Se l’arte esprime una sua costante tensione verso la realtà, è di conseguenza anche il luogo di possibilità inesplorate, dal sensibile della carne del vedere, alla carne del mondo

di Francesco Correggia

Nella parte precedente ci siamo lasciati con la domanda su che cosa ne è dell’arte nel tempo del disastro. Per comprendere meglio tale domanda dobbiamo partire dal contesto in cui essa è stata posta. In questo senso bisogna fare un salto indietro e chiarire alcuni punti. La prospettiva da cui eravamo partiti è stata quella di prendere atto di un sostanziale fallimento del post moderno. La sua concezione performativa della società che si fondava sulla fine della storia come processo lineare progressivo e sostanziale evasione da ogni impegno e ideologia si è impattata con una crisi globale economica, finanziaria e soprattutto culturale che ha portato con sé urgenze ineludibili e nuovi modi di ripensare il mondo. Ci troviamo da qualche decennio davanti a un progressivo disfacimento culturale ed economico finanziario che è destinato a durare generando conflitti e flussi migratori sempre più imponenti. Non è solo la crisi del pianeta a preoccuparci, ma le nuove emergenze, le guerre invisibili e la violenza che scorre sui network. D’altra parte la produzione della vita sociale quotidiana si mostra come un complesso progetto in cui le persone comuni lottano per trovare il giusto equilibrio tra attenzione e distrazione, compromesso e conflitto, visibilità e segretezza, promesse e rotture. Dobbiamo guardare più da vicino le risorse sociali e culturali che le persone devono esprimere per aumentare la prevedibilità di vite regolarmente sfidate da emergenze, eccezioni disastri angherie.

Slides (a cura di Francesco Correggia)

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In un mondo di messaggi veloci, molteplici canali di propaganda seduttiva, intenso sovraffollamento e forte pressione a gareggiare o a uscire di scena più che a conformarsi, l’abitudine quotidiana esige un miracolo di cambiamento di prospettiva e di cooperazione. La domanda che ci poniamo ora prende una maggiore consistenza: può esistere ancora una scrittura nel tempo del disastro o meglio una dimensione politica dell’arte che sappia porre all’interno della sua dimensione attuale e del suo mondo una specie di etica della discrezione, di non violenza, di sottrazione rispetto al dominio coattivo, mercantile, volgare, arrogante a cui essa è soggetta ? Insomma, in breve, esiste un modo per uscire dall’abitudine, dalle ambizioni di un mondo dell’arte votato sempre di più al denaro, all’accettazione passiva del potere mediale finanziario, e, che cosa può fare l’arte per tornare a far lavorare l’immaginazione?

Se l’arte esprime una sua costante tensione verso la realtà, è di conseguenza anche il luogo di possibilità inesplorate, dal sensibile della carne del vedere, alla carne del mondo. Davanti al fatto che sembra non esserci alternativa alla crisi globale se non appunto quella di sacrifici sempre più terribili da parte dei cittadini più deboli per risanare ciò che altri (quelli più potenti e protetti), hanno provocato con la corruzione e il malaffare ci deve essere un’altra possibilità, un altro modo per ridurre la povertà, far si che si superi questo disastro permanente ridando dignità ai cittadini con equilibrio, giustizia, sensibilità. L’opera d’arte, se ancora diamo a essa un valore e un senso, impone delle scelte e in questo porsi essa non si sottrae a quella dimensione etica che è anche riscrittura del possibile nel tempo del disastro, pur nella scomparsa dell’arte e dello stesso autore che, come scrive Blanchot, tenderebbe a svanire nella scrittura e nella mancanza cui l’opera rimanda. È in questa direzione che essa è politica come la intendevano i greci.

Si crede spesso che l’arte sia il regno della soggettività, dell’irrazionale, del transeunte. Quanto queste parole, dette senza alcuna considerazione, per ciò che vogliono dire siano credenze rispetto alla realtà effettiva è evidente soprattutto se si comincia a osservare gli artisti e i loro comportamenti più da vicino senza la giustificazione del mito dell’arte. La presunta soggettività li rende inattaccabili, scevri da ogni responsabilità. D’altra parte perché averne se l’arte è sopra di tutto, se essa è con-temporanea, presenza che non ha bisogno della storia, presenza della sua stessa ipseità che non rimanda a nient’altro se non al suo vuoto, al suo stesso essere con il tempo, con il presente dove appunto l’artista si muove e agisce? Secondo questo ineffabile pensiero, proprio in questo continuare a far finta che niente sia cambiato, nell’essere se stessa pur nell’emergenza planetaria, nella sua piattezza uniforme che l’arte, secondo Jean-Luc Nancy, dice qualcosa intorno al mondo e la fa essere con il tempo.

L’arte contemporanea così nega al pubblico ogni possibile contenuto nel suo essere semplice presenza, nel suo autoriprodursi. Nel rispondere al temerario che fa qualche domanda sul significato per lui incomprensibile di quella cosa che gli sta di fronte, spesso gli artisti si trincerano dietro risposte che possono sembrare aleatorie, ma che invece fanno colpo, spiazzano l’interlocutore. Di solito le risposte dell’artista di successo sono queste: “Perché, esiste un significato ? mi piaceva far così. Questa cosa andava bene così”. Solitamente l’interlocutore non è attrezzato alle cose dell’arte, non ne comprende le dinamiche, i sotterfugi, le chiavi di ingresso, così non riesce a capire, darsi ragione di quel che l’artista vuol dire. L’artista interrogato risponde: “Sei tu che devi dare una risposta del perché”; la risposta è equivoca, gioca con le parole, è canzonatoria. D’altra parte anche chi si vuole avvicinare al mondo dell’arte con la tipica saggezza popolare e chiede che cosa significhino o rappresentino quell’oggetto, quella cosa, quella istallazione, quel quadro, non si rende conto con che cosa ha a che fare. Nell’arte contemporanea occorre fare le domande giuste, conoscere l’arte moderna e la storia dalle avanguardie in poi e soprattutto essere in possesso di codici di accesso, sapere cosa sta in testa al presunto artista, a chi si dichiara tale o è meglio non chiedere, “è l’opera che parla da sola”..

Ciò appare ancora più sorprendente quando si vuole avere una risposta dai musei dell’arte contemporanea, dalle numerose fondazioni, o da una qualche fiera dell’arte davanti ad un lavoro che appare incomprensibile, e si chiede aiuto al curatore, al gallerista, allo stesso artista che è sempre là vicino al suo lavoro, in una specie di intimistica passione. Non bisogna fare domande e neppure chiedere se l’opera presentata dalle Gallerie di richiamo e in voga, che solitamente operano fra gli interstizi dell’opera concettuale e la banalità abbia un qualche significato o esprima qualcosa. La risposta sarà sempre scontata. Semmai bisognerebbe chiedersi e in qualche modo cominciare a indagare come se fossimo davanti a un omicidio come abbia fatto quella cosa a diventare non più cosa ma opera d’arte. Quali canali abbia percorso, qual è il suo paradigma, la sua storia, ecc… Se i cosiddetti addetti ai lavori ti guardano come un ignorante uno che non sa niente delle avanguardie, di Duchamp e dell’arte moderna o non ha letto A. Danto o K. Walton allora bisogna incalzare con fermezza senza sciorinare del tutto il proprio sapere e dire “dove sono i tuoi libri?” Certo l’altro (l’artista osannato che solitamente appare sui media) se è appena un po’ preparato potrebbe rispondere: ”questo è un segno di qualcos’altro, sta al posto di qualcos’altro, è un simbolo, una provocazione” un po’ pochino per un artista che presenta il suo lavoro in Gallerie importanti e Istituzionali e che fa sopravvivere una specie di catena di sant’Antonio che riproduce clichè del commercio e dell’affare dell’arte per migliaia di euro, a volte senza che l’artista (mi riferisco all’artista che non è fra i primi posti della graduatoria del mercato) veda un soldo. Tuttavia basta essere presenti e accontentarsi.

Dietro questa imponderabile affermazione si nasconde il vero senso dell’arte contemporanea e cioè il regno del funtivo, della parvenza e la soggettività malamente assunti da parte dell’artista. Tutto è soggettivo, fa da paraflutti a ogni ulteriore domanda, a ogni interrogazione e purtroppo respinge anche il vero senso dell’apparire dell’arte nella sua dimensione più propria; quella del funtivo e cioè del fingere che qualcosa possa esistere, il far finta di niente, il fare finta che esista un qualcosa che si chiama arte, come gioco, un romanzo ben riuscito il che non sempre vuol dire fare della buona letteratura o fare arte.

Gli artisti, figuriamoci i fruitori, nell’arte chiamata contemporanea sembrano non porsi domande. Si continua a rimanere in un mondo privo di tensioni e di significazione come se all’improvviso la realtà, la morte, il fanatismo religioso fondamentalista, le angosce, i disastri ambientali, la fine dell’occidente non ci riguardassero. L’arte a volte sembra rispondere con la stessa violenza a cui oggi il mondo è assoggettato. Essa non si manifesta più come una dimensione dove qualcosa di essenziale è in gioco, dove attraverso l’opera l’uomo incontra il divino fra un celarsi e uno svelamento, né tanto meno essa si fa corpo con il proprio tempo come possibilità inesausta attraverso cui può leggersi il mondo. Il denaro è penetrato dappertutto fino all’ultima sacca di resistenza: lo spirito. Proprio per questo occorre dire che l’idea che il denaro possa essere una misura importante del valore è non solo utopica ma del tutto sbagliata. Il fatto che oggi il denaro sia di fatto diventato strumento utile e padrone assoluto degli scambi, genera un’ universale mercificazione del valore e quindi, come scrive Carlo Sini, si compie un totale capovolgimento: solo ciò che è traducibile in denaro ha valore. Il denaro diviene così da unità di misura, criterio di esistenza.

Nel mondo dell’arte le cose non sono diverse. Esiste solo l’ambizione, il successo e il mercato dell’arte. Ma è proprio così che si può fare arte, senza una dimensione ontologica e ricostruttiva del suo essere, senza una presa di posizione, senza un’arte della ritrazione che fa mondo? Basta guardare alla storia dell’arte soprattutto alla storia della pittura per comprendere che non è stato mai così. Pittori come Rembrandt, Gericault, Delacroix fino ad arrivare a Cézanne, Noland e Reinhard hanno affrontato le questioni del loro tempo in profondità. Si sono misurati con la storia in un impegno costante con l’opera e il suo rapporto con il mondo, la realtà, il pubblico, la politica. Pittori che hanno vissuto nel proprio tempo rivolgendosi non solo a ciò che li precedeva, ma anche alla cultura, alle problematiche e alle dinamiche sociali con il lavoro dell’immaginazione che sempre ridona senso e singolarità all’esperienza umana. L’opera, scrive Blanchot, viene dagli déi agli uomini, collabora a questo passaggio, poiché ogni volta pronuncia la parola cominciamento in un modo più originale di quanto non lo siano i mondi, e le potenze che si servono di essa per manifestarsi o per agire. Ma l’opera è anche il silenzio di Dio, sottrazione, solitudine. Per esserci ha bisogno della distanza e della pazienza, il che oggi non solo non è possibile ma risulterebbe vano in una situazione di eccessi, rincorse e prevaricazioni. Proprio perché l’opera in questo senso è trasversale a ciò che meramente è presente, essa è ciò che si sottrae negandosi. Non solo in questo modo l’opera ci dice qualcosa, ci guarda e ci interroga, ma, nonostante la sua solitudine, apre a una possibile visione del mondo e risponde a chi sostiene che non c’è alternativa alla crisi se non quella che viene propagandata e diffusa dai media. L’opinione secondo cui non ci sarebbe nessuna alternativa all’attuale forma di capitalismo globale consisterebbe nella convinzione molto discutibile che l’economia fondata sul capitale finanziario produca alla fine benessere per tutti gli esseri umani. Non è così e lo si può capire dal progressivo estendersi del dislivello economico tra le poche nazioni capitalistiche e il resto del pianeta dove appunto cresce la povertà.

Occorre dire che l’arte di oggi quella che appunto appare nelle Gallerie, nei musei contemporanei che è vezzeggiata dai collezionisti alla moda, nelle fiere dell’arte, non sembra porsi tali problemi. Essa non ha proprio da porsi queste questioni e non ha bisogno neppure del pubblico inteso come elemento di una triade fruitiva che va dall’emittente del messaggio al ricevente attraverso un canale, un codice di cui sono a conoscenza sia l’emittente sia il destinatario. Le cose stanno sostanzialmente in questi termini: nell’arte contemporanea non c’è alcun messaggio da comprendere, né un codice o una significazione. Essa è attraversata da una rete che comprende gli specialisti, le Istituzioni, le fondazioni, i musei, qualche Galleria, l’organizzazione dei media e coloro che comprano i quali solitamente non sono un pubblico qualsiasi ma professionisti del settore, agenti finanziari o amanti, sempre più rari, di quel genere di arte. Anche l’illusione di un’arte che si rivolge al più vasto pubblico è solo una chimera. Il collezionismo quello vero e sensibile che non ha bisogno di indici finanziari, di fiere o di classifiche di mercato per valutare il valore di un opera, si è quasi del tutto dileguato. La crisi ricade soprattutto nel settore più delicato dell’economia globale dell’arte: quello del mercato primario. I vecchi collezionisti non vogliono più rischiare, i nuovi sono dubitosi e sembrano non rivolgersi più alle gallerie ma direttamente all’artista. Rimane il mercato secondario che continua a prosperare secondo logiche di un capitalismo finanziario sempre più irrazionale e distruttivo .

Perché accade questo? È ovvio che se l’arte ha perso il suo valore più profondamente culturale, simbolico e conoscitivo e il suo sostanziale rapportarsi con il mondo, rimane solo il mercato e la sua prassi . Oggi il valore dell’opera è dato da una strategia di affermazione e di progressione economica sul prezzo dell’opera, il che passa dalle Istituzioni museali, da alcune Gallerie che le sostengono finanziariamente e dalla complicità dei media. Quando l’economia finanziaria va in tilt le conseguenze nel mondo dell’arte sono disastrose. D’altra parte siamo dentro una società dell’informazione mercificata che crea un frstornante rumore di fondo che nasconde il reale tanto che ogni messaggio critico è censurato o diviene imprevedibilmente stravolto e lo stesso accade in generale per la cultura sempre più appiattita su bassi livelli commerciali. Il disastro dunque ora tocca le corde più profonde dell’agire dell’arte impedendone in qualche modo la sua onda d’urto più importante e cioè la sua apertura all’inaspettato, al suo essere sempre in tensione e trasversale con il consenso immediato.

Che cosa rimane dunque da fare all’artista travolto da questi grovigli di disastri permanenti e come dovrebbe affrontare la questione del rapporto con la realtà delle cose e uno sbandamento etico ed estetico senza precedenti: con la non violenza in quanto moralità del rifiuto militante o con qualcos’altro ?

L’arte, che qui chiamiamo della scomparsa, come scrive Pierre Zaoui nel suo libro “l’arte della sparizione” sarebbe invece più che una risposta non violenta alla violenza dominante del denaro, proprio un sottrarsi e insieme un ripartire, un non nascondere nulla fino a non avere più nulla da mostrare, fino a rendere la propria presenza impercettibile. In una società di onnivisibilità patologica come la nostra, consacrarsi alla sparizione può essere un modo di sottrarsi ai vani giochi delle immagini di sé e delle ambizioni personali. Sottrazione come svanimento di sé che ritorna al sé dopo l’esilio, dopo la sparizione. Qui si fa forte l’uscita da sé e il ritorno a sé come qualcosa di immisurabile e di originario che può iscriversi dentro registri visivi o diventare scrittura dell’indicibile e del dolore.

Sottrarsi alle cose che si posseggono come a quelle che non si posseggono; sottrarsi alla paura di perdere come alla paura di non avere più nulla da perdere, di essere perfino senza spazio, senza identità, senza movimento. La caratteristica di ogni arte è nascondere le sue regole, non poterle mai neppure dire con chiarezza e in modo univoco. Così l’arte della discrezione non solo è sottrazione che restituisce visione ma è anche il suo significato matematico, ciò che è il discreto che proprio in matematica impone nome al discontinuo: lo studio della serie che poggia sui valori interi. E nell’arte è proprio la discontinuità, la rottura degli equilibri a mostrarsi, a rendere visibili non solo quelle regole che non si volevano dichiarare ma anche a trasformare il nostro modo di percepire la realtà in cui viviamo .

È senz’altro Blanchot a essersi spinto più lontano di tutti nel senso di caratterizzare l’essenza dell’arte moderna come arte della scomparsa. Dipingere, scolpire, scrivere, filmare, sarebbe per lui un cercare la scomparsa. Ciò è da intendersi in almeno tre sensi: la scomparsa dell’autore che tende a sparire nel testo, l’importanza dell’opera rispetto agli stati d’animo dell’artista, della sua gloria e del suo genio, persino dello statuto di artista, se ne esiste uno, e infine la scomparsa della stessa arte e della letteratura che tenderebbero essenzialmente verso la non arte e la non letteratura. Persino l’opera, scrive Blanchot, rende l’arte presente solo col suo dissimularsi e sparire.

Siamo arrivati al punto centrale del nostro cammino sulla scrittura del disastro e cioè la doppia opposizione fra mascheramento e smascheramento, finzione e antifinzione. L’arte della discrezione e quella della scomparsa dell’autore sarebbero arti del gioco discreto della sottrazione, della mancanza, dell’assenza che prende le distanze, dal rumore dell’apparire, dalle seduzioni, dagli oggetti, dai consumi eccessivi. In questo senso l’abitare la solitudine è anche un modo per saper percepire il mondo e le cose del mondo senza l’abitudine, senza i convenzionalismi settari, senza l’infamia dei giochi televisivi e della realtà che rendono stupidi, volgari intellettualmente ed esteticamente mediocri, ma è anche un modo di pensare al pianeta come organismo vivente che deve essere difeso, salvaguardato dalla distruzione a cui lo sottoponiamo per avidità. Ci si sottrae non per rinuncia, ma per raccogliere le poche cose che ci rimangono e restituirle al loro senso. Quando scomparirà del tutto la discrezione scomparirà o forse è già scomparso il mondo.

Poiché non può avere luogo nella storia, il nuovo, la novità è anche ciò che vi è di più antico, qualcosa di non storico a cui siamo chiamati a rispondere come se fosse l’impossibile, l’invisibile, ciò che da sempre è scomparso sotto le macerie. Maurice Blanchot in: “La scrittura del disastro”.