Purtroppo la conoscenza della vulnerabilità ai terremoti non è servita in passato a far rispettare le norme edilizie vigenti, per le quali gli edifici avrebbero dovuto essere costruiti con criteri antisismici
di Vittorio De Petris
Nel 2014 un gruppo di 26 ricercatori presso la Technische Universität di Berlino intraprese una ricerca sul campo nei territori colpiti dal terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009.
I ricercatori erano esperti in vari settori nel campo dell’architettura, del design urbano, dell’ingegneria civile, della sociologia, delle relazioni internazionali, dell’amministrazione e pianificazione urbana e regionale, delle scienze ambientali. Erano inoltre provenienti da vari Paesi sparsi in tutto il mondo (Brasile, Cile, Cina, Colombia, Ecuador, Egitto, Ghana, Grecia, India, Indonesia, Iran, Italia, Messico, Nepal, Taiwan, USA). Con le loro diverse culture nazionali e le varie esperienze di studio e di lavoro, hanno fornito una ricca gamma di strumenti e di abilità, che si è riflessa nei risultati raccolti in un volume di 196 pagine pubblicato a Berlino, nel Febbraio 2015, con il titolo Heritage and Catastrophe: Prevention, Emergency, Restoration and Transformation in 2009 L’Aquila Earthquake
La ricerca si articola in quattro linee principali riguardanti le catastrofi nelle città storiche o in aree di interesse storico/culturale:
- Preparazione e risposte all’emergenza
- Capacità di ripresa e riduzione del rischio
- Recupero e ricostruzione
- Popolazione attiva
Per ciascun argomento sono stati individuati alcuni aspetti specifici, affidati a gruppi di 2-3 o a singoli ricercatori che, avvalendosi di ricerche bibliografiche, di carte tematiche e di dati raccolti sul campo mediante osservazioni dirette ed interviste con autorità, tecnici e singoli cittadini, hanno sviluppato 12 rapporti, che costituiscono il risultato complessivo del loro lavoro di ricerca.
Reportage di Antonio Gasbarrini
Le cifre del disastro
Una premessa necessaria è l’elenco sommario ed apparentemente arido delle cifre che riassumono i drammatici effetti del sisma che colpì la città dell’Aquila e 57 villaggi circostanti alle 3:32 del 9 aprile 2009: 306 vittime, un migliaio di feriti, 140.000 sfollati, 40.000 senza tetto, 10.000 edifici danneggiati o distrutti, 4 milioni di tonnellate di macerie, con un volume di 3.240.000 metri cubi.
Le cifre sono importanti per valutare appieno la portata del disastro, soprattutto quando vengono fatti paragoni con altri eventi, ad esempio con il sisma che ha colpito l’Emilia Romagna, in cui si sottolinea il fatto che gli emiliani si sono “rimboccati le maniche” ed in breve tempo la zona ha sanato le sue ferite (sottintendendo forse l’ignavia e l’incapacità degli aquilani davanti alla… stessa situazione).
Ci si chiede, ad esempio, come si pensa di poter affrontare un cumulo di macerie di 4 milioni di tonnellate usando la forza delle braccia, sia pure con le maniche “rimboccate”. I volenterosi aquilani con le loro carriole non intendevano certo risolvere un problema di tale portata, ma solo sottolineare in modo vistoso la lentezza del processo di recupero ed il mancato coinvolgimento della popolazione nelle scelte che avrebbero deciso il futuro della loro città e delle loro vite.
Circa il “rapido recupero”, ci si chiede ancora come si possano ricostruire in tempi brevi 10.000 edifici distrutti o gravemente danneggiati, senza un flusso certo di finanziamenti e senza un piano che tenga conto dell’enorme patrimonio culturale da salvaguardare. Si ignorano infine le profonde differenze economiche tra i due territori e il fatto di aver evitato di ripetere in Emilia Romagna gli errori compiuti in Abruzzo prima del terremoto, poi nella fase di emergenza e quindi nella ricostruzione. È quest’ultimo aspetto importante che rende prezioso il lavoro svolto dai ricercatori dell’Università di Berlino e che intendiamo valorizzare attraverso la messa in rete della nostra traduzione in italiano[1].
Il mancato rispetto delle norme edilizie antisismiche
Come rilevato dai ricercatori, ma come anche sanno benissimo anche gli abitanti, L’Aquila è particolarmente soggetta a terremoti, poiché è situata sul letto di un antico bacino lacustre. La struttura alluvionale del suolo lo rende pertanto particolarmente scadente in caso di sisma. Mentre la roccia compatta oscilla sulla stessa frequenza ed ampiezza delle onde sismiche, i sedimenti incoerenti di un antico lago possono amplificare le oscillazioni fino a perdere la compattezza ed ondeggiare come un liquido. Questa caratteristica contraddistingue la storia dell’Aquila dai cui documenti risulta essere stata colpita da terremoti sin dal 1315 e continuerà ad esserlo in futuro.
Purtroppo la conoscenza della vulnerabilità ai terremoti non è servita in passato a far rispettare le norme edilizie vigenti, per le quali gli edifici avrebbero dovuto essere costruiti con criteri antisismici. A causa della mancanza dei controlli, le norme venivano in gran parte ignorate e molti edifici non raggiungevano gli standard richiesti. Tutte le carenze sono venute alla luce con il terremoto del 6 aprile che, pur non essendo di grande intensità, ha prodotto vaste distruzioni e gravi perdite.
All’Aquila hanno subito danni molti edifici storici, ma anche costruzioni moderne, come ad esempio la Casa dello Studente, la nuova ala dell’Ospedale e molte costruzioni realizzate nel quartiere di Pettino. Viceversa la chiesa di San Domenico, che era stata sottoposta a miglioramenti strutturali prima del 2009, ha subito solo lievi danni.
I ricercatori rilevano con sorpresa che, dopo un così grave disastro. le autorità non abbiano istituito un valido meccanismo per far rispettare le norme edilizie durante la ricostruzione, allo scopo di impedire il ripetersi di altre catastrofi in futuro. Nel corso della prima fase di ricostruzione, non fu fatta nemmeno un’ispezione nei cantieri. Solo dopo l’aprile 2012, furono cambiate le procedure: le autorità fecero verifiche passo per passo durante la ricostruzione degli edifici ed eseguirono un’ispezione finale prima di emettere la licenza ufficiale.
Il ruolo delle compagnie di assicurazione
Un altro aspetto della mancanza di cultura della prevenzione è la scarsa abitudine degli italiani ad assicurare le case e le altre costruzioni contro le catastrofi. Lo Stato non fa molto per incrementare il tasso di penetrazione delle assicurazioni, molto basso rispetto agli altri paesi europei. Le poche persone che avevano un’assicurazione contro il rischio sismico, hanno dovuto restituire i soldi ricevuti dalle assicurazioni, poiché nel frattempo lo Stato aveva provveduto con i propri fondi. Una situazione analoga si è verificata per l’Ospedale S. Salvatore, i cui fondi ricevuti dalle assicurazioni servirono a ripianare i buchi nei bilanci della Sanità Regionale. I nostri ricercatori sono rimasti sorpresi nell’osservare una tale mancanza di coordinamento tra lo Stato e le compagnie di assicurazione, che agiscono attualmente come corpi a sé stanti.
Tale situazione pone un pesante fardello sulle spalle del governo, che si fa carico della maggior parte del costo delle ricostruzioni. Non è affatto certo che lo Stato sarà sempre in grado di coprire i costi derivanti dalle catastrofi naturali o provocate dalle attività umane. Si rende sempre più necessaria l’adozione di politiche che favoriscano la diffusione di polizze di assicurazione contro le catastrofi. Meglio ancora sarebbe renderle obbligatorie, almeno nelle zone a più alto rischio sismico, idrogeologico, vulcanico o di altra natura.
Un aspetto non secondario, sfuggito ai nostri ricercatori, è il fatto che le compagnie di assicurazione, oltre che coprire una parte dei costi, potrebbero scoraggiare coloro che volessero costruire in zone a rischio o non adottare le tecniche di costruzione in grado di garantire una buona resistenza dei fabbricati. Le ispezioni e le perizie effettuate dalle assicurazioni, sarebbero un sicuro deterrente alla realizzazione di costruzioni poco sicure, che sarebbero gravate da premi di assicurazione più elevati, con conseguente deprezzamento.
La prevenzione nazionale e locale
Si dice sempre che prevenire è meglio che curare: i costi per intervenire dopo i disastri sono molto più elevati di quelli che sarebbero serviti ad evitarli. Le autorità nazionali e locali si sono tuttavia rivelate carenti nell’applicare il concetto di prevenzione. Ad esempio, il governo non ha mai costituito un fondo per le catastrofi, pur facendosi carico del loro costo. Ogni volta è stato costretto a spostare risorse da altri settori o a incrementare il deficit, con ripercussioni negative sull’intera economia nazionale. In media le catastrofi naturali costano all’Italia lo 0,2% del PIL annuo. Negli anni 2009-2010 il deficit pubblico è stato il 5% del PIL.
Le regioni, le province e i comuni, pur essendo responsabili a vari livelli della protezione civile, con precisi compiti e funzioni, non hanno adottato tutte le misure necessarie a conseguire sufficienti livelli di sicurezza. Ad esempio, dopo il crollo di una scuola nel terremoto del Molise del 2002 che aveva provocato la morte di 27 scolari, in Italia erano state verificate e rafforzate circa 4000 scuole sparse per l’Italia, appena il 10% del totale.
È il solito effetto combinato della mancanza di fondi e di volontà politica. Non ci si occupa volentieri di compiti i cui effetti si vedono a distanza di anni, mentre la politica si alimenta di argomenti che diano effetti immediati in termini di consenso. La mancanza di fondi è spesso solo un alibi visto che, per tante altre iniziative di dubbia utilità, i soldi si trovano sempre.
Il mancato coordinamento tra le istituzioni nazionali e quelle locali non ha favorito lo sviluppo delle capacità (capacity building) a livello locale, aumentando i problemi nella predisposizione di piani e di risorse umane per affrontare le catastrofi. Ciò ha portato all’adozione del “principio di sussidiarietà”, in base al quale le autorità centrali intervengono nei disastri più gravi, quando le risorse locali sono insufficienti per far fronte alla situazione. L’intervento centrale si avvale di strumenti ad effetto immediato (le ordinanze) ed è in genere efficace, almeno nella fase immediata di emergenza, come viene riconosciuto da molti organismi internazionali. La collaborazione delle autorità locali servirebbe tuttavia a considerare in modo più appropriato le necessità immediate e future delle popolazioni coinvolte, evitando problemi nella successiva fase di recupero.
Informazione preventiva
Anche una buona informazione sui rischi di catastrofe e sui comportamenti da adottare, diffusa fra le popolazioni delle zone soggette a rischio e rafforzata con frequenti periodiche esercitazioni, potrebbe aumentare il grado di consapevolezza, la preparedness, cioè l’essere pronti ad affrontare situazioni di emergenza, e la resilienza, cioè la capacità di reagire positivamente davanti ad eventi negativi. Questo avrebbe dovuto essere lo scopo del manuale “La Protezione Civile in Famiglia” realizzato dal Dipartimento delle Protezione Civile, di facile lettura, ricco di esempi e di illustrazioni a colori. I ricercatori della T.U. di Berlino hanno riscontrato però che il manuale era quasi del tutto sconosciuto dai cittadini aquilani e tale era rimasto anche dopo il terremoto, perfino tra gli addetti all’assistenza e alla ricostruzione. Per fortuna gli aquilani erano stati informati da altre fonti, spesso dai loro genitori, ed avevano ugualmente adottato alcune delle prescrizioni contenute nel manuale.
Distorsione dell’informazione
Il problema dell’informazione preventiva ha assunto a L’Aquila un aspetto del tutto particolare. Ci riferiamo al noto caso dell’informazione proveniente dal Dipartimento della Protezione Civile (DPC), attraverso la Commissione Alti rischi (HRC), che riguardava la valutazione del rischio connesso allo sciame sismico in atto nei mesi precedenti la scossa principale del 6 aprile 2009. In questo caso il problema non è stato la mancanza di comunicazione, ma il modo distorto con cui è stata data fornita alla cittadinanza. Ripercorriamo brevemente, sempre attenendoci al testo della ricerca, alcuni momenti della vicenda.
Giampaolo Giuliani, un tecnico la cui più recente attività includeva ricerche sulla relazione tra la concentrazione di radon nel suolo e i terremoti, aveva messo in allerta la popolazione sulla possibilità di un forte terremoto. A seguito del potenziale panico creato tra i cittadini dell’Aquila, fu deciso di prendere provvedimenti per calmare la popolazione.
Il 30 marzo 2009 Guido Bertolaso, capo del DPC, ebbe un colloquio telefonico con Daniela Stati, responsabile regionale per la protezione civile, che fu informata di una riunione della HRC convocata per il 31 marzo, per cercare di tranquillizzare la popolazione circa il significato da dare alle scosse in atto. Era stato convenuto che il vice-presidente De Bernardinis avrebbe annunciato che lo sciame sismico era un segnale positivo, indicando uno scarico di energia ed un prossimo ritorno alla normalità. Bertolaso intendeva riunire i massimi esperti del settore per sostenere tale affermazione.
Durante la conferenza stampa tenutasi dopo la riunione con l’HRC, De Bernardinis disse che gli scienziati gli avevano assicurato una situazione positiva per l’Abruzzo. Lo sciame sismico stava favorendo il rilascio di energia e consigliava di bere un bicchiere di Montepulciano. Si può dire che la conferenza stampa di De Bernardinis abbia influenzato la preparedness della popolazione per affrontare il terremoto. Alcuni parenti delle vittime, guidati dal dr. Vincenzo Vittorini, conclusero che le perdite non erano state causate solo dal terremoto e citarono in giudizio l’HRC.
I ricercatori della T.U. di Berlino fanno un elenco delle persone coinvolte nel processo e del loro ruolo, riportano alcuni passaggi del dibattimento processuale e l’opinione di molti giornalisti e di esperti sulla natura del processo e sulla valutazione delle responsabilità. Alcuni difendevano la posizione degli scienziati, altri parlavano di errori di comunicazione, che non avrebbe riportato in modo corretto le affermazioni degli scienziati e dei tecnici coinvolti. Mentre i media erano pieni di articoli sulla scienza sotto processo, affermando che gli scienziati erano accusati di aver mancato la previsione del terremoto, il New Scientist indicò che il processo riguardava in realtà gli errori di comunicazione. Il vero problema non è la comunicazione tra i leader e la popolazione ma che, di fronte ai possibili rischi, la preoccupazione per la sicurezza non sia riuscita a prevalere sui conflitti politici. Il governo, attraverso le dichiarazioni di dirigenti del DPC, aveva diffuso informazioni distorte e, come conseguenza, erano state perse molte vite. La ricerca si conclude con l’esito del processo che ha condannato alcuni degli imputati, L’esito finale, è questa la conclusione in merito dei ricercatori, si saprà solo dopo gli ulteriori gradi di giudizio. Oggi sappiamo che nel novembre 2015 la Cassazione assolverà tutti gli imputati, con la sola eccezione di De Bernardinis.
La fase di emergenza post- sisma
Dopo una catastrofe, l’attenzione è rivolta alle risposte emergenziali: ripristino delle infrastrutture e delle comunicazioni, soccorso, alloggi d’emergenza e recupero della normalità operativa, nel più breve tempo possibile.
Poche ore dopo la scossa principale fu dichiarato lo stato di calamità nazionale e intervenne la Protezione Civile Nazionale. Il 7 aprile l’intero patrimonio edilizio della città fu dichiarato inagibile; di conseguenza tutti gli abitanti, considerati senzatetto, furono alloggiati nelle tende o negli alberghi della costa adriatica. Con successiva ordinanza del 9 aprile fu stabilito il divieto di accesso al centro storico della città e dei 57 centri minori circostanti colpiti dal terremoto. Altrettanto immediato fu il puntellamento per mettere in sicurezza gli edifici.
Il Dipartimento della Protezione Civile e il Comando dei Vigili del Fuoco svolsero un ruolo importante nel soccorso alla popolazione. Un gran numero di volontari, coordinati dalla Protezione Civile, evacuarono i centri delle città ed allestirono accampamenti, container temporanei e sistemazioni negli alberghi della costa. Fu poi dato avvio all’allestimento di alloggi provvisori in 19 nuovi centri urbani (“new towns”), con 185 fabbricati, 1176 moduli abitativi provvisori e 44 scuole ad uso temporaneo. Il DPC, attraverso il suo commissario speciale, diresse la risposta all’emergenza fino al dicembre 2010, quando fu delegato il governo regionale per il coordinamento della fase di ricostruzione.
La risposta emergenziale diretta dal DPC è stata considerata dall’OECD come positiva ed efficace. Le operazioni di soccorso furono condotte con efficienza e rapidità. Tuttavia molti autori sottolineano l’estromissione delle autorità locali nella risposta al terremoto ed anche nella prima fase della ricostruzione, gestita unilateralmente dal DPC. I ricercatori della T.U. di Berlino rilevano un’anomalia nel fatto che, essendo la struttura politica in Italia tipicamente decentrata, le autorità locali erano nelle condizioni migliori per affrontare la situazione, per stabilire le priorità e le direttive e per svolgere un ruolo importante. Non fu invece presa in considerazione nessuna conoscenza locale sull’adeguatezza del progetto per andare incontro ai bisogni della popolazione. Il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente dovette fare del suo meglio per avere influenza sul progetto, organizzando i nuovi insediamenti in 19 piccoli centri, anziché in un unico grande centro, come avrebbe voluto il governo, con il rischio di non vedere più ricostruita l’antica città.
La gestione delle macerie durante e dopo la fase di emergenza
Il terremoto aveva distrutto molti edifici e prodotto circa quattro milioni di tonnellate di macerie. Esse costituiscono un rischio per la salute derivante dalla presenza di sostanze pericolose (amianto, prodotti chimici e sostanze putrescibili) e determinano anche l’aggravamento dei molti problemi sociali nella popolazione frustrata dalla loro presenza diffusa, come si è visto con la “rivolta delle carriole”.
Secondo le linee guida dell’UE, si dovrebbero realizzare solo discariche sicure e controllate presso le località disastrate. Nel caso dell’Aquila, tuttavia, la mancanza di tali siti determinò il temporaneo deposito delle macerie a Piazza d’Armi.
Le macerie dovrebbero essere selezionate sul sito del disastro prima dello smaltimento ma, facendo riferimento al DL n. 152 del 3 aprile 2006, a L’Aquila fu permesso di classificare le macerie come rifiuti urbani, autorizzandone lo smaltimento senza separazione. I materiali provenienti da importanti edifici storici furono però trattati come “rifiuti speciali” e quindi separati, numerati e messi in sicurezza per preservare i caratteri originari dei rispettivi edifici in fase di ricostruzione.
L’Aquilana Società Multiservizi (ASM), fu incaricata della gestione delle macerie presso la ex cava di inerti della Teges Pontignone, con una capacità di 1.2 milioni di metri cubi, sufficiente per trattare l’intera quantità prevista di macerie. Queste furono prima scaricate e poi selezionate manualmente per separare e frantumare i materiali, riutilizzati poi come base nella costruzione di strade o per riempire il sito stesso. Per evitare l’infiltrazione di sostanze dannose nella falda acquifera, la parte inferiore del sito fu impermeabilizzata e furono inseriti pali per monitorare l’altezza del cumulo. L’ASM ha raggiunto notevoli livelli di efficienza e le macerie trattate contenevano solo 9,5 kg/ton di impurità, molto meno dei 30 kg/ton consentiti dalle vigenti norme per il trattamento dei rifiuti.
I ricercatori della T.U. di Berlino sottolineano alcuni problemi, fra i quali:
- il trattamento dei rifiuti elettronici (televisori, PC, elettrodomestici ecc.), scaricati alla rinfusa, senza alcuna misura di sicurezza e senza essere riciclati né riusati
- la perdurante presenza di macerie in alcuni siti del centro storico.
Lo studio conclude che la gestione delle macerie non è stata efficiente, specialmente nella fase di emergenza, per la mancanza di piani e di indirizzi politici predefiniti e per l’indicazione dei siti di smaltimento fatta solo dopo il disastro.
La ricostruzione – il ruolo del DPC
Come rilevato in precedenza, la prima fase di risposta all’emergenza fu gestita dal DPC in modo unilaterale, arrivando anche a prefigurare le scelte future riguardanti la ricostruzione materiale e sociale del territorio devastato dal terremoto. Già da tempo il DPC aveva esteso le sue attività includendo materie che andavano ben oltre i suoi compiti istituzionali, fino ad occuparsi dei cosiddetti grandi eventi (campionati di nuoto, riunione del G8, ecc.). Sfruttando la sua possibilità di decidere su appalti e concessioni, senza bisogno di sottoporsi a controlli preventivi o successivi, grazie al regime di emergenza dichiarato ad ogni pié sospinto, poteva gestire ingenti risorse in assoluta libertà: il sogno di ogni politico! I meccanismi, ormai collaudati, furono impiegati anche nel territorio aquilano, con gravi conseguenze, come rilevato dai ricercatori berlinesi.
La Protezione Civile, su decisione del Primo Ministro Berlusconi, decise di costruire abitazioni provvisorie (MAP e CASE) nella periferia della città distrutta e nelle vicinanze degli altri centri per dare un alloggio temporaneo alle popolazioni colpite. I MAP (Moduli Abitativi Provvisori) dovevano fornire una sistemazione agli abitanti dei villaggi e delle frazioni periferiche ed erano da smantellare dopo la ricostruzione. Il progetto CASE – Complessi Antisismici Sostenibili Eco-compatibili – era finalizzato ad assistere gli abitanti dell’Aquila, ma era destinato a durare a lungo. Per i due progetti fu necessario acquisire una gran quantità di terreni semi-agricoli. A differenza dei precedenti disastri italiani, non fu adottato a L’Aquila il tipico schema di fornire un rifugio di emergenza, seguito subito dopo da sistemazioni provvisorie e infine dalla ricostruzione permanente. La fase di emergenza fu intenzionalmente protratta per molti mesi, allo scopo di permettere la costruzione di abitazioni di standard elevato, destinate a durare anni. Sarebbe utile chiedersi come si possano costruire su base temporanea edifici con costi unitari, caratteristiche ambientali e livelli di sicurezza simili a quelli richiesti per edifici permanenti.
Secondo alcuni studiosi, alcune decisioni prese nel corso della crisi erano tangenti per la corruzione, come l’accordo per il progetto CASE, derivante dall’esperienza manageriale di Berlusconi nel rinnovo edilizio e urbano.
Tutti i nuovi progetti edilizi furono pubblicizzati per presentare i politici come gli eroi della crisi e per mostrare le promesse mantenute e le nuove opportunità. Silvio Berlusconi ha visitato da solo le zone terremotate per non meno di 23 volte, sempre alla presenza di telecamere.
La ricostruzione – Tra conservazione e modernizzazione
In un territorio con un ricco patrimonio storico e culturale si pone il problema di quale modello di ricostruzione adottare. Nell’ultimo secolo sono state sperimentate due principali strategie: endogene (in situ) tese a ristabilire lo stato precedente così com’era e dov’era; esogene con meccanismi centralizzati, modernizzazione forzata nei territori e trasferimento di larghe fette di popolazione in nuovi agglomerati urbani.
I cittadini del territorio aquilano erano sicuramente favorevoli alla prima soluzione, volendo tornare a vivere nelle loro case, com’era prima del terremoto; le scelte del governo andavano verso la seconda ipotesi, per le ragioni viste più sopra. L’estromissione delle autorità locali e delle associazioni di cittadini era funzionale agli obiettivi del governo.
Nel 2012, con la caduta del governo Berlusconi e l’insediamento di un nuovo governo, fu possibile prendere in considerazione l’ipotesi di ripristinare i centri storici dell’Aquila e dei paesi limitrofi, affrontando le questioni che tale scelta comporta, in un territorio con un ricco patrimonio storico, artistico e culturale.
Il Patrimonio storico-culturale
Davanti alla distruzione e al bisogno urgente di ricostruire, si presenta il problema di come recuperare non soltanto i beni materiali, ma anche le risorse culturali danneggiate o perdute nei palazzi e nelle abitazioni crollate. La perdita del patrimonio edilizio può essere divisa essenzialmente in due categorie: la prima riguarda i monumenti, i palazzi storici, le chiese ed altri importanti edifici posti sotto tutela dai beni culturali; la seconda si riferisce all’architettura tradizionale, non monumentale, che caratterizza gli edifici residenziali dei centri storici, in cui sono incorporati eccezionali valori storico/culturali nell’uso di materiali locali, nelle tecniche edilizie tradizionali, nella tipologia dei fabbricati e nella struttura urbana che definisce la memoria collettiva da esse rappresentata.
L’idea di patrimonio storico/culturale è intesa attualmente in modo più complesso ed esteso, con un’ampia gamma di significati, che superano di gran lunga il concetto di patrimonio edilizio. Sotto tale aspetto rientrano nel patrimonio culturale la biodiversità, il folklore, i materiali audiovisivi, ecc. Per descrivere tali sviluppi basterà ricordare la Convenzione sulla Diversità Biologica (2000), la Convenzione Europea sul Paesaggio, (2000) e la Convenzione sulla salvaguardia dei beni immateriali (2003). La stessa UNESCO nella sua Universal Declaration of Culturale Diversity (2001) stabilisce un impegno verso le “fruttifere diversità culturali”, prendendo in considerazione i rischi connessi all’estendersi dell’omologazione etnica e della globalizzazione.
In Italia la definizione di “beni culturali”, così come è stata fissata dalla legge, include i monumenti architettonici, i musei, le biblioteche e gli archivi.
La fase di primo recupero
Nel primo recupero la risposta del governo nazionale ha riguardato principalmente gli alloggi per le famiglie. Il governo propose le seguenti modalità, rivolte a tutta la popolazione colpita (affittuari e proprietari):
- Abitazioni temporanee (CASE e MAP):
- Affitto concordato
- Auto-sistemazione.
Agli affittuari, agli assegnatari di case popolari e ad altri che occupavano legittimamente abitazioni di cui non erano proprietari, fu concesso un sussidio per la durata di due anni, con possibilità di proroga. Quelli che vivono ancora nei progetti temporanei stanno ora pagando un affitto sociale al Comune in base alla situazione economica e familiare.
Valutazione dei progetti MAP e CASE
Le unità abitative nei 19 siti del progetto CASE, in grado di ospitare 15.500 persone, consistono in fabbricati da due a quattro piani, realizzati in legno e strutture in acciaio, su una piattaforma di cemento antisismica. La scelta delle aree, secondo il DPC, fu fatta in base alla loro idoneità dal punto di vista della sicurezza sismica, idraulica e idrogeologica, come pure per l’accesso alla viabilità e la buona integrazione con aree destinate a servizi e spazi verdi. La localizzazione degli insediamenti prese anche in considerazione la necessità degli assegnatari di rimanere vicini alle loro abitazioni originali ma, secondo vari studiosi e gli stessi abitanti, la realtà è che la sistemazione della popolazione nei progetti CASE fu fatta prevalentemente in paesi o località remote determinando una sorta di frammentazione sociale.
I circa 2.200 progetti MAP installati nei comuni del cratere più altri 1.113 costruiti nella città dell’Aquila per un totale di 8.500 case modulari furono realizzati in più di 50 località. La loro vicinanza ai vecchi centri permise agli abitanti di mantenere un senso di appartenenza alla comunità.
Le somme notevolmente alte per gli alloggi temporanei, forniti attraverso i progetti CASE e MAP, rappresentano una politica del tutto nuova. I due progetti costituiscono l’ultima evoluzione e la forma più estrema di abitazioni post-disastro, provvisorie, prefabbricate.
Il prezzo base di un prefabbricato ad uso abitazione di 30 metri quadri è di circa 12-15.000 euro, pari a 4-500 euro al mq. Le unità del progetto CASE sono costate in media 280.607 pari a 3.750 euro al mq., inclusi gli spazi comuni. Le unità dei progetti MAP, sono costate circa 1.200 euro al mq. In entrambi i casi le costruzioni sono state realizzate con materiali che richiedono molta manutenzione, in particolare il legno. Il clima locale è uno dei più estremi nella penisola italiana e alcuni segni di deterioramento erano già evidenti dopo pochi mesi. A luglio 2013 prese fuoco un appartamento del progetto CASE di Pagliare, a settembre del 2014 crollò un balcone a Preturo, evidenziando la scarsa qualità delle opere realizzate.
La ricostruzione – Avvio, stasi e rilancio
L’avvio della ricostruzione nei quartieri periferici fu possibile sin dalla prima fase di recupero senza la necessità di un piano specifico. Nei centri storici, invece, occorreva predisporre ed approvare un piano di ricostruzione, prima di dare corso ai lavori, anche in abitazioni con lievi danni.
I primi contributi, fino ad un massimo di 10.000 euro, furono assegnati ai residenti che avevano avuto piccoli danni. I proprietari avevano sei mesi di tempo per ultimare le riparazioni. Circa la metà dei 64.739 sfollati ebbe la casa riparata in breve tempo. La maggior parte delle 36.652 persone con abitazioni classificate E o F (inagibili) o situate nella zona rossa (centro storico), non ha ancora riavuto la casa.
Dopo la fase di assistenza, il DPC fu sostanzialmente estromesso, ma la gestione rimase ugualmente nelle mani del governo nazionale attraverso il Presidente della Regione Abruzzo, con la perdurante esclusione dei cittadini e delle autorità locali. Tra il 2010 e il 2012, con il mantenimento dello stato di emergenza dichiarato dopo il terremoto e poi esteso attraverso una serie di decreti dal presidente del Consiglio dei Ministri, fu messo in atto un ambiguo modello di sviluppo. Tale periodo fu caratterizzato dalla burocratizzazione e dall’inconsistenza dei risultati.
La situazione di stallo si interruppe nel 2012 con l’instaurazione di un nuovo governo nazionale e con il trasferimento delle competenze alle autorità locali. Furono anche creati due uffici speciali per la ricostruzione: l’USRA (Ufficio Speciale per la Ricostruzione dell’Aquila) e l’USRC (Ufficio Speciale per la Ricostruzione dei Comuni del Cratere), che copriva i 57 paesi danneggiati. I due nuovi uffici, oltre che fare da collegamento tra i governi locali e quello nazionale e monitorare la ricostruzione (per garantire un uso appropriato dei fondi pubblici), servivano anche a superare la mancanza di professionisti esperti nella maggior parte dei centri terremotati.
Furono anche adottate procedure più snelle ed efficaci, con un nuovo modello di finanziamento (scheda parametrica) per la ricostruzione degli edifici storici. La scheda unificava il tipo e la quantità di informazioni richieste, facilitando l’identificazione, la consultazione, l’estrazione di informazioni dei progetti e la valutazione finale della commissione esaminatrice del Comune. Gli edifici storici appartengono in genere a più proprietari, le cui proprietà vengono riunite in un cosiddetto aggregato. La scheda parametrica affronta la ricostruzione dell’intero aggregato, rendendo più veloce l’esame delle domande, il rilascio delle licenze e la concessione dei contributi. Viene così accelerato il processo di ricostruzione, sostenuto anche dall’incremento dei fondi stanziati, anche se non sempre sono sufficienti e sono assegnati con lentezza.
Secondo il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente – rilevano sempre i nostri ricercatori – nel Paese non esiste un fondo speciale o una tassa specifica per reperire i fondi per i disastri naturali. Il documento La Ricostruzione dell’Aquila. I Risultati della Nuova Governance ammette che ci sono più progetti che finanziamenti. Il rischio di esaurimento dei fondi potrebbe quindi minacciare il processo di ricostruzione e la garanzia dei diritti di proprietà.
L’ampia rassegna condotta dai ricercatori sui numerosi aspetti del processo di ricostruzione si conclude con una critica sui limiti del concetto di ricostruzione, che gli operatori ed anche gran parte della cittadinanza usano riferire solo all’abitazione e ai servizi di base. Non vengono presi in considerazione altri aspetti altrettanto importanti quali: la ripresa della capacità economica, il reintegro della popolazione e la capacità di coesione sociale, nessuno dei quali è stato ristabilito, mettendo a rischio il futuro della città, dei paesi e delle loro popolazioni ed innescando possibili crisi economiche e sociali.
I cittadini e il terremoto
Alcuni cittadini, da soli o in gruppi più o meno organizzati (Viviamo L’Aquila, Collettivo 99, Comitato Civico per un Manifesto per L’Aquila, Residenti CASE, Comitato per Bazzano e Comitato 3e32), superando le difficoltà derivanti dalla mancanza di spazi e di canali di comunicazione con le autorità locali e nazionali, hanno ugualmente messo in atto attività volte ad una maggior riconoscimento del loro ruolo e del contributo di proposte e di idee circa le decisioni da prendere sul futuro della città. Essi hanno contribuito a creare consapevolezza non solo della necessità di rimettere a posto le pietre e di risanare la vecchia città, ma anche dell’importanza di ricucire il tessuto sociale, i luoghi d’incontro, la cultura, i pensieri, i sogni e la vita quotidiana.
La nuova ondata di associazioni civili fu l’inevitabile reazione all’impostazione dall’alto nel post-disastro da parte del governo italiano, riconosciuta dalla stampa.
Reportage e slides a cura di Antonio Gasbarrini
L’attuale legislazione limita le strutture di partecipazione essenzialmente ai Consorzi, che non riescono tuttavia a promuovere in modo efficace il contributo dei cittadini. Essi sono semplicemente strumenti di negoziazione all’interno del processo di ricostruzione, gestiti da tecnici esperti interessati soprattutto al miglioramento materiale delle zone colpite, che non prendono in alcuna considerazione la dimensione sociale della sfida. Davanti a questa situazione di stasi sociale alcuni cittadini hanno intrapreso la via di riorganizzare e sfruttare le risorse esistenti e di agire, anziché attendere risposte dall’alto.
Riportiamo un brano tratto dal racconto fatto dai ricercatori:
“Come tutte le domeniche, quella del 18 aprile 2010 non fece eccezione: il Popolo delle Carriole organizzò una ‘scarriolata’ nella zona rossa. Qualche giorno prima, come di consueto, tutti i membri del gruppo furono invitati attraverso Facebook a partecipare con le loro carriole. Il raduno era fissato per le 10:00 in Piazza Duomo, per poi andare a rimuovere le macerie a Piazza IX Martiri e Piazza del Sole. Formarono un gruppo ed iniziarono a spalare e le macerie nelle due piazzette. Era un vero lavoro di gruppo in cui ognuno dava il proprio contributo, passando di mano in mano i secchi con le macerie da rimuovere, attraverso una catena umana.”
Gli ostacoli alla partecipazione
Tra gli ostacoli da superare per rendere effettiva la partecipazione delle popolazioni, nell’attuale contesto, vengono citati:
- la mancanza della volontà politica di includere le iniziative popolari nei piani di ricostruzione;
- la mancanza di canali di comunicazione con le autorità locali;
- la necessità di concentrarsi sul miglioramento dell’ambiente materiale.
Il Sindaco Cialente, a detta dei ricercatori, ha sostenuto che l’ondata associativa era parte di un ciclo normale che aveva a che fare con le conseguenze della tragedia, espressione di varie emozioni, quale il bisogno di protezione, la rabbia, il senso di colpa e la depressione. Con tali non condivisibili affermazioni,si sminuiva di fatto l’importanza della domanda di partecipazione popolare e il suo potenziale contributo alla rinascita sociale e materiale. Come viene riconosciuto dalla comunità scientifica, pur in presenza di importanti difficoltà psicologiche nella popolazione, è stata anche osservata una grande capacità di recupero nella messa in atto meccanismi di partecipazione alternativi da parte delle organizzazioni.
I funzionari degli uffici per la ricostruzione (USRC – USRA), per giustificare la mancanza di partecipazione dei cittadini, dichiararono di considerare conclusa la fase di partecipazione, essendo ormai avviata quella operativa.
Tale clima istituzionale approfondisce l’attuale senso di stagnazione della società civile, mentre un profondo senso di frustrazione si mescola agli occasionali momenti di conflittualità, ponendo ulteriori sfide nell’incerto panorama di una ricostruzione integrativa
I pionieri urbani
Subito dopo il terremoto tutto il centro storico dell’Aquila fu interdetto e sorvegliato da pattuglie militari. I cittadini che avevano necessità di accedere alle vecchie abitazioni per recuperare oggetti personali o per altre necessità dovevano essere accompagnati dai vigili del fuoco. Nel 2012 la zona rossa fu ristretta. A giugno del 2014 fu limitata ad alcuni edifici puntellati, con alto grado di deterioramento.
Alcuni coraggiosi cittadini, che la ricerca definisce “Pionieri Urbani”, cominciarono a tornare in centro, cercando di rimettere in piedi qualche attività. Si trattava per lo più di negozianti, soprattutto quelli titolari di vecchie botteghe, i cui locali erano situati al piano terra di antichi edifici non ancora restaurati nei piani superiori, ma resi temporaneamente agibili dopo la messa in sicurezza con i puntellamenti. La maggior parte degli esercizi commerciali riattivati erano bar e ristoranti, che offrivano servizi agli operai e tecnici addetti alla ricostruzione e ai turisti in a visita nella città distrutta. Scarsa era l’offerta di prodotti di prima necessità e di altri servizi essenziali. Tutto ciò, insieme alla lentezza del processo di ricostruzione dovuto alle complesse procedure per la gran parte degli edifici di valore storico e ambientale, rendeva difficile il ritorno dei vecchi residenti nel centro storico, che rimaneva desolatamente vuoto soprattutto nelle ore serali e notturne.
Come il cuore in un corpo umano, la zona centrale dell’Aquila è l’organo vitale per le attività sociali, finanziarie, istituzionali e culturali della città. Se il cuore non è in funzione, rilevano correttamente i ricercatori, è impossibile parlare di ripristino della vita nella città.
Tra le difficoltà riscontrate nella scarsa ripresa di vita, c’è stata anche la mancanza di sostegno economico per coloro che avevano riiniziato a lavorare nel centro storico, nonostante la ridotta presenza di abitanti, solo in parte compensata dalle altre presenze occasionali. Gli esercenti non proprietari dei loro negozi, dovevano anche pagare alti fitti per i pochi locali disponibili, che avrebbero dovuto poi essere lasciati, al momento dei lavori di ristrutturazione dell’intero edificio. Tutto ciò ha scoraggiato molti negozianti ed altri operatori dal tentare di riprendere l’attività nel centro storico e non ha neppure favorito il ritorno degli abitanti, in un circolo vizioso che sembra allontanare nel tempo le prospettive di ripresa della città.
Uno dei pochi segnali di ripresa è stato il ritorno degli studenti, incoraggiato dalla sospensione delle tasse universitarie per gli studenti fuori sede, anche se scoraggiato dalla scarsità di servizi e di vita sociale. La loro presenza ha favorito la nascita di alcuni centri di aggregazione, che non fossero solo i pub e i centri commerciali, come ad esempio l’Asilo Occupato in Viale Duca degli Abruzzi e le Casematte a Collemaggio.
In conclusione, i ricercatori della T.U. di Berlino manifestano un certo ottimismo, che traspare dalla lettura del seguente brano:
“Le mie osservazioni sulle persone anziane in giro per la città e i miei incontri con i proprietari di case mi ha permesso di capire l’attaccamento degli aquilani al loro ambiente e al patrimonio architettonico e naturale. Passeggiando lungo le strade spesso vuote, ho percepito l’odore delle macerie degli edifici storici con la loro antica grandezza, ma ho anche catturato un’atmosfera di avvio ad un futuro migliore – specialmente quando ho conosciuto lo spirito e la volontà di alcuni cittadini di accettare le condizioni di vita del loro ambiente devastato, per contribuire con creatività e vitalità al recupero del centro storico. Accanto agli imprenditori e ai cittadini che vivono in centro, ho classificato quali pionieri urbani anche gli studenti”.
[1] La nostra traduzione integrale del testo in lingua inglese Heritage and Catastrophe: Prevention, Emergency, Restoration and Transformation in 2009 L’Aquila Earthquake, sarà messa in rete in formato PDF in questo stesso articolo non appena i titolari del diritto d’autore ne daranno l’autorizzazione.
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