Questa è la sfida. Girare un film interamente raccontato dagli occhi e dal cuore di Amal. Un film che attraverso la soggettività assoluta dello sguardo di Amal racconti la sua esperienza, un calvario simile a quella di milioni di altri bambini come lei
di Luigi Fabio Mastropietro
1. Il progetto
Questo progetto nasce da un bisogno primario che, qualora venga soddisfatto, inevitabilmente rifonda il senso del fare cinema e la prospettiva stessa dell’arte. Il bisogno di un gruppo di artisti e operatori della comunicazione e dello spettacolo di creare un film per il mondo.
Prima di entrare nel dettaglio del soggetto del film, è doveroso ricordare che il progetto è sostenuto dal patrocinio dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra e, per la parte tecnica e produttiva, da Sinossi Film.
Quanti film, tra produzioni mainstream e indipendenti, vengono girati ogni giorno nel mondo? E quanti di questi film, anche se si dichiarano indipendenti, sono prodotti non solo per la gloria e la fama e la sete di affermazione personale e la febbre di cassetta e il glamour del red carpet ma sono concepiti veramente per il mondo? Per raccontare al mondo una storia che appartiene al mondo che viviamo? La risposta è desolatamente retorica: i film in grado di cambiare la percezione del mondo oggi sono pochi e spesso non sono distribuiti.
Al di là dei virtuosismi personali che possono anche condurre ai fasti degli Oscar e delle esigenze del mercato televisivo che lo stanno uccidendo, il cinema, nel suo valore originario di settima arte del sogno e baluardo simbolico dell’immaginario collettivo, nasce proprio dall’incontro e dalla communio di menti e cuori devoti di quel sogno e schiavi di quella magia che solo l’immagine del grande schermo può trasmutare in emozione. Una emozione in fondo misteriosa e così potente da poter cambiare la conoscenza e la percezione del mondo in profondità e con un effetto maieutico sulle menti e sui cuori degli uomini più immediato della lettura di un grande romanzo e più duraturo dei segni di un viaggio ai confini dell’esistenza.
Per questo Con gli occhi di Amal è prima di tutto una sfida e probabilmente rimarrà una sfida con il dio del cinema fino all’ultimo fotogramma. È la sfida di riuscire a restituire la voce a chi non l’ha mai avuta. È la sfida e la scommessa di alcuni “cineasti” di restituire la voce ad Amal Ali, la bambina yemenita uccisa il 1° novembre 2018 dalla fame e dalla guerra ma anche dall’indifferenza. La sfida e la scommessa di restituire un corpo ad Amal, simbolo immortale delle indicibili sofferenze di tutte le bambine e di tutti i bambini yemeniti o di altra nazionalità che sono quotidianamente affamati e bombardati dai conflitti dimenticati che insanguinano il mondo.
Amal ha mai parlato? Ha mai potuto raccontare la sua storia prima che la denutrizione le prosciugasse l’ultima cellula del corpo? La storia di Amal è la storia di milioni di bambini che scontano il dolore di un’intera generazione sterminata dalla follia e dal masochismo della specie umana sulla strada dell’estinzione. Del resto, quale migliore strategia per accelerare la fine della civiltà umana se non quella di Erode?
Eppure la storia di questi bambini resta muta. Il loro dolore cieco. Il loro sacrificio inutile. Almeno fino a quando la loro vita così travagliata e la loro morte tanto efferata non hanno corpo per il mondo. E allora, forse solo il cinema, un certo cinema, può resuscitare il corpo di Amal e renderlo finalmente presente e tangibile per il mondo.
Questa è la sfida. Girare un film interamente raccontato dagli occhi e dal cuore di Amal. Un film che attraverso la soggettività assoluta dello sguardo di Amal racconti la sua esperienza, un calvario simile a quella di milioni di altri bambini come lei.
Che cosa ha visto Amal mentre la sua casa crollava e lei restava sepolta sotto le macerie? Che cosa ha pensato Amal mentre era sepolta viva e aspettava che il suo piccolo cuore impazzito battesse per l’ultima volta? E che cosa hanno visto i suoi occhi quando si è svegliata nell’ospedale da campo e i suoi genitori non erano con lei?
Chi era veramente Amal e che cosa resta di lei nel cuore di chi l’ha conosciuta e di chi la vede per la prima volta? Di chi per la prima volta al cinema guarda la morte con gli occhi di Amal?
2. La storia di Amal
Amal Ali è una bambina di sette anni che vive a Hodeida, una delle città portuali più grandi dello Yemen, con la madre Maryam, il padre Mohammad e il fratello Naif di dieci anni.
Il padre e la madre di Amal professano entrambi la religione musulmana sciita nella variante zaydita che è la stessa professata dai ribelli Houthi in opposizione alla maggioranza sunnita del paese. L’osservanza dei precetti della sharīʿah da parte di Mohammad e Maryam è puntuale senza mai essere oppressiva o fanatica. Maryam indossa in pubblico uno hijab nero che le copre il capo e le spalle ma le lascia scoperto il volto e solitamente esce di casa anche da sola.
Mohammad compie le cinque preghiere obbligatorie e le abluzioni e osserva le altre prescrizioni del Corano, trattando la moglie e i figli con devozione e amore e gli altri con rispetto e compassione. Quando ritorna dal lavoro, stanco e bruciato dal sole, qualche volta si sdraia sull’amaca di corda della veranda in ombra che affaccia sul mare, a sorseggiare una tazza di tè o a masticare un po’ di qāt.
La vita di Amal è quella di tutti i bambini della sua età, che dividono la loro giornata tra la scuola, la routine familiare e il gioco con i coetanei. Una vita relativamente tranquilla, considerati il contesto ambientale e culturale e la modesta estrazione familiare, con il padre che si occupa da sempre di commercio ittico e la madre, sarta esperta.
Amal incarna l’orgoglio materno di Maryam e l’adorabile idolo di Mohammad che nei suoi occhi scuri ritrova lo stesso sguardo serio e assorto della sorella Fatima, morta di tifo a cinque anni. Per questo il papà spesso la chiama Euyun jamila, Occhi belli, con un misto di tenerezza e nostalgia.
L’intelligenza analitica di Amal è sorprendente ed è ammirata dagli stessi insegnanti della scuola primaria che la bambina frequenta con profitto da due anni. La passione di Amal è la matematica e i suoi giochi preferiti sono la dama e tutti i rompicapo e gli enigmi che mettono alla prova l’ingegno dei giocatori. A differenza delle sue coetanee, Amal non ama particolarmente i giochi cosiddetti femminili e spesso le sue compagne di scuola devono pregarla perché partecipi al gioco della mamma che cucina il saltah e il maraq o agli altri giochi delle bambine della sua età.
Naif invece va matto per il calcio e il suo idolo, naturalmente, è Ronaldo. Naif partecipa a tutti i tornei improvvisati con gli amici sulle spiagge di Hodeida e spesso fa perdere le sue tracce fino a sera inoltrata, causando preoccupazione e ansia nei genitori. Pure, a volte Naif cede alle moine di Amal e accetta di giocare con lei, perfino al gioco dell’insegnante e dell’alunno. In tal caso, inevitabilmente Naif finisce con l’interpretare il ruolo dell’alunno.
Da qualche tempo, tuttavia, la famiglia Ali deve fare i conti con la minaccia incombente della guerra civile che dal 2015 insanguina il paese.
Dopo il 9 agosto 2018, quando un missile della coalizione saudita ha centrato uno scuolabus scolastico vicino Dahyan e ucciso 43 studenti, il terrore dei bombardamenti sauditi ha rivoluzionato l’agenda quotidiana delle famiglie di Hodeida. Niente più giochi sulla spiaggia o all’aria aperta, scuole chiuse a tempo indeterminato anche per via del mancato pagamento degli stipendi agli insegnanti, apertura dei mercati alimentari solo in piena notte, e altre limitazioni da coprifuoco. Ma soprattutto la paura si è insinuata come un veleno letale in ogni piega della giornata e ha intossicato sia la luce del giorno che il buio della notte.
Portfolio di Matteo Pappadopoli
Da qualche mese poi, al morbo dilagante della paura si accompagnano i volti spettrali della fame e della sete. È sempre più difficile trovare generi alimentari nei negozi e l’acqua potabile non è quasi più disponibile. Nelle zone rurali del paese i bambini muoiono come mosche di fame e di colera, nell’indifferenza generale della comunità internazionale, ad esclusione delle solite poche organizzazioni non governative che sono ancora presenti nel paese ma possono fare ben poco da sole e in uno scenario di guerra permanente così frammentato e imprevedibile. Ormai gli abitanti di Hodeida, per trovare l’acqua necessaria per i bisogni quotidiani delle famiglie, devono percorrere tragitti sempre più lunghi e pericolosi, anche fuori città.
Per questi motivi, alla fine del mese di settembre, Mohammad e Mariam hanno deciso di partire e lasciare a malincuore la loro piccola casa bianca all’ingresso del porto, avventurandosi in un viaggio lungo e insidioso fino a Sana’a, dove un cugino di Mariam ha promesso di accogliere la famiglia Ali, almeno fino a quando la situazione politica non si sarà stabilizzata. In Yemen non esistono ferrovie e la famiglia Ali dovrà recarsi a piedi fino a Hajja e affittare in loco un carro con un cavallo che li conduca fino a Sana’a.
In questo contesto generale di terrore per i bombardamenti sauditi e le rappresaglie governative e in questo particolare milieu impastato di sfinimento e angoscia per un futuro quanto mai oscuro, Amal e i suoi familiari affrontano l’ultima giornata a casa prima della partenza.
Catabasi
La sera del 28 settembre 2018, Amal e Naif sono seduti sul tappeto ai piedi del letto dei genitori, impegnati in una partita a dama che è un rito serale amato da entrambi, prima di sedersi a cena con i genitori. Fuori l’aria è calda e immobile e un grande sole morente incendia il cielo sul mare di Hodeida. Il silenzio è venato solo dal salmodiare del muezzin della moschea del porto, mentre nell’attigua stanza della preghiera, Mariam e Mohammad stanno ultimando gli ultimi preparativi della partenza.
La notte è già fonda, quando Amal dal suo lettino sgattaiola nel letto di Mariam e Mohammad, accoccolandosi tra i corpi stanchi e assonnati della madre e del padre. Da qualche giorno Amal ha il permesso di dormire con i genitori perché i suoi incubi si sono fatti più frequenti. Naif, invece, dorme placido in una sorta di sgabuzzino ricavato a fianco della cucina comune, sognando interminabili partite di calcio sulla spiaggia.
Amal è immobile ma ancora sveglia, nell’incavo caldo tra i corpi supini di Mariam e Mohammad che sembrano respirare all’unisono il sonno dei giusti. Gli occhi di Amal indagano l’oscurità come se fossero alla ricerca di una traccia di luce per illuminare un domani insondabile a tutte le sue previsioni. L’adrenalina del viaggio imminente e la paura di addormentarsi nell’incubo del tunnel le irrigidiscono le piccole membra inquiete.
D’improvviso Amal percepisce come un ronzio leggero e lontano che presto muta in un rombo basso e vibrante che si fa sempre più cupo e vicino, fino a diventare quasi un boato. Automaticamente Amal si rannicchia in posizione fetale, appena un momento prima che Maryam si giri ad abbracciarla e una sola frazione di secondo prima che il mondo venga giù in una montagna di macerie e di dolore.
Amal non sa quanto tempo è passato ma sa bene che presto morirà. Troppo forte è il dolore al fianco sinistro, come un artiglio di acciaio che le lacera la carne. Troppa polvere nel suo naso e nei suoi polmoni e ogni singolo respiro è come inalare fuoco invece di aria. E poi quel battito cupo e sordo che le squassa la testa. Che cosa è? Un tamburo che batte nelle viscere della terra? No, sembra piuttosto il battito di un cuore che risuona al suo fianco. Il cuore di mamma o forse quello di papà? Allora, Amal prova a chiamare: “Mama! … Baba!”, ma la voce le muore in gola con un gorgoglio strozzato da un accesso di tosse.
Poi finalmente la mente ferita di Amal realizza che quel battere fondo e metallico è il suo cuore impazzito che vuole uscire dal petto e dal pozzo nero della morte e librarsi nell’aria al di sopra delle macerie che lo schiacciano.
Con il passare dei minuti o forse delle ore, Amal non può saperlo, comprende la verità. La sola e spietata verità possibile. Presto morirà soffocata e il suo corpo non verrà mai più ritrovato. Amal resterà per sempre abbandonata nel bugno della madre terra, poi si scioglierà lentamente e si fonderà con la sabbia, scorrendo come zucchero tra le dita verso il mare di Hodeida.
Allora Amal comincia a pregare il grande Dio degli uomini, di quegli stessi uomini che bombardano le case e le scuole e uccidono i bambini, lo prega, lilshafiqa, per pietà, di far cessare quel battere cupo che la fa impazzire. Di porre fine allo strazio del suo corpo. Prega Allah, Allah-u Akbar, di farla morire in pace.
Mentre Amal, sospesa tra la vita e la morte, aspetta che il suo cuore batta per l’ultima volta, qualcosa o qualcuno si muove in alto sopra di lei. All’inizio è come il riflesso di un sussurro nell’acqua. Poi il sussurro si gonfia in un vociare stento e confuso, accompagnato dai rumori sordi e ovattati di oggetti che sono trascinati e di passi che affondano sopra la testa di Amal, intorno al pozzo che la ingoia.
Una scintilla si accende nella testa, proprio dietro gli occhi, e Amal si sente ancora dolorosamente viva. Allora prova ad aprire la bocca per chiamare aiuto. Raccoglie quanta più aria può nei piccoli polmoni martoriati e grida con tutte le sue forze ma dalla bocca esce un lamento lungo e stridulo. Il guaito acuto di un cane ferito.
Sopra di lei risponde un tonfo e una voce roca ma distinta, Fermi, qui c’è qualcuno! Qui sotto c’è qualcuno, per grazia di Allah!
Dopo un’eternità, finalmente il buio si strappa sopra la testa di Amal e il suo corpo esanime vola incontro alla notte.
Anabasi
Il tunnel è stretto e poco illuminato. Amal procede lentamente, facendo scorrere le mani sul muro umido. Amal è triste e si sente disperatamente sola. Deve uscire da quel corridoio basso e freddo e trovare Naif. Dove era l’appuntamento con il fratello? Come è finita nel tunnel? Amal non ricorda, avverte solo una vaga sensazione di pericolo che la fa rabbrividire.
Davanti a lei, in fondo al buio, echeggiano dei passi, pesanti e metallici, come di scarponi chiodati, poi altri passi, più leggeri e cadenzati. Qualcuno che fugge da qualcosa, questo è il pensiero che si disegna improvvisamente nella mente di Amal. Qualcuno sta fuggendo da qualcosa di spaventoso. Qualcosa di orribile a dirsi e Amal si impone nel sogno di non pronunciare quel nome altrimenti tutto sarà finito. La sua vita, la vita di mamma e di papà, la vita di Naif, il gioco e la scuola, le spiagge e la città, il mondo intero sarà finito, se solo Amal penserà quel nome.
Nel sogno Amal stringe con le mani le tempie, fino a farsi male, perché non deve pensare quel nome, non deve pensare la fine del mondo, e stringe la testa ancora più forte fino a farla scoppiare e la luce fioca del tunnel comincia a lampeggiare e si spegne e poi si riaccende in un susseguirsi di folgori corrusche e accecanti e allora d’improvviso la terra e il cielo si capovolgono e tutto intorno si rovescia all’indietro e Amal precipita a corpo morto dentro al tunnel che non è più un tunnel ma un pozzo nero, il pozzo palpitante di fuoco della Gehenna, sprofondando e gridando senza voce.
Una luce bianca come una scheggia acuminata che buca le palpebre gonfie, un solo grido esploso dalla gola e Amal di colpo è sveglia, madida di sudore e senza fiato. Dove si trova? È ancora nel pozzo nero perché sente una fitta atroce al fianco. No, questo posto non può essere il buco della Gehenna perché intorno c’è aria e c’è luce come in pieno giorno e ci sono suoni e ombre bianche. Amal non riesce ad aprire gli occhi perché le bruciano da morire e il dolore al fianco è insopportabile ma si accorge di essere sdraiata in un letto e di avere vicino qualcuno. Con gli occhi stretti e le palpebre a malapena socchiuse, Amal scorge pareti bianche e altri letti intorno. Una donna è china sul suo fianco sinistro e sta trafficando con qualcosa. Poi solleva la testa avvolta in uno hijab bianco e Amal intravede un volto piccolo e sorridente che si avvicina e le sussurra qualcosa all’orecchio, Marhaban, Euyun jamila, Ciao, Occhi belli! Come ti senti?
Amal vorrebbe parlare e chiedere a questa donna gentile che la sta curando dove sono mamma e papà e Naif ma la gola si accartoccia come carta vetrata e gli occhi brucianti si chiudono e la volontà le scivola via come acqua nel mare dell’incoscienza appena pronuncia Mama. Il sonno la cattura nelle sue spire di velluto e Amal riprende a cadere all’indietro verso il fondo del mondo, sempre più rapidamente, fino a svegliarsi nel sogno del tunnel che la tiene prigioniera ancora una volta.
Portfolio di Roberto Laruccia
Il corridoio stretto e basso si estende senza fine davanti ai suoi occhi e il lucore di una nebbia argentea che fluttua nel buio le permette di avanzare solo un passo dietro all’altro verso il fondo, dove una forma incerta si staglia ondeggiando nella bruma. Il cuore le balza in gola quando riconosce la madre nella figura davanti a lei. Maryam è ancora lontana ma sta già correndo incontro ad Amal con le braccia spalancate. Anche Amal si sforza di correre nella sua direzione ma le gambe non rispondono come se fossero impantanate nel fango che le trattiene. Eppure manca poco ormai e Amal potrà abbracciare la madre. Già distingue il suo sorriso luminoso. I loro corpi affannati sono sempre più vicini e la mano sinistra di Amal già sfiora la mano protesa di Maryam.
Poi le loro mani finalmente si toccano e si stringono quando d’improvviso si alza un muggito cavernoso dal fondo del tunnel e il sorriso di Maryam si muta in uno spasmo di dolore quando il suo corpo viene risucchiato all’indietro da un vortice mugghiante che le strappa la jihab dal capo e la trascina sempre più lontano da Amal, con le braccia vanamente protese in avanti, sempre più indietro, fino a quando Maryam è solo un granello di sabbia in fondo al tunnel e poi più niente.
Amal è di nuovo sola e il cuore le esplode in un grido che si perde nel silenzio e nel buio del tunnel che l’ha ingoiata per sempre.
Ancora una fitta di luce e di dolore e Amal è sbalzata nel letto dell’ospedale da un risveglio brusco e ansante. Amal piange adesso, finalmente piange lacrime che sulle guance bruciano più del fuoco della Gehenna.
Gli occhi velati dalle lacrime di Amal vedono ancora una volta il volto gentile di Nadira, la dottoressa dell’ospedale. Anche gli occhi di Nadira sono umidi mentre le stringe la mano libera dalla fasciatura. Lentamente i singhiozzi si acquietano e con la coda dell’occhio Amal scorge un altro volto al suo fianco. È un ragazzo alto e robusto che la osserva con un’espressione attenta e decisa.
Nadira pronuncia a voce bassa un nome, Kharim, e dice ad Amal Lui è Kharim. Lui ti ha salvato e ti ha portato qui in ospedale. Amal guarda Kharim e poi di nuovo la dottoressa e chiede, finalmente chiede con una voce piccola e stentata che non riconosce come sua, Mama, Baba e Naif, dove sono?
Il tempo si ferma sul piccolo ospedale di Hodeida quando la dottoressa e Kharim si guardano per un solo momento e poi restano in silenzio con gli occhi bassi.
Il mondo si ferma a guardare gli occhi di Amal che si chiudono e il cielo stesso sembra cadere come pioggia nel pozzo mentre Amal si gira lentamente sul fianco destro nel suo lettino d’ospedale e si rannicchia in posizione fetale nell’incavo caldo tra i corpi supini di Mariam e Mohammad che sembrano respirare all’unisono il sonno dei giusti.
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