Esiste per la Storia dell’Arte una reale possibilità di azione nei contesti colpiti da catastrofe? Può una disciplina teorica portare attivamente un contributo alle comunità coinvolte?

di Carlotta Brovadan

Un’occasione di confronto su simili interrogativi è stata offerta dal convegno Dopo la catastrofe. La storia dell’arte e il futuro della città (https://www.khi.fi.it/5129570/20150306_Aquila), organizzato a Firenze dal Kunsthistorisches Institut (6-7 marzo 2015, a cura di Carmen Belmonte, Elisabetta Scirocco e Gerhard Wolf).

Le due giornate hanno affrontato da diversi punti di vista quale ruolo la storia dell’arte ha avuto e, soprattutto, dovrebbe avere negli interventi messi in atto sul patrimonio culturale colpito da eventi catastrofici. L’immagine restituita dal mosaico di relazioni è quella di una disciplina che non si sottrae al confronto e alla collaborazione con specialisti di altri campi, ma che rivendica la propria vocazione civile nell’orientamento metodologico delle azioni di tutela, conservazione e restauro non soltanto dei singoli beni culturali, quanto piuttosto dell’intera rete di rapporti che li lega alle comunità che li hanno creati e vissuti.

Un approccio che ha contraddistinto in particolare il gruppo di ricerca L’Aquila as a Post-Catastrophic City (https://www.khi.fi.it/5131723/wolf_Aquila), anch’esso promosso dal Kunsthistorisches Institut in Florenz e composto da quattro storici dell’arte (Pavla Langer, Luca Pezzuto, Jamie Sanecki, Beth Saunders), due architetti (Giovanna Cennicola, Daniel Screpanti), un archeologo (Piero Gilento) e un fotografo (Antonio Di Cecco), che al convegno hanno presentato i risultati del lavoro di approfondimento svolto tra gennaio e marzo 2015 sulla situazione aquilana a sei anni dal terremoto.

Reportage (a cura di Antonio Gasbarrini)

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I contributi che hanno preso in considerazione la condizione dei beni architettonici e paesaggistici colpiti da catastrofe (Pier Luigi Cervellati, Carla Tosco, Emanuela Guidoboni, Olimpia Niglio) hanno segnalato due principali problematiche che, soprattutto nel contesto italiano, sono di ostacolo alla salvaguardia della città storica. La cronica riduzione delle risorse destinate a una programmazione organica degli interventi sul tessuto urbano nonché di quelle riservate alla conservazione preventiva espone, oggi più che in passato, edifici storici e paesaggi antropizzati a un costante indebolimento, che ne mina la resistenza ad eventuali fenomeni catastrofici. I progressi in continuo divenire nel campo del restauro non possono infatti supplire totalmente, a posteriori, ai danni imputabili alla mancanza di una regolare opera di manutenzione.

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La sfida principale per la Storia dell’Arte appare tuttavia quella di prendere parte, con un ruolo attivo e di indirizzo teorico-critico, al recupero post-catastrofe del patrimonio architettonico fin dalle prime fasi dell’emergenza. Un esame retrospettivo dell’evoluzione, dal Settecento in poi, delle discipline della conservazione ha infatti individuato il momento immediatamente successivo all’evento catastrofico quale snodo cruciale per la definizione del destino, che sia di ricostruzione o di abbandono, degli edifici (Valentina Valerio). La messa a punto di progetti di intervento coerenti, che valutino criticamente le differenti possibilità metodologiche e operative (Valentina Russo) e che tengano conto delle stratificazioni storiche dei centri italiani, salvaguardandone i valori materiali e immateriali, appare necessaria per sottrarli a demolizioni, a manomissioni o a cambi di destinazione che possano successivamente apparire ingiustificati. In un quadro simile il criterio del “com’era e dov’era” (Tomaso Montanari) è da intendersi non come stimolo alla ricostruzione artificiosa di centri storici cristallizzati in una sorta di musealizzazione disabitata. Al contrario, esso si pone principio informatore di un restauro architettonico che restituisca alla fruizione della comunità non solo gli edifici monumentali, ma anche il tessuto dell’architettura abitativa circostante (Giovanna Cennicola, Piero Gilento, Daniel Screpanti).

Se la gestione condivisa tra Storia dell’Arte e altre discipline degli interventi di recupero di beni architettonici appare complessa anche per la necessità di un compromesso tra la salvaguardia del monumento e le istanze di sicurezza, più agevole sembrerebbe indicare i principi da applicare per restituire al loro contesto nel breve termine, sebbene eventualmente in sedi temporanee, i beni culturali mobili restaurati secondo modalità da verificare di volta in volta per ciascun caso (Marco Ciatti).

L’esame della situazione aquilana (Pavla Langer, Luca Pezzuto, Jamie Sanecki) restituisce tuttavia un significativo spaccato delle problematiche che coinvolgono la tutela delle opere d’arte in Italia, talvolta gestita dagli enti preposti in maniera unilaterale, privilegiando iniziative di “valorizzazione” che in realtà, distogliendo le opere dai luoghi di provenienza, ne inficiano la corretta lettura da parte del pubblico e le sottraggono alla fruizione diretta nei contesti di provenienza.

La contrazione che si registra, a livello globale, dell’impegno e delle risorse economiche profusi in prima persona dalle amministrazioni statali per la conservazione e il restauro dei beni culturali consente un crescente coinvolgimento di soggetti appartenenti al mondo del volontariato (Michael Falser). Tale circostanza non appare negativa di per sé, fermo restando che essa non debba costituire un alibi per lo Stato italiano ad abdicare a quel principio fondamentale della Costituzione che, all’articolo 9, gli affida la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. La tendenza, questa, sì, da contrastare, che sembra prendere piede in Italia vede però un sempre maggiore margine di autonomia lasciato a volontari sprovvisti di formazione specifica e non coordinati da specialisti del settore, come verificatosi anche a L’Aquila dopo il terremoto del 2009 (Cristiana Pasqualetti). La svalutazione del ruolo dei professionisti della tutela dei beni culturali rientra nel più ampio fenomeno di spettacolarizzazione della cultura che, come già accennato, si concentra su iniziative di valorizzazione dal limitato valore scientifico, che distolgono risorse da interventi più utili al recupero delle opere, al loro reinserimento nel contesto originario e a una loro più proficua e consapevole fruizione da parte del pubblico. Sintomatico da questo punto di vista appare il caso delle opere del Museo Nazionale d’Abruzzo, inagibile dal 2009, le quali, in attesa di una nuova sede temporanea, a oggi non ancora completata, sono state esposte negli ultimi sei anni solo in occasione di mostre temporanee al di fuori della città. La comunità aquilana è stata quindi messa nell’impossibilità non solo di tornare a fruire del proprio patrimonio culturale, ma anche di frequentare spazi museali che altrove, in circostanze simili, hanno offerto possibilità di aggregazione alle popolazioni colpite da disastri naturali. Il ruolo dell’arte-terapia, dell’arte contemporanea e della fotografia nell’elaborazione della catastrofe (Alessandro Del Puppo, Tiziana Serena, Beth Saunders, Antonio Di Cecco), sperimentato anche a L’Aquila grazie alla collaborazione con la locale Accademia di Belle Arti e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha trovato ad esempio un felice coronamento a New Orleans, dove il New Orleans Museum of Art ha promosso la rassegna Kathrina through the eyes of children (http://www.katrinaexhibit.org/index.htm), dedicata ai disegni realizzati dai bambini della Louisiana nelle sessioni di arte-terapia organizzate dopo l’uragano Kathrina (2005).

Il convegno, concluso dall’intervento di Salvatore Settis dedicato all’Eclisse e resurrezione della città storica, lungi dall’avanzare soluzioni univoche di fronte alle criticità che connotano la situazione del patrimonio culturale colpito da catastrofe, ha tuttavia chiaramente segnalato la necessità di una gestione quanto più condivisa e interdisciplinare possibile delle situazioni di emergenza, perché i professionisti della cultura e i cittadini non rimangano al margine delle attività di tutela e divulgazione, ma, anzi, possano attivamente realizzare una vera opera di valorizzazione, intesa quale vivificazione del rapporto tra beni culturali e contesto, ben lontana da quelle musealizzazioni ostili al pubblico che talvolta la Storia dell’Arte è tacciata di perseguire.