Il sistema del cosmo è elastico. Fino alla soglia massima di tolleranza del carico di sofferenza

di Luigi Fabio Mastropietro

Tenebrae sine principio in principio, ut tenebrae sine fine in finis
Tenebra senza principio in principio come tenebra senza fine in fine 
Fine e principio legati nella vibrazione della tenebra nel vuoto 
Tenebra nel vuoto che tutto vibrando contiene prima della luce
Tenebra nel vuoto che tutto tremando risuona del respiro di Colui che è
Fiato che smembra membrane d’ombra da tenebra
Membrane d’ombra che vibrano i nomi delle cose e le cose stesse
Vibrazione oscura che accende l’essere trafiggendolo
E luce fu oscura vibrazione sola essenza dell’essere

        24

12     8     36     Suo respiro che tutto attraversa

       72

Quadro primo – così come è scritto

Quanta paura, troppa paura. Brucia la gola e scortica la pelle delle mani, rivelando le stimmate. Quanto dolore, troppo dolore. Le lacrime non sciolgono il nero sui volti dei morti e dei vivi. Anche qui a Collemaggio l’aria è satura di vapore rosso come un velo di sangue sugli occhi. La terra trema senza sosta, come per scrollarsi di dosso i parassiti che la divorano. Da ore sto scavando nei detriti che coprono la tomba di Celestino da Morrone, ma della tavola ancora nessuna traccia. La tavola di Raja, più antica delle tavolette di Tartaria, più remota del codice proto-elamitico. Sepolta sotto il labirinto della basilica e che il terremoto ha fatto riaffiorare. Un frammento di coronio poco più grande di una mano che parla di vibrazione oscura e contiene le cifre del respiro di Dio. Le cifre che se decifrate rivelano l’inganno della separazione tra visibile e invisibile. Strappano il velo di Maya e consegnano l’uomo al suo destino di polvere. La luce che invera il male illuminandolo. Straordinario paradosso che solo gli eretici e i folli possono cogliere in tutta la sua devastante evidenza filosofica.

Raja deve essere restituita al buio del meridiano di risonanza di Collemaggio. Poiché è scritto che il grande inganno deve perpetuarsi fino all’estinzione. Così la scienza delle ottave scolpita nei sei cerchi concentrici e nelle settantadue braccia del rosone della basilica. Il respiro sonico di Dio 8 – 12 – 24 – 36 – 72 e la  vibrazione del cosmo. Il codice cabalistico della natura uguale e contrario ai settantadue nomi di Dio della tradizione talmudica. La precessione settantaduesimale degli equinozi e la terra che slitta sull’ellittica di rotazione intorno al sole di un ottavo di grado ogni settantadue anni. Le inaudite corrispondenze tra il ciclo Maya dei cinque soli e il codice iperottico dei poliedri platonici. Tutte le indecifrabili cifre che numerano il mistero dell’Essere e lo tengono in vita. Il folklore e i miti. Le scritture dei morti e dei vivi. Il libro delle genti e degli dei. Il fuoco di Vanth che alimenta la terra, a sua volta alimentato dalle deflagrazioni emotive delle piccole e grandi guerre fratricide. Il Nirthyana che scorre a fiumi nelle vene e nelle arterie della storia, latte sacro della paura nutrice degli Antichi e degli Abitatori di Fuori. La cosmologia impossibile di Giordano Bruno e l’enneagramma di Georges Ivanovič Gurdjieff. L’astronomia maledetta di Carlos Muñoz Ferrada e i terremoti e le inondazioni. I tifoni e i maremoti, le eruzioni e le frane. Tutti prevedibili e misurabili come l’accesso di febbre o il colpo di tosse di un cucciolo d’uomo. Le eresie e le rivelazioni. I segreti perfetti e le profezie imperfette. Tutta la conoscenza esoterica del mondo scompare nel clangore della famelica risonanza che sento ora salire dal cuore violato del pianeta fino al pavimento e alle mura della basilica. E risuonare perfidamente nelle viscere del mio corpo nudo e scorticato, senza più pelle. Esposto nel suo profondo alla vita.

Mentre stringo ancora una volta la tavola di Raja al petto, penso che ormai le tombe si stanno scoperchiando sotto la pressione di quella stessa scienza galileiana che le aveva scavate. Il numero 8 non è più solo l’elica dell’infinito ma corrisponde ora al numero delle vibrazioni fisiche di una superstringa ordinata nell’equazione modulare di Ramanujan. Il numero 24 non è più solo la misura occulta dello zodiaco di Dendera ma scandisce ora il numero delle oscillazioni di una singola stringa bosonica. La meccanica dei quanti sta conciliando micro e macrocosmo. La fisica teorica sta riallineando spirito e materia sull’asse vibrazionale dell’universo. Quando mancano solo poche precessioni equinoziali all’estinzione, la matematica pura prova a ricucire l’emisfero destro con quello sinistro. Appena ventiquattro anni prima del nuovo passaggio ciclico di Hercòlubus, il mondo sembra destinato a sollevarsi le cataratte dagli occhi. Cielo e terra anelano a ricongiungersi in vista dell’età dell’Acquario. E invece, restano poche migliaia di passi del terminatore crepuscolare sulla faccia del globo terracqueo. L’uomo si riconoscerà allo specchio solo per essere partorito a  rovescio dentro il ventre di Dio.

Ma ora il pensiero è fermo alle 3 e 32 di ieri notte. 3 + 3 +2 = 8. Ancora una volta il respiro di Dio soffia al culmine della catastrofe. Rifusi nella vibrazione oscura in 309.  3 + 0 + 9 = 12 il codice del movimento ascendente del respiro sonico. Ancora due volte dodici e il Respiro esalerà l’ultima rifusione con la croce rossa nei cieli. Anno siderale 2033 = 2 + 0 + 3 + 3 = 8.

Non ho più il controllo degli eventi. Nessuno di noi Nephilim lo ha più. D’altra parte, chi è rimasto su questa terra ad agire veramente in nome Suo? Il Suo fiato ha fatto vibrare le sacre corde ma ora Lui è lontano. In fondo al vuoto a sgranare mondi. Alle sue spalle la tenebra sbrana la luce.

Portfolio di Franco Iafelice (Colonna musicale di Mari de Jesu Correa)

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Quadro secondo – viaggio nell’Orbe di dentro

Le macerie si stendevano a perdita d’occhio.
Intorno tutto era coperto da una polvere grigia, sottile come cenere.
Era come se Dio avesse ammainato le sue palpebre sul mondo.

(Darko Balievic, La città e il corpo)

Beit Hanun. Alba del 24 luglio 2014. Alle 4.22 (ancora 8) di questa mattina un raid dei droni di Tsahal ha bombardato e distrutto due terzi della Scuola dell’Unrwa presso la quale si erano rifugiate decine di famiglie palestinesi in fuga dal centro della Striscia di Gaza. Nella Notte del Destino del Ramadan sono rimasti sotto le macerie in alcune centinaia. La mezza luna rossa ha estratto fino ad ora 17 (sempre 8) corpi martoriati. Sette dei quali appartenevano a bambini sotto i dodici anni. Ma il picco nutrizionale di Nirthyana per gli Abitatori di Fuori si avrà tra poche ore, nel campo profughi di Jabalya. In una palazzina a tre piani, prima i razzi e poi gli obici di Tsahal stermineranno cinque famiglie ammassate nei sottoscala. Il sangue allagherà i cortili polverosi di Jabalya, raccogliendosi in pozzanghere colore del petrolio.

Da questa parte della Striscia, sono stati rifusi nella vibrazione in 788. Quasi tutti bambini, donne e anziani che poco avevano a che fare con il conflitto. Agli squittii di protesta di Ban Ki-moon, Benjamin Netanyahu risponde come Hans Frank nel corso delle operazioni di distruzione del ghetto di Varsavia: “I banditi si fanno scudo dei civili, loro è la responsabilità delle stragi”. La comunità internazionale generosamente accoglie e rilancia, chiedendo praticamente ad Hamas di arrendersi in cambio di un cessate il fuoco.

Ismail, Zakaria, Ahed e Mohamed. I quattro ragazzini ammazzati sulla spiaggia di Gaza City mi seguono sorridenti ormai da una settimana. La loro rifusione è ancora lontana ma il loro sorriso mi scalda il cuore e mi aiuta a ricordare senza rimpianto.

Come a Bangui, il 18 agosto 2013.

Nello slum degli sfollati dell’aeroporto, l’aria è irrespirabile già di primo mattino, tra le tende variopinte agganciate alle ali dei Tupolev ai margini della pista e il terreno ridotto a un solo grande rigagnolo. La calura asfissiante non allenta l’eco del canto del muezzin che chiama alla preghiera. Altre centinaia di civili hanno raggiunto nella notte il campo già pieno al collasso e si sono smaterializzati come per incanto nel brulichio incessante di voci e di volti d’avorio. Nella città e nei villaggi circostanti proseguono senza sosta gli attacchi e le rappresaglie tra i ribelli Seleka e i miliziani Anti-Balaka. Una guerra di tutti contro tutti che per il proprio potenziale alimentare ha attirato in Centrafrica schiere di Hathors e di Velati. Ieri sera un neonato di sei mesi colpito al petto da un colpo di arma da fuoco è arrivato nell’ospedale di Medici Senza Frontiere, a due passi da qui. Gli occhi riversi al cielo tra le braccia della madre. Si è trasfuso nella vibrazione dopo pochi minuti, rivelando alla fine sul piccolo volto un sorriso estatico che non si è spento dopo la rifusione.

O come a Baghdad, il 7 novembre 2004.

Here it ends what has begun in Sarajevo on the 28th of June 1914. La scritta livida sul muro dietro il pronto soccorso dell’Ospedale Yarmook lampeggia al sole. Sembra sangue. Ma tutto a Baghdad sembra scritto con il sangue, anche le insegne di cartone dei venditori ambulanti di spezie al mercato di Al Jadida. Tutto è scritto con il sangue e coperto di cenere. La cenere delle bombe. Le case della gente a Sumer e Wazirya, le macerie dei palazzi ministeriali di Aalam, i taxi vuoti parcheggiati in Khulafa Square, l’acqua sabbiosa del Dijla, i ponti sopravvissuti del fiume di Simbad. Tutti i colori di questo mondo sono coperti di cenere. Al-Mansur riemerge dalla bocca di un vulcano spento, città perduta dentro un’aria di cenere e nafta. La vita brulica fuori dalla cenere, rabbiosa, solo a scatti. Solo a certe ore, quando Allah chiama all’egira del martirio. Volti di pietra fasciati e nudi, barbe unte e atre, occhi bianchi e ciglia arse, braccia e gambe e stracci di carne dolente eruttati da un’alba di piombo dentro le strade e i mercati e le piazze. Un mare ammortito di sangue secco che solo il lampo e il boato colorano improvvisamente di sangue fresco.

Qui finisce quello che ha avuto inizio a Sarajevo il 28 giugno 1914. Chi ha scritto sul muro quelle parole sa. Deve sapere. Cosa insolita che un umano sappia, conosca i disegni: Una fuga di notizie dal Ministero dell’Inferno, direbbe Semeyaza in un momento di grazia vocale. A meno che non siano state le Alurie. A meno che  gli Ementali già sappiano.

Ma nessuno, nemmeno Semeyaza, può sapere che Babilonia sono io. Questa città di dei sommersi e di cenere è solo il battito di ciglia degli occhi di un vecchio jinn, prima che arrivi il nuovo Dio.

Come tanti altri luoghi di questa terra, Baghdad è una riserva di caccia privilegiata per Nephilim e Sadaim affamati di endorfine, encefaline, proteine delta2. I preziosi fluidi cerebrali che solo gli umani sanno produrre quando hanno paura. E se anche gli Esseni di Qumran hanno deciso che i bisogni alimentari degli Abitatori di fuori non giustificano tutto il dolore di questo mondo, poco importa all’Intento. Ci sono sempre gli uomini a fare di testa loro, per la fortuna di tutti gli angeli endorfinomani. Esseni, Ossioi, Abdal, santi risvegliati, raeliani e mormoni, salgono su dal nulla con i loro profeti e angeli di luce, dopo avere imbastito qualche crociata e qualche jihâd, puntano il dito verso il cielo e dicono di vedere la luce. E dicono che El-Dajjal, l’Anticristo è su questa terra. Ma che breve sarà il suo tempo. Lo dicono da quattromila anni, ma il Dragone non vuole saperne di traslocare. Da quattromila anni predicano, inascoltati, nel nome del Dio degli dei, il Dio di tutte le religioni, il Dio unico che ha deposto o sottomesso tutti gli altri. Tanto è vero, dicono, che siamo tutti figli di Abramo e che i musulmani adorano Cristo, Seidna Haissa, con Maometto e che gli Ebrei aspettano l’avvento del Messia, lo stesso Cristo dei cristiani.

Questo Dio monocratico e pietoso è il nuovo Dio che ha oscurato tutti gli altri dei con la sua misericordia e la sua humanitas. Il Dio moderno delle tre tradizioni che concede la salvezza a tutti, anche ai diseredati, soprattutto a loro, ai poveri di spirito. Il Dio dai cento nomi, che in cambio della grazia non pretende sacrifici umani e guerre di religione, anche se gli uomini continuano a goderne quotidianamente. Allah, Jahvet, God. L’Eloha che del libero arbitrio e della pietas ha fatto la sua rivelazione ma che continua a nutrirsi come i suoi divini predecessori. In suo nome gli Abitatori di dentro continuano ad erigere templi e santuari, madrasa e yeshiva, monasteri e luoghi di culto, nei quali si riuniscono grandi folle di uomini e di cervelli nutrienti. Uomini che pregano e si dolgono dei propri peccati, milioni di uomini che hanno paura del loro Dio e delle sue punizioni terrene e ultraterrene. Milioni di cervelli alterati dalla paura che producono onde elettromagnetiche di altissima frequenza che fanno volare i carri celesti e sanguinare le sacre icone. Tonnellate di sinapsi proteiche che nutrono lo spirito divino e gli Abitatori di fuori. Piazza San Pietro, la Mecca, Prashanti Nilayam, milioni di menti e di cuori sanguinanti, miliardi di atmamatra adoranti, dominati da un’unica incessante vibrazione di preghiera e sottomissione. Da un solo immane sentimento di mortificazione e paura.

L’eterno banchetto di paura del Dio delle Genti del Libro, il nuovo Eloha di Ahl al-Kitab, gareggia in lussuria e ricchezza con i tradizionali banchetti stragisti degli dei deposti. Ma nessuna cerimonia monoteista eguaglierà mai il nutrimento che può dare ai Nephilim la sinapsi di sangue e dolore della guerra infinita. Quando le genie degli uomini si incontrano per sbranarsi e infliggersi reciprocamente raffinate sofferenze, quando i martiri fanno esplodere la loro follia in mezzo ad una folla di innocenti, santa madre guerra allatta il cosmo al suo seno. I cervelli dei combattenti secernono il nirthyana, il latte divino della paura, essenziale per la sopravvivenza degli Abitatori di fuori.

È l’11 luglio 1995, secondo il calendario gregoriano. Sono a Srebrenica con un pugno di Caschi Blu olandesi messi a difesa dell’enclave protetta da quella vecchia volpe del generale Morillot. I serbo bosniaci di Mladic bombardano la città da quaranta giorni. L’aviazione delle Nazioni Unite è un miraggio. Alla fine gli olandesi brindano con Mladic e il suo stato maggiore e cedono in blocco tutto il loro armamento ai serbi per salvare la pelle. In una mattina di sole fuligginoso i macellai dell’esercito serbo bosniaco entrano in città a bordo dei blindati bianchi dell’ONU. La gente stremata dall’assedio li festeggia nelle strade. Ma i salvatori che scendono dai blindati non sono arrivati per liberarli dall’inferno. Sono loro l’inferno. Nelle due settimane seguenti, l’orgia di sangue e stupri mi procura una overdose di encefalina. Per quattro giorni e quattro notti la mia coscienza fluttua in un limbo liquido, le pupille sono due spilli verdi, la faccia è un’icona bluastra e polmoni e branchie sono in debito di ossigeno. Sotto il mio letto, nella baracca del comando della forza di pace, i cristalli di Urim e Thummim sono incandescenti e scromano un’aura verde scuro.

19 dicembre 2001, arrivo a Buenos Aires da solo, ancora una volta senza Semeyaza, partito per il Kurdistan iracheno. Nella Casa Rosada si respira aria di fuga. De La Rua passa le sue ultime ore tra riunioni di gabinetto sempre più improbabili e brevi sedute scoptofile dietro le tende blu del balcone che affaccia su Plaza de Mayo. La vista della polizia a cavallo che carica il muro di madri e studenti gli procura un singhiozzo urticante. La notte del 20 la piazza è occupata da un oceano di cacerolazos in festa. Il colossale veglione all’aperto ha fine quando gli infiltrati federali cominciano finalmente a sparare ad altezza d’uomo.  De La Rua si chiude nel suo studio. Il mio stomaco ingoia scariche di endorfina. Perdo la vista e l’udito per due giorni. Devo tornare in Darfur in compagnia di un bastone da passeggio.

Solo tre mesi prima, con i pompieri di New York al World Trade Center, avevo vissuto una delle esperienze di nutrimento più paniche di tutto il mio eone. La vista di migliaia di corpi umani fusi nell’acciaio delle torri mi aveva provocato un’anoressia nervosa al limite dell’azzeramento vibrazionale, durata sei mesi e che mi tormenta ancora adesso a tratti.

Dopo l’era del terrorismo globale, quella dell’esodo planetario. 20 maggio 2015. Oggi ancora altri sbarchi e altri incidenti in tutto il Mare del Giappone e il Mare Arabico, altre centinaia di morti negli scontri con le polizie e le milizie locali. Trecento morti, dicono, solo a Sharm El Sheik. Anche vecchi e bambini calpestati nella ressa o finiti a bastonate, quando una folla di profughi armati di canne di bambù ha tentato di assaltare due navi da crociera ormeggiate nel porto. L’ONU continua ad adottare raffiche di risoluzioni – senza risolversi a muovere le sue chiappe internazionali – per intimare ai governi della Cina e del Giappone, dell’India e della penisola arabica di accogliere i profughi. Per ordinare l’impossibile accoglienza del più grande esodo nella storia dell’umanità. E i governi che cominciano a mandare prima le milizie spontanee di sudditi armati e poi gli eserciti a fermare sulle coste la carica degli orfani dell’oceano indiano, dei fratelli indonesiani e filippini e cingalesi e malesi. A ributtarli in mare tra i pesci. Pesci senza branchie loro stessi di un oceano che non li vuole. Muoiono come le mosche della quarta piaga dell’Esodo, continuano ad arrivare come le cavallette dell’ottava piaga. I primi gruppi sono già passati attraverso l’Iran e la Turchia, presto filtreranno anche nell’orizzonte unionista-europeo di famiglie allargate e diritti umani, di notti insonni e Roipnol, di trekking e fitness, di infotainment e democrazia da esportazione. Guarderanno gli stessi giornali europei pieni di fotografie a colori della mostruosa onda anomala di vecchi, donne e bambini alieni infangati sparati dal nulla televisivo nelle case e sui divani della gente già addormentata all’ora di cena.

Ma forse non troveranno più nessuno ad aspettarli, almeno in questo mondo.

È facile centrare ogni volta la geografia alimentare del dolore e della paura. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Ormai sulla terra il Nirthyana si confonde e si mescola con l’oceano di sangue quotidiano. Il problema è prevenire gli effetti collaterali dell’iperalimentazione astrale. Tenere le distanze dal dolore per potersene nutrire. Se l’occhio di Nalanda resta aperto troppo a lungo, ogni contatto è un orgasmo di sale che disperde carbonio. E non bastano cento visite alla piramide di Eridu per riacquistare tutto il soma perduto. Io soffro quando gli uomini soffrono. Questa è la mia condanna. Soffro con loro le pene dell’inferno e di questo inferno mi nutro. Fino all’annullamento.

Ma la rabbia di Semeyaza mi ricorda adesso ciò che non voglio ricordare. È giunto il tempo di un altro Dio. Anche alla fine di questo Manvantara il muro di Gog e Magog è crollato sotto la spinta delle armate delle tenebre. Gli angeli di Oliblish incideranno ancora una volta la pelle del mondo per ingoiarne tutto il nero. L’avvento del nuovo Mahdi cambierà tutto per non cambiare niente. E io tornerò ancora una volta su Kolob per fuggire gli angeli delle corde. E l’acedia  mi spegnerà il cuore.

È forse la luce d’oro di Shinehah più brillante della luce del sole? O il pallido viso di Olea più desolato del volto della luna? Mille lune, mille soli, uguali e lontani. Mille ascensioni, mille abissi, uguali e vicini. Che senso ha tutto questo, mio Eloha? Che senso hanno altri mille eoni digeriti dal ventre dell’Intento? Non si è compiuto già troppe volte il tempo di un altro Dio? Non si è compiuta ancora un’altra apocalisse solo perché l’apocalisse duri in eterno?

Sono stanco di fluire per l’eternità.

Quadro terzo – contesto di manutenzione

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo storia, è questa tempesta.

(Tesi di filosofia della storia – Walter Benjamin)

Il sistema del cosmo è elastico. Fino alla soglia massima di tolleranza del carico di sofferenza. Il dolore dell’uomo usura dal basso le maglie della rete neuronale che tiene i pensieri sospesi nel limbo dell’elaborazione quantica. Quando il sovraccarico depressivo del sistema supera la soglia limite, la pelle del mondo si strappa. La rete di contenimento orbitale che manteneva separati gli universi, cede nei punti critici e i pensieri cadono nel fondo del ventre di Dio. Cadendo nel pozzo dell’origine, i pensieri si asciugano e induriscono. Privati del loro cuore eterico, gli archetipi si mutano in cose. Si fanno oggetti di luce e di sale, di ossidiana e di madreperla. Toccando le pareti dell’abisso primigenio, si incendiano e si vetrificano, fino ad assumere la consistenza atomica del carbonio. Simboli carbonizzati e pensieri vetrificati precipitano senza sosta da tutte le orbite dell’universo, in direzione del gorgo perfetto. Verso l’ultimo cerchio della conchiglia cosmica, segnato dalla lettera Samekh. Il segno che innesta la fine nel principio e la morte nella vita prende allora a germogliare con la nascita sul cuore di tutti gli uomini. A quel tempo tutti uccidono tutti. Il processo di biomineralizzazione della mente collettiva è compiuto e alla fine la carica entropica del cosmo esplode nella sua devastante bellezza. Innescata da un solo barbaro pensiero di libertà, l’apocalisse avvia il reset di tutto il sistema.

Questa è la sorte acquattata tra le coltri iridescenti del tramonto. Questo è il destino degli uomini, abitatori dell’Orbe di dentro. Settantadue anni fa, il 17 novembre del 1961, la Terra si trovò 624 giorni dietro la cometa Tempel. Per la prima volta dopo secoli, lo sciame meteorico delle Liridi raggiunse il climax astronomico. Sulla terra si abbatté una tempesta fotonica di proporzioni inaudite e i Velati furono risucchiati dal gorgo di luce nell’Orbe di dentro. L’ombra della coda di Hercòlubus si allungava sulla terra.

Quadro quarto – preghiera per la fine

I Velati non sono umani, io lo so. Li sentii cantare lontano oltre le rovine di Gerico. Una litania di cembali inondava la valle, mentre cieli d’alabastro precipitavano sulle teste dei combattenti e il sangue ingrassava la terra. Le undici grotte di Qumran vibravano come carne percossa dal vento e io udivo le voci chiamarmi sulle rive del Mare del Sale ancora una volta. Ero in pace con l’Intento, allora. Ma quello era un altro eone e il sacro disegno dello Yantra era ancora impresso sulla sabbia.

Non ho mai voluto credere che i Velati erano Tuoi messaggeri, fino a quando, ormai consumato dalla mia immortalità, non ne ho incontrato uno che aveva disertato il Tuo sguardo. Quella notte era caduta come un maglio sul deserto. Una bora sottile lucidava le pietre del grande mausoleo di Reqem. Il vento era rasoio sulla pelle e spirava le parole mai pronunciate del roveto in fiamme. Ero in viaggio nel buio, ventre a terra dietro le Tue orme, musando il Tuo odore. Poi d’un tratto una luce bianca sgorgò da un grumo di ghiaccio nella gola del Siq. Mi avvicinai tremando e lo vidi. Sulla pietra nuda, come una medusa di vetro, trasparente di sangue bianco, tremava appena, risuonando del Tuo fiato. Mi fermai ad ascoltare quel canto sordo nella lingua liquida dei Nephilim. Il Velato non cantava la Tua gloria. Cantava la morte pietosa e bella che Tu non vuoi dare. Abbracciato alla roccia, per non farmi portare via dal canto di chi non muore, piansi tutte le lacrime di Ish Kariot, fino a sentirmi il più misero dei Tuoi schiavi.

Perché, mio Eloha? Perché hai voluto che risalissi il fiume degli uomini fino alla sorgente del dolore? Perché hai voluto che mi nutrissi così a lungo del Nirthyana degli uomini? Per gli Abitatori di Fuori il latte divino della paura è così dolce ma quanto amaro è il sangue versato dagli umani nel Tuo scannatoio. Ne sono così ebbro che ora vedo le cose che gli uomini vedono e bramo la stessa carne che loro bramano. Ormai i miei occhi non vedono più il Tuo disegno ma solo il nero di questa fossa tra cielo e terra.

Ti prego, mio Eloha, richiama i Velati e sazia la fame di tenebre dell’Intento. Ti prego, da sempre e per sempre, concedi agli uomini il dono della morte senza ritorno in vita. Per una volta sola, ascolta le preghiere del Tuo servo Azrāʾīl. Sigilla le sette porte di Atharva e nessun uomo rinascerà più dannato.

Il genere umano si estinguerà contro la volontà dell’Intento ma il cosmo rifluirà finalmente in se stesso per il secondo ciclo di Yantra. Si spegneranno le grida dei figli dell’uomo, nascituri a morte senza fine, e non mi imprigioneranno più nella terra di Vanth. E alla fine del tempo sarò libero di lasciare il Limbo dei Velati e la sua velenosa caligine eterna.

Ti prego mio Eloha, per una sola volta sacrifica i disegni dell’Intento. Tu che sei il solo Dio delle genti, salva i tuoi servi dall’incarnazione. Salvaci dalla morte infinita.

A margine dei quadri – la morte è morta, viva la morte

È possibile combattere l’entropia senza la presenza della morte? E quale arma possiede l’uomo della società dell’immagine per riconquistare l’immagine perduta?

L’uomo integrato nello spettacolo infinito del mondo dell’informazione infinita ha dimenticato Auschwitz e Hiroshima e presto dimenticherà Srebrenica e Beslan, perché la pratica di morte è la prassi di vita del consumatore globale di merci e di notizie. Il deserto gli cresce dentro con il suo bisogno di una morte consumabile.

Il tempo artificiale e rettilineo del deserto metropolitano ha cancellato il tempo circolare e rituale della rinascita. La morte non è più un compimento naturale, non più un attraversamento, bensì un incidente. Una fatale necessità del mercato, una temporanea interruzione della fuga verso il nulla della civiltà dei consumi. Svuotata di senso, la morte è un accidente inspiegabile. L’uomo avverte sulla propria pelle la solitudine globale di chi ha ucciso la morte. Sente che l’isolamento dell’uomo è irreversibile e definitivo, come il suo tempo. Una volta nati non si torna indietro, una volta morti non si rinasce, perché il karma dell’uomo contemporaneo è rinnegare la centralità vitruviana di se stesso.

L’uomo allevato, e dunque perfettamente integrato, dai signori dello spettacolo perpetuo non ha immaginazione. Si illude di vivere nella società dell’immagine, ma l’immagine lo ha abbandonato da molto tempo. Almeno da cinquecento anni, dall’ultima, decisiva guerra delle icone.

Il calvinista weberiano, alla ricerca ansiosa di una prova logico–economica della propria predestinazione alla salvezza, mentre fondava il capitalismo già lo poneva come argine invalicabile allo strapotere irrazionale dell’immaginazione. Nell’era del capitalismo avanzato, i mezzi di comunicazione di massa perfezionano il processo di cancellazione dell’immagine, instaurando il dominio planetario dei percetti. L’immagine percettiva della realtà, cristallizzata nel percetto televisivo, assurge a realtà oggettiva, ontologicamente fondata. Ma l’universo mediatico è un solo immenso contenitore di percetti, tanto più nebulosi e mimetici quanto più complessi sono gli oggetti percepiti. Un mondo di oggetti mutilati che acceca il soggetto.

La coltre della storia ha infine coperto le fessure nella percezione che lasciavano filtrare bagliori di infinito nel mondo dei sensi. Così nel deserto interiore dell’uomo postindustriale non vivono immagini, visioni olistiche, ma solo vedute frammentarie. Non lampeggiano rivelazioni ultraterrene ma solo ansie secolari di morte.

Per questo, nonostante l’amore idolatra che la società dell’immagine prova per la propria superficie lucidata a specchio, il suo regime di comunicazione di massa non produce immagini ma solo una estenuante proliferazione di percetti fallaci e bidimensionali, di surrogati eidetici, di patinati fantasmi della realtà.

Pure, l’uomo ha ancora bisogno di immaginare, perché l’immagine sposa l’umano al divino. L’immagine è la pelle dell’Essere attraverso la quale trasudano preziose gocce di eternità nel mondo sensibile, perché sospende il corso del tempo e distilla echi di immortalità.  I telegrafi e i motori a scoppio passano, non i centauri. Immaginare è vivere per sempre.

Allora la santa alleanza del mercato e del controllo sociale dirotta il senso dell’immaginazione sull’oggetto da consumare. L’immagine del desiderio sul bisogno immaginario. Così facendo, deturpa il credito di una esistenza unica e irripetibile nell’infinita ripetizione del debito pubblico uguale per tutti i sudditi. Eppure l’oggetto merce non può soddisfare la fame di eternità che si nasconde dietro il bisogno d’immagine. Può solo esacerbare questa fame, orientandola all’infinito verso altri oggetti. Così l’investimento immaginario dell’Oltre-uomo di Nietzsche si muove per spostamenti continui dell’asse del desiderio. Vaga e si esaspera in un maligno circolo vizioso, nel quale la crescita dell’appetito e degli oggetti appetiti diventa esponenziale. Infinitamente fine a se stessa. Un appetito cannibale che divora se stesso e l’uomo che brama incessantemente di superare l’incolmabile distanza con il modello del perfetto consumatore della propria morte. La fame d’immagine straripa e cresce il bisogno di piccole morti del desiderio. Rapide e ripetibili all’infinito. E, soprattutto, consumabili in fretta.

Alla fine la scomparsa dell’immagine dall’orizzonte del consumatore  consumato rivela la spettrale apparizione del nulla. Il vuoto pneumatico. La caduta dell’uomo nel pozzo senza fondo della sua inedia.

Per questo, l’arte vera si interroga sulla possibilità di vivere l’immagine senza idolatrarne il fantasma mediatico. Nella sua assenza metafisica, ricerca la sorgente primigenia dell’immagine per bonificare le dune del deserto di ponente. La scopre, questa sorgente, nello schermo vuoto del desiderio. L’uomo dimentica di desiderare e l’immagine riparte da questa terribile rimozione.

L’arte, come la cultura, non è solo il luogo dell’identità e della dignità dell’uomo. L’arte è anche il nucleo fondante e lo sguardo significante, la visione che conferisce senso allo stare al mondo. Le culture dell’arte e della letteratura sono gli strumenti sociali per affrontare il trauma del cambiamento e l’incontro con l’altro. Sono i luoghi protetti per mettere in scena il conflitto al fine di prevenirlo. L’arte è l’antidoto al male di vivere.

Per questo l’arte mitopoietica, resuscitando la morte nell’immaginario universale contemporaneo, combatte l’entropia ed è probabilmente l’unica arma di manutenzione del caos disponibile al momento.