtroppo le parole che circolano in rete e nei media televisivi, diventano ombre della loro sostanza significativa, ottenebrano perfino il nostro sguardo. Esse si librano nell’aria come sostanze velenose senza alcun rapporto con la storia della lingua, con la voce, il suono, la conoscenza e quindi con quel gesto, che accompagna ogni nostro atto di parola. Che dire sarebbe parlare senza quella coerenza del gesto che ci cambia e ci porta alla parola?
Il regime della comunicazione si mostra nell’immediatezza, nei consumi, nel trionfo di una specie di estetica della distruzione con un linguaggio usurpante e onnisciente. I media tecnologici, i Social Network, Instagram e i programmi televisivi di intrattenimento sono le protesi suadenti di questo nuovo dominio che è anche sudditanza al tecno-capitalismo finanziario, apertura all’orrore. La lingua viene orribilmente sporcata, spogliata della sua essenza antinomica per circolare nella fiera della comunicazione di massa.
L’aspetto conativo del linguaggio di cui noi facciamo quotidianamente uso è cieco, rasenta la superstizione. Ciò di cui si parla spesso è stato formato, levigato, ottenebrato dai media. È dagli schermi televisivi dai social networks che provengono le malformazioni del linguaggio, la malattia della lingua, la violenza. Immagine e parola violano la dimensione culturale del dialogo, del faccia e faccia, della conversazione, della sapienza.
Come scrive Alasdair MacIntyre in modo drasticamente negativo, la nostra modernità è caratterizzata da un totale analfabetismo etico. Più che con un popolo abbiamo a che fare con una massa indistinta di individui, senza cultura, ottenebrata dal denaro, dai consumi, dalla menzogna, dal richiamo all’identità. Qui cultura è da intendersi nel senso di Hegel: cultura vuol dire guardare le cose dal punto di vista di un altro, imparare a comprendere l’altro dal suo punto di vista.
La parola si restringe, si accorcia nel suo tradursi in merce. Essa perde il suo requisito specifico, la tensione dell’antinomia linguistica tra suono e nominazione, voce e linguaggio, significato e verità che la caratterizzava. Il fatto che esistano solo interpretazioni e non fatti nell’era della società inter- mediale e tecnologica non fa che aumentare il disprezzo per l’autenticità e per la stessa verità. Senza un’interpretazione veritativa la menzogna ora si confonde con la verità.
La moda di oggi è essere visti, guardati, ammirati con un numero sempre più alto di Like, circolare in rete, gridare, fare scandalo, pubblicizzarsi. Tutto ciò, oltre a condurci nelle mani di una tecnocrazia intermediale, rassicura il popolo, (almeno ciò che è indicato con il termine popolo dai politici nostrani senza preoccuparci troppo del suo significato linguistico), lo libera dalla paura di sentirsi accerchiato dal diverso, dallo straniero, da potenze invisibili. È così che si ottenebrano le menti e le si controlla. Intanto, mentre si consumano i riti dello spettacolo integrato, il transumanesimo e il laboratorio criogenico dell’Alcor assicureranno ai ricchi che non vogliono morire la vita perenne, l’immortalità, il viaggio nel futuro, nuovi paradisi, chiudendo così il cerchio dell’indifferenza umana.
Davanti a queste immagini magnetiche e allo sfarfallio tecnologico delle pianure di resurrezione futura, dei congegni robotici impiantati nel corpo, della super intelligenza artificiale l’essere umano sembra consegnarsi alla macchina, all’artificio, ad un nuovo Golem, senza preoccuparsi dei problemi del pianeta. Il suo creatore aveva inciso sulla fronte del primo robot arcaico (figura antropomorfa della mitologia ebraica) costruito per proteggere il popolo di Israele, la parola Emet. Essa aveva un doppio significato: fedeltà e verità. Quando il “Golem-Robot” sfugge al controllo del suo artefice distruggendo ogni cosa è con la parola detta e segnata sulla fronte del Golem che il meccanismo si interrompe, l’artificio viene interrotto. Così scrive Ernest Cassirer: La parola entra quasi come una formazione di un altro ordine, di un’altra dimensione spirituale tra i particolari contenuti intuitivi che si affollano nella coscienza nel loro immediato qui e ora; è proprio a questa posizione intermedia, a questo distacco dalla sfera dell’immediatamente esistente che la parola deve la libertà, la levità con cui può muoversi, con cui collegare i diversi contenuti. Essa è come un germe da cui nasce tutto il resto.
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LA PAROLA DIVINA
La parola è un atto divino. Dio si rivela a Mosè nel rovente ardente con la parola, pronunciando io sono colui che sono. Se lo sguardo accende l’immaginario in una concatenazione di riferimenti visivi, ottici, che hanno nella realtà che si osserva il punto di partenza la parola si rivolge non solo a quel qualcosa di inaspettato che chiama all’essenza delle cose e che pure apre a nuove esperienze visive ma anche a qualcosa che va oltre il visibile. Per sua natura essa si rivolge all’essere delle cose. In questo suo rivolgersi c’è anche un prestarsi, un ascoltare ciò che trascende l’esperienza stessa del visibile. Se non ci fosse la parola chiara che esprime, non solo il suo potere nella lingua, ma anche il suo dirigersi verso l’essere e l’altro che sa ascoltare non avremmo accordo fra parlanti. Anzi non avremmo nessun accordo. I conflitti, le guerre, la violenza sono il risultato di un ritiro della parola che non sa porgersi o meglio essa si presta ad essere equivocata. Il suo aspetto che apre alla verità come alla menzogna dispone al fraintendimento, al male e apre allo scontro anziché prevenirlo. Non ci si mette d’accordo perché non ci si capisce nonostante si parli la stessa lingua.
Ecco la natura enigmatica e divina della parola. Si tratta di quel Dio che non si vede e si nasconde, ma che pure rimane lì in attesa che qualcuno lo chiami. Eppure quante volte abbiamo pensato che questo Dio si sia ormai girato dall’altra parte e non vuole più avere a che fare con i suoi figli. L’onnisciente, colui che sa tutto e conosce tutte le cose pare si sia ritirato dalla parola. Sembra che l’atto della creazione divina si sia richiuso in se stesso, lasciando agli umani parole vuote, senza voce, senza significazione. Dio non è morto come dichiarava Nietzsche, è solo assente. L’assenza comunque ha a che fare con una sospensione momentanea. Il definitivamente morto non può resuscitare soprattutto se è Dio mentre l’assente potrebbe rifarsi vivo e potrebbero essere la parola a farlo tornare fra noi. Come deve essere intesa questa parola condensata della quale stiamo ragionando ?
E’ possibile una parola responsabile senza la presenza dell’uomo che l’ha pronunciata ?
La parola è dell’uomo, anzi è l’uomo. La natura della parola divina e quella dell’uomo coincidono. La parola è la relazione stessa dell’uomo con l’altro da sé: gli altri esseri, le cose, il mondo. Per essere essa deve presentarsi più nutriente della parola ordinaria, smisuratamente più concentrata e succulenta e al contempo deve essere solida, rigida perfino di più della parola parlata. Con la sua definitezza interiore la parola che stiamo indagando dovrebbe dare al nostro spirito piena libertà di tornare sempre a essa, senza esaurirla. Là dove la si lascia in mezzo agli uomini essa continua a riverberare come un nutrimento nuovo, una fonte di nuove energie vivificanti e nuovi arricchimenti. In questo senso la parola è più esposta rispetto al vedere, in quanto parola vera. Essa sarà piuttosto determinata a partire dall’essere come parola in cui accade la verità.. Così è possibile, ricollegandosi a Heidegger, porre la questione della verità della parola.
La parola nomina la cosa. Ma all’inizio la parola è voce, suono, è phoné. Essa indica il suono come udibile e come oggetto della percezione, in senso preminente, estetico. La relazione che stringe i due termini indica in particolare il rapporto con il mondo, e con i contenuti messi in gioco dall’ascolto. La parola in questo gioco di percezioni è come una nuvola. Ci suggerisce delle immagini che stanno nella nostra memoria per poi cancellarle. Il nome che abbiamo assegnato alla cosa non è ancora propriamente un nome. Non è sufficiente denominare la cosa così come capita. Essa deve chiamarsi così come noi la chiamiamo; il nome deve attestare che la cosa è stata assunta nel mondo dell’universalmente conosciuto e riconosciuto, e in quanto definizione stabile della cosa, deve contrastare senza violazioni l’arbitrio individuale. Ecco perché la parola dicente deve dire la verità sull’essere e al contempo deve includere l’altro, farsi altro.
La comprensione della parola è un’attività di contatto interno con l’oggetto da essa denotato. Ma questo contatto può avvenire solo attraverso una coesione spirituale. Se questa manca si arriva all’incomprensione. In un mondo fatto di immagini la parola deve assumere il compito non solo di nominare la cosa ma di svelare il tratto nascosto dell’immagine, la sua natura. Deve ricollegarci all’origine e poter svelare l’ignoto che sta dietro l’immagine.
La parola non è un segno come gran parte della semiotica ci aveva fatto pensare ma piuttosto ha a che fare con una metaforica, con una simbolica. Ridurre tutto a segno non vuol dire niente. Certo che il mondo è segno, l’uomo è segno e come tale è segno di qualcos’altro ma il significato che la parola scritta porta con sé è proprio la pienezza di senso a cui essa conduce mettendo a nudo le apparenze. E’ da qui che si rivela la ricchezza, la profondità della parola in rapporto all’immagine. La parola non si lascia mescolare con l’immagine ma ne rivela il carattere di cosa, il suo sfondo contraddittorio persuasivo e seducente e al contempo ingannevole. La parola non cede all’immagine, come se la medesima fosse un segno da interpretare, ma la rivolta, rivelandola appunto per quella che è, per ciò che vuole da noi.
Le opere d’arte del passato, ma anche quelle non figurative del presente possono essere lette non solo con lo sguardo che le indaga e a volte le subisce ma anche come un testo dal contenuto inesauribile. Così in rapporto all’immagine la parola induce a pensare conducendoci là dove la visione svolta l’angolo della comprensione.
Il vedere non è solo trasparenza dell’immagine ma percezione dell’essere che la parola rivela attraverso l’opera. La parola si scrive ma anche si ascolta: è suono; si vede. Essa esce dall’impasto della lingua e fa vedere ciò che prima non era possibile vedere, fa udire ciò che prima non era possibile udire. Sono le relazioni con la sua natura simbolica e di pensiero che essa racchiude in sé che donano alla parola l’inesauribile energia svelante. Ma può accadere anche il contrario. L’opera d’arte introduce nel vedere un nuovo registro di percezione che tocca in profondità il pensiero e cioè il linguaggio. Così la parola si manifesta nella sua essenzialità. E’ come un vedere per la prima volta ciò che si manifesta davanti a noi. L’opera così non è solo un manuale scolastico che si getta via subito dopo averlo visto o ascoltato ma si prolunga all’infinito, sviluppandosi in nuovi nessi, nel suo rapporto con il suono, la voce, in sostanza con la parola divina.
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