Orde e orde di fruitori hanno preso letteralmente d’assalto i ciondolanti pontili. Qui calamitati dall’irrefrenabile desiderio di rivivere (con implicita ed oggettiva blasfemia, almeno per i credenti) l’evangelico miracolo del Cristo (senza h) deambulante sulle acque

di Antonio Gasbarrini

The Floating Pears: prima di addentrarci negli opinabili meandri della critica d’arte, tracciamone un identikit quantitativo dei suoi tanti record. Visitatori: 1,5 milioni ca.; durata dell’evento: 16 giorni, con una media giornaliera di circa 100.000; 15 milioni gli euro spesi dall’artista (vale a dire 30 miliardi delle vecchie lire) per il suo allestimento; infine, circa quaranta gli anni intercorsi tra il progetto elaborato da Christo insieme alla compagna Jeanne-Claude (scomparsa nel 2009) e la sua “posa in opera” sul Lago d’Iseo.

A guardarla dall’alto, a volo d’uccello, la megainstallazione effimera è un geometrizzato, perfetto segmento euclideo spezzato in più parti, terminante con una sorta di rettangolo cingente l’isola di S. Paolo. Il colore arancione con riverberi dorati, conferisce poi, a quella sorta di asimmetrica freccia puntata chissà dove (anzi “verso il nulla” come chiosa l’artista bulgaro) un che di auratico, del tutto estraneo e autoreferenziale rispetto alla frattalica, verde-azzurrognola natura da cui è circondato e sulle cui acque le incatenate The Floating Piers si dondolano dolcemente al ritmo di un concertante blues, se il tempo non è brutto. Il silenzio dei boschi attornianti e il sole risplendente nel suo pieno fulgore estivo o le migranti nubi, incorniciano poi la perfetta icona. Riconducibile ermeneuticamente, e, soprattutto poeticamente, alle pagine ben riuscite della Land Art.

Questo idilliaco e per certi versi romantico “quadretto”, è stato sconvolto nel corso della quindicina di giorni in cui orde e orde di fruitori hanno preso letteralmente d’assalto i ciondolanti pontili. Qui calamitati dall’irrefrenabile desiderio di rivivere (con implicita ed oggettiva blasfemia, almeno per i credenti) l’evangelico miracolo del Cristo (senza h) deambulante sulle acque, mentre tra un selfie e l’altro, l’attimo fuggente veniva catapultato sui social network. Ergo: io c’ero!

Se i futuristi volevano mettere al centro del quadro “dinamizzato” con le linee – forza gli spettatori, lo sciamanico Christo, da par suo, ha fatto letteralmente divorare, ma questa volta dai e con i piedi, la pieghettata stoffa minimalista – rispetto alle chilometriche, avvolgenti volumetrie dei suoi ciclopici impacchettamenti com’è avvenuto nel 1995 con la baroccheggiante plastica di 100 mila metri quadrati occultante l’architettura del Reichstag berlinese – ricoprente The Floating Piers.

Ciò che più ha colpito, addetti ai lavori e non, è stato lo scombussolamento delle consolidate coordinate fruitivo-contemplative del guardante/opera (nel sodale rapporto paritario di 1 a 1), generato dal cannibalismo voyeuristico di un’affamata, transumante folla, che non era lì per “vedere un’opera d’arte”, bensì semplicemente per esibirsi: il proprio corpo-opera nell’opera?

La vanesia ridondanza massmediatica (social inclusi), ha poi fatto da collante ad una sorta di “masturbazione collettiva a cielo aperto”, su un’opera d’arte (si ripete ad abundantiam) che non era più il denudato oggetto del desiderio (la duchampiana La Sposa messa a nudo dai suoi Scapoli, anche o Grande Vetro che dir si voglia), bensì il pre/testo immaginifico dell’esibizione onanistica messa in atto.

Stroncata subito e senza possibilità di appello da Vittorio Sgarbi («il modo consumistico di far funzionare questa passerella è una visione estetizzante, onanistica [si riferisce all’artista, n.d.a.] e aristocratica. Si parla di popolo, ma in realtà si compiace solo la propria trovata. Purtroppo, quello che si è perduto è il nesso tra il luogo e l’opera») e Philippe Daverio («La passerella di Christo è una pirlata, una baracconata senza senso priva di alcun spessore estetico, culturale, storico. Non è un’opera d’arte, è un fenomeno, un’attrazione, un po’ come le vecchie sagre di paese che esponevano il gigante e la donna cannone per attirar più gente. È fuori contesto e priva di giustificazioni dal punto di vista storico ed estetico, manca completamente l’ambiguità e la complessità dell’arte, oltre alla capacità di emozionare»), The Floating Piers, ha trovato via via più di un difensore nelle variegate prese di posizione di storici e critici d’arte, artisti, ecc.

A cominciare, ed era più che ovvio e scontato, dal suo curatore Germano Celant: «The Floating Piers di Christo è la prova che l’arte, oltre ad offrire un’interpretazione visiva e inusuale del paesaggio e dell’ambiente, ha il potere di modificare concretamente la società. Ci riesce facendo partecipare il grande pubblico sia sul piano dell’esperienza estetica e fisica, sia sul piano della partecipazione collettiva e comunitaria».

Giudizio pienamente condiviso da Michelangelo Pistoletto e Massimiliano Fuksas. Il primo ponendo l’accento ancora sulla massiva partecipazione del pubblico («Christo ha sempre fatto oggetti di grandi dimensioni da osservare, mentre per la prima volta ha creato un’opera partecipativa e questo è importante, ovviamente, anche per lui»); il secondo, sul felice incontro tra arte, architettura e natura («Opera straordinaria, molto bella, quello che manca in Italia. The Floating Piers dimostra infatti che l’arte e l’architettura possono valorizzare il paesaggio»).

Puntuali, poi, le considerazioni di Demetrio Paparoni: «È una passerella, ma come ogni d’opera d’arte non ha nessuna funzionalità. Permette di vedere il paesaggio in un contesto che prevede la partecipazione collettiva da un’angolazione inedita. Banalizzando direi che la grandezza di questa passerella sta proprio nella sua inutilità: non segue nessuna logica di funzionalità. L’inutilità materiale dell’opera, del resto, è una delle caratteristiche fondanti  dell’arte di ieri e di oggi. Lo sanno tutti che l’arte non ci nutre, non ci protegge dal freddo… Non serve a nulla però aiuta a guardare il futuro da un’angolazione diversa».

A chiudere, questa telegrafica disamina “citazionista”, non poteva non essere il guru della critica d’arte italiana Achille Bonito Oliva, dalla cui sollecitazione Chisto aveva impacchettato a Roma Porta Pinciana nel lontanissimo 1974:

«Io non penso che sia una baracconata, credo invece che sia l’estensione della poetica di Christo, che prima ha impacchettato l’oggetto quotidiano e adesso è arrivato a estendere il suo intervento fino a permetterci il miracolo di camminare sull’acqua, esprimendo una sensibilità ecologica. Inoltre, attraverso questa sorta di percorso, mi sembra che Christo ci permetta di temprare il corpo e lo spirito».

E, in modo diretto o indiretto, coloro che non hanno ostentato il pollice verso, hanno subito chiamato in causa la concertante valenza relazionale, partecipativa tra opera e fruitore. Valenza i cui prodromi possono essere rintracciati nelle performances newyorkesi degli anni Sessanta e, negli anni Ottanta, con la teorizzazione dell’ ”Opera aperta” di Umberto Eco.

Adesso il fruitore è coinvolto non solo con lo sguardo al sacrale rito dell’incontro (con l’artista e l’opera), ma può intervenire in vario modo sulla dinamica fruitiva, partecipando creativamente ed in prima persona anche alla sua modificazione formale (come non ricordare qui le riassemblabili sculture modulari in acciaio inox di un Nicola Carrino, proposte in una sua mostra da me curata nella Galleria FerriArte dell’Aquila sul finire degli anni Settanta?).

Da questa iniziale ed iniziatica apertura, si è cominciato a teorizzare, con il francese Nicholas Bourriaud, l’Estetica relazionale sintetizzabile con queste sue parole: «[…] Credo che oggi ci troviamo di fronte all’emergere di una cultura di interazioni. Si è costituito recentemente un nuovo sistema dell’arte ed esso è basato sull’idea di relazioni. Un breve sguardo sulla storia dell’arte: la prospettiva, la ‘veduta’, era basata su quel punto particolare in cui, come disse Panofsky, noi diventiamo il soggetto, che è precisamente la posizione caratteristica dell’umanesimo; la costituzione del sé a partire da un punto. Un successivo slittamento significativo nella storia dell’arte è quello del all-over, un modo di estendere l’identità umana. Seguendo la stessa linea, vale a dire il corso del soggetto, direi che l’arte di Performance andrebbe definita più all-around che all-over. Ciò che voglio sottolineare è questo slittamento dall’autorità dell’immagine verso un modo più democratico di percepire l’arte, uno spazio che dovrebbe essere partecipativo piuttosto che basato sull’autorità dell’immagine, come è prevalentemente accaduto nella storia[…]».

Co-fondatore e co-direttore artistico per vari anni di uno dei più intriganti spazi espositivi parigini, il Palais de Tokyo, Bourriaud ha circoscritto i suoi interessi ad un ristretto numero di artisti i quali sia nella fase progettuale dei loro lavori che in quella epifanica della successiva esibizione, hanno orientato la loro ricerca nella direzione tratteggiata più sopra.

Confrontando diacronicamente i postulati teoretici de l’Estetica relazionale del critico francese, con gli happening-performance fluxisti degli anni Sessanta e con l’installazione “fluttuante” di Christo, si può ben affermare che in fatto di coinvolgimento (non solo razionale o emotivo dello “spettatore attivo”), i principali esponenti del New Dada newyorchese degli anni Cinquanta (Cage, Rauschenberg, Dine) surclassano, e non di poco, i contemporanei “artisti relazionisti”.

A controprova di questa valutazione storiografica, ritengo sia utile riproporre qualche passo di un mio saggio su Fluxus scritto alcuni anni fa: «[…] Sarà la mostra The Art of Assemblage curata dal pittore-critico William Seitz, tenuta nel 1961 al Museum of Modern Art di Ney York (vi partecipa anche Duchamp), a certificare la fine dell’Espressionismo Astratto ed il trionfo del New Dada incarnato, prevalentemente, dalle figure di spicco di Rauschenberg, Jim Dine e Jasper Johns.

Il nome di Rauschenberg, formatosi nella scuola sperimentale del Black Mountain College nel North Carolina dove insegnavano Cage ed il coreografo Merce Cunningham, assumerà con i suoi diversi, contestuali ruoli di arista-scenografo-performer una rilevanza sempre maggiore nell’ambiente avanguardistico statunitense. Risale al 1952 il suo coinvolgimento nella serata “caotica” qui tenuta da Cage, serata pluriperfomativa basata sul principio fondante del chance metod (il metodo del caso), in cui si sviluppano simultaneamente una serie di eventi: i quadri di Rauschenberg pendono dal soffitto, mentre il suo autore fa suonare vecchi dischi [in altre versioni storicistiche proietta diapositive di suoi quadri, n.d.a.] ed il musicista David Tudor si esercita su un pianoforte preparato; Cage appollaiato su una scala tiene una conversazione sulle interconnessioni tra musica [sperimentale] e Buddismo zen; Cunningham ed altri allievi danzano in modo inusuale, camminando o strisciando sul pavimento; non manca, infine, una lettura di brani poetici effettuata da alcuni dicitori frammischiati agli astanti. Come è facile arguire, gli ingredienti, per i futuri sviluppi che porteranno di lì a qualche anno ad una reiterata pratica degli happenings ed agli event scores di Fluxus, ci sono già tutti: manca solo il pubblico, che unitariamente considerato, rappresenterà la figura del deuteragonista.

Nel 1959, un analogo assemblaggio di eventi viene proposto a New York, alla Ruben Gallery, da Allan Kaprow, il quale con 18 Happenings in 6 Parts, assembla in tre spazi ottenuti con la divisione di teli di plastica, quadri, specchi, luci, suoni e, nella veste di performer, insieme ad altri legge, discute e mangia con gli astanti: in una parola, fondendo in modo cosciente, e per la prima volta, arte e vita. Nel biglietto d’invito (una busta di plastica contenente una serie di mini-collages) si poteva anche leggere la frase: “you will become a part of the happenings; you will simultaneously experience them”. In ognuno dei tre spazi dove avvengono simultaneamente tre happenings diversi, lo spettatore assiste sì, ma interagisce con gli eventi; nell’intervallo cambia stanza, “immagazzinando” alla rinfusa sensazioni visive, tattili, acustiche a suo tempo auspicate dalle sinestesie futuriste. […]».

In materia di Estetica relazionale dato perciò a Cesare quello ch’è….di Fluxus, torniamo a The Floating Pears per sottolineare la nostra preferenza per i disegni ed i collages progettuali di Christo realizzati tra il 2014 e il 2016 (visibili sul sito ufficiale dell’ottantenne, ma giovanissimo artista bulgaro

http://www.christojeanneclaude.net/projects/the-floating-piers

rispetto alla megainstallazione effimera.

Questa personale opzione si deve al fatto che sui pontili e dintorni di quei progetti “cammina” solamente qualche figurina stilizzata, alla stregua del filosofo Giulio Giorello le cui condivisibili riflessioni potrebbero ben chiudere questa nota critica: «Christo ci fa camminare sulle acque mentre l’Altro ci camminava lui. Consiglio di provare il piacere di passeggiare sul Lago d’Iseo di prima mattina, quando i raggi del sole sfiorano le acque e incendiano i drappi arancioni. Ne guadagna l’arte e anche l’interpretazione poetica e filosofica dell’opera».

Solo che… solo che per soddisfare gli appetiti voyeuristici di un milione e mezzo di fruitori, virtualmente da noi fatti affluire su The Floating Pears uno alla volta “di prima mattina, quando i raggi del sole sfiorano le acque e incendiano i drappi arancione”, al ritmo prevedibile di non più di 150 persone al mattino-giorno, sarebbero stati necessari 10.000 giri della terra attorno a se stessa: vale a dire circa 27 anni e non già sole 16 ingolfate, starnazzanti giornate.