Quando un format d’0ltreoceano viene trasposto a L’Aquila lo spettacolo dell’arte (im)pone questioni (ir)risolte

di Enrica Cialone

Nel contestualizzare un progetto come OFF SITE ART non si può non fare riferimento a quella che Bauman chiama società liquida, la società contemporanea (Bauman, 2000). In tale contesto è venuta meno la preesistente barriera tra cultura e leisure, tra “alto” e “basso”, tra originale e copia, tra museo e spazio commerciale, tra educazione e intrattenimento.

Fase matura e superamento del saggio del filosofo tedesco Walter Benjamin, intitolato L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, l’opera liquida si è consolidata all’interno di un fenomeno dell’industria culturale, noto come edutainment ovvero pratica liquida di fruizione di un prodotto, sia che si tratti del “patrimonio culturale”, sia di altri prodotti dell’industria culturale. La caratteristica distintiva è quella di mescolare l’educational all’entertainment. Tradizionalmente associato a forme di didattica “leggera” per bambini e ragazzi – nello specifico di siti e musei: i laboratori e le attività ludico-didattiche, visite animate – l’edutainment è un fenomeno che va ben oltre fino a coinvolgere tutta la popolazione e tutte le classi d’età e che, proprio per la sua duttilità e capacità di recepire le esigenze del mercato, si è adattato perfettamente alla nostra società. L’edutainment poggia su una serie di fenomeni culturali tra loro interrelati che interessano i fruitori, il “pubblico audience” e il “pubblico comunità”: il processo di de-intellettualizzazione della società, la perdita di conoscenza storica, il bisogno crescente di prove esperienziali e l’appiattimento delle identità generazionali.

E il progetto di arte pubblica OFF SITE ART – ArtBridge per L’Aquila, che prende il nome dall’omonima Associazione culturale no-profit con sede nel capoluogo abruzzese, ripropone un format d’Oltreoceano [newyorkese per precisare] dell’Associazione ArtBridge a L’Aquila, “humus” ideale per creare laboratori e officine creative, laddove la figura del curatore-bricoleur “non sa esattamente cosa produrrà” al momento della ricerca, ma nella fase di costruzione lo porta a collezionare e creare le cose più strane e diverse.

Il progetto che ha generato molto rumor in città, ha ricevuto il patrocinio del Comune, dell’Università degli Studi dell’Aquila e della Regione Abruzzo. Fondamentale per la sua realizzazione il sostegno economico di cittadini e il contributo di importanti istituzioni pubbliche e private della città: il Gran Sasso Science Institute, l’ANCE L’Aquila, la Fondazione Carispaq, la BPER – Banca Popolare dell’Emilia Romagna, l’Ordine degli Architetti della Provincia dell’Aquila. Da non dimenticare è la collaborazione con TerreMutate, MU6, Smartly s.r.l e Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica dell’Università dell’Aquila.

Viene da chiedersi: al di là del “rumore” generato, questo progetto è realmente importante per la città? Ai posteri l’ardua sentenza. Il pro del progetto è l’arma dell’arte come la più potente che ci sia, perché non violenta, non distruttiva, ma costruttiva di un paesaggio urbano in trasformazione, in cui rivitalizzare l’anonimato dei cantieri edili con forme d’arte pubblica, seppur episodiche, derivanti «da una fortuita sinergia tra attori sociali, risorse disponibili e opportunità spaziali». Ad essere protagonista è “il linguaggio senza frontiere delle immagini” per citare le parole della curatrice Veronica Santi nell’intervista di Giuliana Benassi per Exibart (26 febbraio 2016). La forza e l’universalità dell’immagine fotografica è tale a New York come a L’Aquila.

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Un meccanismo utilizzato da Off Site Art, comune a tutto il sistema dell’arte contemporanea, per selezionare artiste/i sono le calls for art, e quattro sono le calls for Art di OFF SITE ART: ARTE IN COSTRUZIONE, L’AQUILA IN, URBAN MODULATION, CHANGE sviluppatesi nell’arco di tre anni dal 2014.

Le quattro call interessano diversi linguaggi artistici e la partecipazione di artisti/e impegnati sul fronte della ricerca. Dal carattere metropolitano newyorkese della prima call “Arte in costruzione” il macro-occhio dell’Arte plana a L’Aquila, approda nel suo ventre, che materno accoglie la call “L’Aquila In” impegno e indagine su una piccola parte della geografia artistica di un territorio ferito. Nella terza call “Urban Modulation” ci si focalizza sulle interazioni urbane e sulle ristrutturazioni architettoniche fino a coinvolgere la vita sociale e intima, quotidiana in città e in famiglia. CHANGE l’ultima call ha voglia di “cambiamento”: occorre restare o andare? Fare un passo avanti, maturare o rimanere imprigionati in situazioni e rigidi schemi mentali? Rispetto a chi e a cosa? Nei tre anni di attività Off Site Art ha trasformato il centro storico aquilano in uno strano museo, che in assenza di gallerie e luoghi convenzionali per l’arte, ospita temporaneamente mostre “BLOCKBUSTER” a cielo aperto che tentano di alimentare un turismo culturale di massa legato all’evento.

Le opere, presentate sotto forma di riproduzione fotografica su pvc, spaziano dall’illustrazione alla fotografia, dalla new media art alla grafica, sono state prodotte altrove.

L’attenzione, allora, si concentra sugli aspetti successivi al momento della produzione, cioè sull’aspetto della “distribuzione” e su quello della “recezione”. Nel primo caso le opere non sono opere site specific, gli artisti e le artiste non hanno lavorato sul luogo – come si conviene ad un progetto di public art in qualsiasi contesto colpito da “catastrofi” e in crisi ma su temi proposti dalla curatrice e il suo staff. Una chiara visione autoreferenziale dell’arte che pubblicizza se stessa, “un’autoreferenzialità erudita” che indugia su questioni esistenziali sulle quali si sono interrogati e si interrogano le donne e gli uomini contemporanei e che rivendica l’autonomia del campo artistico e, in generale, l’autonomia del campo intellettuale. I macro-temi come la famiglia occidentale, la città e i mutamenti architettonici, i legami e i cambiamenti sociali, umani, culturali riguardano non solo L’Aquila. E sul versante della “distribuzione” si colloca il sistema di relazioni tra produzione, circolazione e consumo dell’opera, quale bene simbolico. La circolazione implica la mediazione di istituzioni e figure professionali, interne ed esterne al sistema dell’arte. Il consumo dell’opera ci introduce all’aspetto della “recezione”, per cui il pubblico non è solo il destinatario, ma viene visto come elemento attivo del quale analizzare la sensibilità visiva, le esperienze e le abitudini percettive, l’orizzonte di attese. L’anello mancante al progetto di Off Site Art è la “recezione” da parte del tipo di pubblico, inteso come comunità e il suo orizzonte di attese.

Il linguaggio mediatico e gli interessi commerciali di stakeholders pubblici e privati modificano radicalmente il nostro modo di fruire del prodotto culturale. E alla figura del curatore è richiesto sempre più un ruolo da manager. Un cambiamento che risente molto di ingegnose operazioni di marketing che investono sull’offerta di forme di edutainment. A corredo del progetto sono stati prodotti un catalogo Arte in costruzione e Off Site App, un’App che permette di localizzare tramite smartphone le opere in centro e scoprire i cantieri attivi. A far presa è la visione di Augé per il quale i cantieri sono spazi poetici «nel senso etimologico del termine: vi si può fare qualcosa; la loro incompiutezza contiene una promessa».

Il cantiere “abbellito” sotto altra veste ricorda un progetto proposto nel 2009 dal reporter e fotografo Massimo Mastrorillo. Il progetto di Mastrorillo Temporary? Landscapes era una forma di documentazione sul luogo e si inseriva all’interno della fotografia documentaria. Da una mia intervista a Mastrorillo sono evocative le parole del reporter:

L’obiettivo del progetto è stato in definitiva quello di restituire le immagini di una verità raccontata da pochi, alla gente comune, ai non addetti ai lavori, agli aquilani. Troppo spesso le immagini autoriali rimangono oggetto di culto fra gli addetti ai lavori e troppo spesso, seppur testimoni di realtà difficili da accettare, vengono ignorate o non percepite come sarebbe necessario a causa del bombardamento iconografico a cui siamo sottoposti ogni giorno. Per questo motivo ho scelto di esporle per strada, perché la gente le osservasse con attenzione, perché diventassero anch’esse temporanee come l’ambiente che documentavano, perché, in ultima analisi, se ne impossessassero anche materialmente se lo desideravano. (giugno, 2012)

Il progetto di Mastrorillo era rivolto al “pubblico comunità” e mirava a denunciarne l’assenza nei suoi scatti perché: Questi paesaggi temporanei sono per lo più privi di persone anche nella realtà. La ricostruzione attuata all’Aquila ha portato alla disaggregazione del tessuto sociale della città, ad una “de-urbanizzazione” scellerata in un contesto in cui il legame tra persone e ambiente era ed è particolarmente forte. Ho voluto raccontare questo legame e la presenza delle persone attraverso la loro assenza. (giugno, 2012)

Off site Art sembra avere una visione distorta sulla città reale; slegato dall’ambiente naturale ed umano si offre come una passerella in cui artisti ed artiste, emergenti e non, sfilano e si lasciano “ammirare”, come su uno schermo televisivo, il cui sottotitolo è il nascente circuito artista-opera-costruttore. Il progetto Off site Art, pur proponendosi come traghettatore di ricostruzione, non risolve quel processo di “disaggregazione” e “de-urbanizzazione” di cui parlava Mastrorillo, lo amplifica.

Temporary? Landscapes creava vicinanza di pensiero, raccontava storie di prossimità anche nella collocazione dell’opera nello spazio, situata all’interno del campo visivo dell’osservatore. Off Site Art alimenta distanza nell’assenza d’intenti a lungo termine e nella scelta di collocare le opere al di fuori del campo visivo di chi guarda, soprattutto per le riproduzioni poste in spazi stretti che implicano una visuale più chiusa, come sul corso stretto della città capoluogo.

Le enormi tele riorganizzano lo spazio visivo in una prospettiva simbolica. Il loro, è un valore simbolico, un arredo urbano temporaneo che dà colore al grigiore e alla polvere del cantiere, pronto, però, ad essere smantellato non appena i lavori di restauro e ristrutturazione dell’immobile siano terminati. Non c’è storia intesa come storyboard in cui si narra qualcosa. Invece che concetti astratti e vacui abbiamo bisogno di una struttura narrativa forte. L’imperativo categorico è documentare, raccontare, narrare.

Gli anni post sismici a L’Aquila sono stati teatro di tante piccole narrazioni e contro-narrazioni, ed è per questo che abbiamo bisogno di frame da legare in un montaggio, di frame da imprimere sulle impalcature, per comporre una sequenza che dia vita a una “nuova” storia, diversa, ma nostra. Un racconto “futuro” destinato alla rilettura perché «pensare la vita al passato, al presente o al futuro significa pensarla con l’irrealizzabile desiderio di ritrovare, di fermare o di inaugurare il tempo». È necessario tenere insieme le parole e le cose per generare senso, come le parole all’interno di una frase e le opere d’arte nello spazio, per non cadere nel collasso di senso.

Bisogna prima lavorare su una prospettiva locale, che non è provincialismo ma attenzione al territorio, alimentare il senso di appartenenza, il senso del luogo, non puntare sul puro individualismo dell’artista e del curatore. Adottare un ribaltamento di prospettiva per generare contenuti nuovi, recuperare discorsi interrotti, tornare a riconsiderare una terra bisognosa, raramente toccata dalla ricerca artistica contemporanea perché lontana dagli itinerari consolidati.

Puntare ad uno sviluppo locale a base culturale: soltanto dopo si potranno creare azioni di respiro internazionale. A L’Aquila non servono call internazionali, L’Aquila non ha bisogno di format adattabili. Quanti di quegli artisti sanno cosa vuol dire vivere in città? Hanno forse perso i loro atelier come molti dei nostri? Chi costruisce il significato e a spese di chi?

Mantenere la differenza tra “pubblico-audience” e “pubblico-comunità”, tra il turista e il cittadino è imprescindibile per un ambiente urbano nel quale le azioni intraprese dovrebbero portare ad un prendersi cura del luogo, dovrebbero non solo accompagnare la fase di ricostruzione, la fase dell’attesa, ma anche la sua nuova fase di vita. Quando un format d’Oltreoceano viene trasposto a L’Aquila – le gigantografie sui ponteggi dei cantieri – lo spettacolo dell’Arte (im)pone questioni (ir)risolte.

Chiunque faccia parte del sistema dell’arte contemporanea, chiunque sia impegnato sul fronte della ricerca artistica attuale deve essere investito di una missione, quella di essere interlocutore e attivatore di processi di conoscenza. Off site art potrebbe avere una grande opportunità: quella di porre attenzione al territorio, attraverso l’attivazione di un programma di residenze «studiato con l’obiettivo di portare gli artisti in luoghi distanti dalle mete turistiche abituali, di inserirli all’interno delle comunità locali […] di invitarli alla lettura del paesaggio nella sua duplice dimensione, visibile e invisibile, e all’interazione concreta con le emergenze architettoniche locali» (Daniela Bigi in MU6, n. 30 – 2014).

Da non luogo L’Aquila è diventata luogo di leisure assoluto che ha sentito il bisogno di introdurre al proprio interno – e in qualche modo di fagocitare e metabolizzare – uno “spazio culturale” diffuso ed aperto in cui mettere a fuoco la fluidità dei fenomeni e delle esperienze che caratterizza la nostra società. Il legame tra cultura e mercato, l’interazione pubblico-privato, con un’opportuna regia che elabori una ricetta, i cui ingredienti attivi siano l’ascolto, la ricerca, la collaborazione, la valorizzazione, potrebbero fungere da stimolo per attuare processi di crescita, da inserire in un corso più ampio di sviluppo.

Questo strano museo aquilano dovrebbe essere un luogo “buono da pensare” la cultura contemporanea, un luogo buono da vedere, nel quale ritrovare la capacità di interrogarsi e di osservare, la curiosità di indagare e di scoprire, la necessità di porsi delle domande e di cercare delle risposte. Un luogo buono per vivere.

I curatori e gli artisti che lavorano sulla città disastrata devono tenere presente che accanto alla memoria dell’immaginazione, componente attiva del processo artistico, si colloca una memoria storica, nonché le tante realtà che la plasmano.