A trent’anni dalla scomparsa di Adriano Spatola tante conquiste di allora sono state ormai acquisite e ben digerite dai media. La scrittura verbo-visuale non fa più rumore. Tantomeno scandalizza

di Gianni Fontana

Grazie ad una fortunata sinergia operativa, si è finalmente avuta oggi (e si avrà, a breve) la possibilità di riconsiderare gran parte dell’opera di Adriano Spatola, riproposta in felice congiuntura, in Italia e all’estero, attraverso una serie di variegate iniziative. Tra queste:

  • Da zero ad infinito: Adriano Spatola verso la poesia totale, Esposizione di opere e documenti; Studio Varroni, Roma, 10 dicembre 2018 – 30 aprile 2019;
  • “Rivista-Foglio”, dicembre 2018, numero speciale dedicato ad Adriano Spatola, Ed. Eos-Libri d’Artista, Roma;
  • Karnhoval 1969-2019, mostra e catalogo a cura di R. Lorenzetti, U. Munzi, A. Tessore, Rieti, Archivio di Stato, 16 aprile 2019 – 30 agosto 2019;
  • Adriano Spatola, Hacia la poesia total (traduzione in Spagnolo di Verso la Poesia Totale) a cura di Giovanni Fontana, traduzione di Fausto Grossi, coordinamento editoriale Juanje Sanz, Ed. L.U.P.I., Sestao (Spagna), 2019;
  • Adriano Spatola, Ionisation and other poems, LP+booklet edited by Giovanni Fontana, restored and mastered by Sean McCann, Ed. Recital, Los Angeles, in corso di pubblicazione;
  • Adriano Spatola, Opera, libro e CD a cura di Giovanni Fontana, Ed. dia•foria, Viareggio, in corso di pubblicazione.

Quest’ultima edizione offrirà un quadro pressoché completo della poesia di Spatola. L’opera infatti includerà i suoi testi lineari, quelli concreti e visivi, ivi inclusi gli “zeroglifici”, e i suoi poemi fonetici e sonori.

Sono passati più di trent’anni dalla scomparsa del poeta, teorico e critico della neoavanguardia italiana, sul quale, nonostante siano stati pubblicati diversi studi di rilievo, c’è ancora molto da scoprire, specialmente per quanto riguarda la sua attività di sovvertitore di modelli linguistici ed espressivi, in particolare nel settore performativo, sonoro e visivo. Particolarmente importante appare quest’ultimo aspetto perché implica una serie di considerazioni (e riconsiderazioni) sulla sua poetica che potrebbero trovare utile applicazione nell’analisi degli altri ambiti creativi, incluso quello dei suoi testi lineari e della sua prosa.

Oggi, dopo tanti anni di sperimentazione sul rapporto parola/immagine, sono ormai ben note le qualità figurali di certi testi, siano essi tipografici, dattiloscritti, composti al computer, vergati a mano o dipinti: la loro forma dice al di là di ciò che dice, al di là di ciò che si dice. Aggiunge sempre qualcosa di sostanziale, di fondamentale. Offre un bonus a chi sa ben guardare. A seconda di come è scritta, infatti, una parola può trascendere il suo significato principale o incamerare attributi ampliando non poco la propria sfera semantica. Non solo è possibile registrare sorprendenti passaggi dalla denotazione all’area della connotazione, ma si possono aprire ampie prospettive di significato e di senso, talvolta del tutto singolari o addirittura impreviste.

Nel caso delle opere visive di Adriano Spatola dovremmo essere a zero sul piano dei significati, avendo scelto l’artista di giocare la sua partita esclusivamente a livello di significanti.

Sappiamo bene che ogni opera costituisce un sistema linguistico e che, nei casi più spinti di chiusura verso l’altro da sé, dice comunque se stessa. Lo zeroglifico spatoliano[1] sembra rispondere a questa regola, non ricercando, infatti, implicazioni nella realtà, ma essendo esso stesso realtà.

La sua fase di progetto coincide perfettamente con il processo di realizzazione dell’opera. Concluso tale percorso, che rappresenta un modo tutto particolare di rapportarsi al dato reale, fatto di ritagli, di gesti, di superfici di scorrimento, di congiunzioni, di sovrapposizioni, di sguardi misuratori, di esistenze e resistenze, si giunge sul filo del traguardo di una nuova realtà. La realtà dell’opera, che costituisce un elemento del tutto nuovo: un nuovo dato reale, un dato nuovo che va ad aggiungersi al mare magnum della realtà esterna.

L’approdo di Adriano Spatola alla poesia concreta è del 1964. Il suo poema-puzzle Poesia da montare[2] è del 1965. Si tratta di giochi a incastro di lettere e frammenti di lettere che implicano il diretto intervento del fruitore, che, nelle differenti fasi di montaggio, “legge” le forme. Per l’autore, questo momento costruttivo, questo coinvolgimento, è l’essenziale. Il ruolo del lettore, già tradizionalmente attivo, viene qui arricchito da un compito tecnico-pratico. Gli si richiede addirittura una gestualità che sappia individuare equilibri di volta in volta differenti e che possa creare incidenti di lettura in una prospettiva di forme dinamiche indipendenti dalla volontà dell’autore.

In quegli anni, il pubblico è coinvolto come parte attiva in numerosi settori artistici: nella musica, in teatro, nelle arti visive. Il coinvolgimento è sinestetico.

Nello stesso tempo l’opera si apre sempre di più all’imprevedibilità dell’intervento del fruitore, che viene teorizzato, stimolato, atteso. Del resto l’universo comunicativo non è fatto solo di parole, e la comunicazione è sempre intersensoriale. Essa coinvolge tutti gli organi di senso, e quasi mai uno per volta, mentre sempre più spesso, nella nuova realtà mediatica, si può parlare di comunicazione intrecciata. La confusione dei linguaggi tra i diversi canali sensoriali è più facile di quanto non sembri. Il cervello non contiene culs de sac. Per il biofisico Ruggero Pierantoni “s’incontrano solo anelli entro anelli […] non esistono vicoli ciechi, binari morti”[3]. La nuova opera d’arte tende, in effetti, ad implicare necessariamente una plurisensorialità. Lo stesso mosaico dei frammenti di lettere decontestualizzate che costituiscono gli zeroglifici spatoliani non si presenta come puro spettacolo per gli occhi: le particelle si organizzano nello spazio secondo un ritmo ed una logica addirittura musicali. Lo stesso Adriano Spatola parla di fraseggio (secondo il gergo della musica) e aggiunge che “i valori semantici di partenza sono sconvolti e rielaborati come molecole di un organismo iconografico astratto, in cui l’ordine rigorosamente casuale porta mediante l’iterazione all’apparizione-evocazione di segni ‘altri’”.[4] Quindi ogni zeroglifico è una sorta di spartito, di tessuto sonoro. Parlerei a questo punto di musica cristallizzata.

Ciò è confermato anche da quest’altra dichiarazione di Spatola: “I frammenti di significato che nonostante tutto emergono dalla superficie del testo visuale […] lasciano forse intravedere sul fondo relitti di metafore e di simboli, così come la parola esplosa non dimentica mai l’eco lontana ma ancora percepibile di un significato sonoro. Certo, gli zeroglifici sono anche partiture, ed è forse per questo che il rapporto tra parola e immagine (da qualsiasi punto di vista lo si guardi) sembra esistere unicamente in una zona percorsa da richiami per l’orecchio o, al limite, per la mente”.[5]

Ma pur se il termine zeroglifico sembra essere stato coniato per dire che non c’è nulla al di là di un vuoto apparire (un vuoto semantico per definizione), in realtà vi traspare tutto il peso di un gesto polemico, trasgressivo, tra impegno e ironia, sul fronte della lotta contro le convenzioni e contro il linguaggio consunto di certa letteratura. Di ciò si fa carico la riconoscibilità della matrice tipografica utilizzata ritmicamente e la trasparenza del processo creativo in deroga, costruito sulla connessione tra materia, gesto, spazio, colore, frutto del gioco intermediale.

Nell’ottica della sperimentazione verbo-visuale novecentesca la poesia si fa “oggetto” e in quanto tale rifiuta i canoni tradizionali della lettura. Ciò vale per tutti i poeti che lavorano in questo settore, siano essi i “concreti”, siano essi i “visivi”, siano essi i “calligrafici”.

Ormai più di quarant’anni fa, i poeti Anna e Martino Oberto compilarono un inventario secondo il quale la poesia sperimentale poteva essere “visiva, concreta, aleatoria, evidente, fonetica, grafica, elementare, elettronica, automatica, gestuale, cinetica, simbiotica, ideografica, multidimensionale, spaziale, artificiale, permutazionale, trovata, simultanea, casuale, statistica, programmata, cibernetica, semiotica”.[6] Da allora, numerosi si sono aggiunti gli aggettivi, tra cui recentemente “asemic”. Tutte sigle ed etichette, che però non si distaccano mai dagli ambiti di ricerca dei singoli artisti o di piccoli gruppi di sperimentazione. L’unica definizione che sembrerebbe avere un respiro tanto ampio da comprederle tutte è “totale”.

Adriano Spatola è tra i primi ad avvertire questa nuova dimensione creativa. E nel suo saggio Verso la poesia totale indica chiaramente la vastità e la complessità della ricerca, che ponendosi al di là di qualsiasi limitazione di tipo linguistico, strutturale, metodologico, tecnico, disciplinare o mediatico procede verso la totalità, organizzandosi come atto inglobante. Cosicché ogni aspetto coinvolto nel gesto creativo deve essere inteso come mezzo e non come fine.

Egli scrive che la poesia “cerca oggi di farsi medium totale, di sfuggire a ogni limitazione, di inglobare teatro, fotografia, musica, pittura, arte tipografica, tecniche cinematografiche e ogni altro aspetto della cultura, in un’aspirazione utopistica al ritorno alle origini”.[7] Così, da attento osservatore del panorama intermediale, il poeta registrava nel suo libro, un utilissimo studio sulle “posizioni” delle ricerche in atto, l’assoluta continuità, nella parola poetica, tra la dimensione visuale e quella sonora.

Adriano Spatola, che vive con partecipazione il suo tempo così carico di fermenti e di tensioni, pone immediatamente l’accento sulle nuove realtà: “Il teatro si fonde con la scultura, la poesia diventa azione, la musica si fa gesto e nello stesso tempo usa, nella notazione, procedimenti di tipo pittorico: termini come ‘happening’, ‘environment’, ‘mixed media’, ‘assembalge’ sono indicativi di questa situazione culturale”.[8] Egli mette inoltre bene in evidenza il fatto che i fenomeni di “confusione” delle arti non rappresentano pure sommatorie, ma costituiscono eventi dinamici, interattivi, altamente imprevedibili: non si tratta di sovrapposizione inerte, bensì di simultaneità produttiva. Le operazioni interattive provocano infinite modificazioni negli elementi, spesso inafferrabili, mentre si affacciano all’orizzonte nuove forme artistiche, pienamente autonome, anche se ampi settori dell’arte e della critica ancora arroccati su categorie aristoteliche oppongono una dura resistenza.

Questo saggio, lucido e documentato, si pose immediatamente come fondamentale punto di riferimento per ogni altra indagine su quelle poetiche, allora in rapidissima trasformazione: “La poesia totale si consuma a una velocità non più commensurabile”.[9]

Il concetto di continuità costituirà il leitmotiv del suo lavoro. Vi tornerà più volte su, approfondendo la questione sul piano teorico e/o analizzando criticamente l’opera di “poeti sperimentali” che lavoravano in questa direzione, pur provenendo, talvolta, da situazioni culturali molto distanti tra loro.

In occasione della mostra Parola fra spazio e suono,[10] a distanza di quindici anni dalla pubblicazione del suo saggio per i tipi dell’editore Rumma, scriverà: “Esiste ormai una teoria generale della scrittura visuale, così come esiste una teoria generale della poesia sonora. Dico ‘teoria generale’ alludendo a una ipotesi totale di arte della parola. Questa ipotesi non è una semplificazione, ma un’analisi globale del problema: dal graffito alla pubblicità televisiva, dall’urlo alla musica elettronica troviamo continuità mentale, pur nella diversità profonda dei comportamenti e delle tecniche”.[11]

Fin dai primi anni Sessanta, Spatola aveva perfettamente compreso che l’arte della parola sarebbe stata coinvolta in processi di sconfinamento linguistico e di contaminazione interartistica in misura sempre maggiore. Ne darà dimostrazione già nella sua prima rivista, BAB ILU,[12] nel 1962; ma la partecipazione al convegno di Palermo del “Gruppo 63” e la fitta rete di rapporti internazionali, che man mano andò costruendo, gli aprirono nuovi orizzonti e gli consegnarono fortunate opportunità sul piano creativo. Il superamento dei confini disciplinari comportava significative metamorfosi fin dentro i processi immaginativi.

Per Spatola “La nuova poesia […] prende l’avvio, nel suo processo di formazione, dai linguaggi tipici di altre arti, in particolare delle arti plastiche, per farsi «oggetto» che rifiuta la lettura”.[13] Riprendendo una tesi di Pierre Garnier, sottolinea che “la lingua non è più un codice per comunicare, ma una materia a cui bisogna dar vita”.[14]

In questo senso anche le sue prime composizioni lineari appartengono ad un progetto poetico “totalizzante”. Il passaggio avviene dopo la pubblicazione di Le pietre e gli dei,[15] un testo che sigilla l’esperienza poetica degli esordi, vissuta in isolamento senza ancora una chiara coscienza di quanto accadeva nel mondo della poesia, anche se in quella raccolta, oggi quasi dimenticata, dimostrava di aver già letto Emilio Villa, che egli considerava “forse il più grande poeta italiano vivente”.[16]

Il titolo BAB ILU allude già alla confusione dei linguaggi, alla contaminazione e alla dismisura. E aver ospitato in quelle pagine un testo come Omaggio ai sassi di Tot di Villa sta proprio a significare, salvo altro, l’interesse per le trasgressioni linguistiche e per l’irriverenza. Entrambi i poeti credono nel mito fertile della torre di Babele.

Per Spatola ben presto si delinea l’idea di una poesia come vero e proprio centro della realtà. Anche se per qualche anno vorrà prendere le distanze da eventuali mistiche identità tra letteratura e vita o tra poesia e realtà,[17] egli arriverà a sfiorare proprio quel progetto di poesia-vita, già appartenuto a diversi momenti dell’avanguardia storica, che investiva allora gli interessi del movimento “Fluxus”. Nel 1961 George Maciunas elaborava a New York un progetto artistico che annullava le differenze tra poesia, musica, pittura, scultura, teatro: l’opera diveniva evento totale capace di inglobare in sé tutte le discipline possibili e di avvolgere i tempi e le dinamiche del quotidiano, ponendo l’arte come flusso coincidente con quello della vita. L’anno dopo, a Wiesbaden, si teneva il primo “Fluxus Internationale Festspiele”. Influenzato profondamente da questi fermenti internazionali di taglio “intermediale”, Spatola in Verso la poesia totale dirà: “Del resto ciò che contraddistingue la nostra epoca non è più soltanto il sistema della divisione del lavoro, conseguenza dell’introduzione dei metodi di produzione industriali, ma anche l’aspirazione a un mondo nel quale ogni differenza culturale tra l’artista e il non artista, tra l’intellettuale e il suo pubblico possa definitivamente scomparire. La poesia totale sembra offrire oggi al lettore non un prodotto definitivo, da accettare o subire nella sua chiusa perfezione, ma gli strumenti stessi della creazione poetica, nella loro strutturale rimaneggiabilità”.[18]

La fluidità intermediale, in effetti, individua rapporti artista/pubblico del tutto inediti. Nel saggio che inquadra i materiali raccolti nell’antologia Geiger 5, Adriano e suo fratello Maurizio scrivono che il termine intermedia “è […] comprensivo di ogni esperimento di apertura non patetica né pseudoesistenziale verso la vita”.[19] Il concetto di intermedia, infatti, come sottolinea Gilberto Finzi, denota una “disponibilità tipica e totale a utilizzare tutto quanto può fare di un’antica concezione dell’arte immobile una moderna ‘possibilità’ di arte nuova o di modi ‘altri’ di fare arte. Si tratta di una prospettiva che tiene conto degli oggetti, del mondo che circonda l’uomo, e dell’uomo stesso, visti in relazioni eterodosse, in relazioni che non siano di pura esteticità categoriale ma, al contrario, di una funzionalità che l’emozione o viceversa l’assenza di emozione rendono oggettiva perché oggettuali, continue e freddamente critiche nei confronti di un ambiente qualsivoglia. E intermedia deriva forse (anche) da Lautréamont che auspicava un’arte fatta da tutti e non da uno solo”.[20] Adriano e Maurizio Spatola riportano poi, nella citata antologia, alcuni giudizi di artisti tra i quali ne spicca uno di Piero Manzoni: “Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere”.[21]

Dietro l’idea di “poesia totale”, che non offre al lettore un prodotto precostituito, ma gli strumenti stessi della creazione poetica, si affaccia il progetto utopico del superamento della scissione tra soggetto e oggetto e tra teoria e prassi. Non si tratta soltanto di dilatare i campi espressivi o di moltiplicare il potere di significazione, si tratta quasi di rifare il mondo, quel mondo che agli occhi di Guy Debord[22] appariva frammentato e illusoriamente ricomposto nello spettacolo globale. Se il mondo appare incongruo, forse c’è speranza di ricomposizione dell’uomo totale anche attraverso la prassi della poesia. La passività del lettore tradizionale è superata da un gesto totale che si lega all’ “interesse per il materiale fisico con il quale il testo viene costruito”.[23] Nella sua veste di manipolatore di segni Spatola dichiarerà più volte la sua “abilità artigianale di rimettere in questione le parole – e attraverso le parole – una filosofia del mondo”.[24]

Il ruolo del gesto e della manualità come elementi comprimari nei processi tecnici di composizione, l’ampliamento dei campi d’intervento e l’importanza della decontestualizzazione, la funzione delle componenti visuali e sonore e la presenza del corpo, le loro corrispondenze come produttrici di senso, la necessità di sintesi e immediatezza nel segno poetico, la relazione con le forme archetipiche costituiscono i temi fondamentali della sua poetica: tutti elementi che confluiscono nell’area della sua “poesia totale”, contribuendo a specificarne il senso.

Più volte Spatola accenna a un iperspazio come continuum multidimensionale, entro il quale accede solo chi è capace di abbandonare gli esigui ambienti dell’istituzionalità, del corrente, del precostituito, per costruire un mondo da contrapporre a quello dato. “Rifare il mondo – egli scrive – vuol dire creare in laboratorio il linguaggio del mondo in concorrenza col mondo, vuol dire entrare nella quarta dimensione, che è la dimensione del rifiuto della pura e semplice registrazione lessicale”.[25] E, infatti, tutto il lavoro intorno alle Edizioni Geiger e a “Tam Tam”,[26] rivista che prende corpo dopo la spaccatura di “Quindici”, è teso alla ricerca di un nuovo linguaggio poetico che sia il più possibile trasgressivo nei confronti delle consuetudini e dei gesti istituzionalizzati e, quindi, del tutto liberatorio: un linguaggio che metta continuamente in crisi se stesso attraverso contaminazioni e dilatazioni imprevedibili, ma anche attraverso l’utilizzazione di segni funzionali all’abbattimento delle barriere linguistiche. Emblematici saranno i testi visuali e le pièce sonore.

Nel 1976, il suo maestro Luciano Anceschi scrive che “la lingua della poesia si fa radicalmente problematica, e da sistema prestabilito di segni si apre alla possibilità di un acquisto di segni sempre imprevisti […] secondo relazioni possibili. L’area segnica sembra espandersi continuamente. La parola mette in crisi se stessa, non solo nel gioco delle famose strategie tra significante e significato, o nel mettere in discussione strutture anche elementari come il grafema o il fonema, ma, al limite, correndo il rischio di essere sostituita da altri tipi di segni. E certo si giunge a proporre un tipo di messaggio il cui sistema segnico non solo suggerisce l’idea, come è stato detto, di un movimento di poesia veramente internazionale, ma anche perché può proporre l’ipotesi di una lingua poetica internazionale che ha solo certi aspetti in comune con la musica”.[27]

Com’era prevedibile, le critiche a questo modo di procedere non vengono risparmiate né a Spatola, né ai poeti dell’area di “Tam Tam”, mentre le pratiche visuali, sonore e performative vanno infittendo sempre di più una rete di relazioni già ampia ed articolata. Il Mulino di Bazzano, in Val d’Enza, prima sede redazionale della rivista, si trasforma ben presto in un vero e proprio faro per poeti nomadi. Da lì Adriano Spatola e la sua compagna Giulia Niccolai segnalano, coordinano e organizzano, accanto alle iniziative editoriali, rassegne, mostre e festival. Gli echi del tam tam raggiungono ogni angolo del mondo con risultati sorprendenti non solo sul piano artistico, ma anche su quello socio-culturale ed umano.

Slides (a cura di Giovanni Fontana)

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In un certo senso il Mulino finisce per rappresentare quella “maison poétique” vagheggiata negli anni Sessanta, di cui restano tracce, anche grafiche, in un carteggio con Claudio Parmiggiani[28] e in alcuni documenti elaborati a Torino in un contesto interdisciplinare che si appoggiava ad un gruppo di artisti tra i quali figuravano l’architetto Leonardo Mosso, Laura Castagno e Arrigo Lora Totino. La “maison” era intesa come “obiettivazione di uno spazio mentale” e “come costruzione astratta di un’abitabilità ipotetica”. Si trattava nello stesso tempo di un oggetto intenzionale da destinare ad un uso “poietico”, ma anche di un atto creativo in sé, di un progetto utopisticamente connesso ad una libera funzione abitativa che coniugasse l’originalità dell’idea all’originarietà dell’azione specifica, non intesa come gesto morale di rifiuto, ma come ri-creazione amorale di un gioco positivo, nel quale si innestasse il tema della libertà, perfettamente in linea con una prospettiva ampiamente sperimentale. Al di là di qualsiasi ipotesi progettuale in senso architettonico, ciò conferma l’interesse per “un’apertura totale verso un mondo nuovo abitabile mentalmente”.

Nel dicembre del ’65 Spatola scrive all’amico artista Claudio Parmiggiani che “la maison ha tutta l’aria di essere un’utopia”,[29] ma che tuttavia ritiene possibile “identificare […] il progetto con la sua realizzabilità”: spogliare il progetto della sua “destinazione alla realizzabilità” favorendo invece “il rifiuto di una gestualità storica”. I miti in via di trasformazione “non fanno che ripetere un certo numero di strade già indicate – no all’azione mitopoietica”. In una lettera di qualche giorno dopo[30] scriverà: “Io rifiuto completamente l’azione mitopoietica, e la vedo, appunto, non come una museificazione ma come una ‘mummificazione’ dell’avanguardia”.

Sul piano della strategia Spatola rilancerà dalle pagine di “Quindici”: “il pensiero deve farsi clandestino: il pensiero che circola liberamente è un pensiero venduto, nel momento stesso in cui gli si concede libertà di circolazione gli si dà una patente, una carta d’identità, un passaporto, uno stipendio, e un valore in moneta, un prezzo: bisognerà riuscire ad abolire la proprietà privata del pensiero, e a metterne in crisi il mercato internazionale […], creando dei focolai rivoluzionari dovunque si mettono in vendita idee; il pensiero dovrebbe diventare un bene collettivo, ed esistere, un giorno, come creazione collettiva pura”.[31]

La sostituzione del “pensiero-merce” con il “pensiero-sogno”, l’opposizione alla reificazione, al mercato brutale, ma anche la volontà di arrestare “il processo di sclerosi del mondo” o di contrastare “il mito negativo della civiltà come progresso”,[32] sono tutti elementi che confluiscono in un progetto di “liberazione della poesia da se stessa”[33] attraverso la pura tensione poetica: “Il passaggio dalla poesia come poesia a una forma di poesia totale è l’unica maniera di usare positivamente e concretamente, nella direzione di un’utopia anarchicamente garantita, quell’esperienza del linguaggio che il poeta è finora abituato a fare come fine a se stessa”.[34] Ecco allora che il progetto di “maison poétique” perde la sua connotazione utopica in ragione del sostegno richiesto dall’esigenza assoluta di autonomia della poesia. La poesia ha bisogno di un luogo, di uno spazio reale entro il quale i poeti possano lavorare in piena libertà, ha bisogno di un laboratorio, di una tipografia; la poesia sceglie la sua nuova sede: il Mulino di Bazzano, dove la rivista “Tam Tam” prende corpo.

Nell’editoriale del primo numero Spatola scrive: “La poesia sta diventando di nuovo il problema della poesia. […] Se il mondo si vuole ripetere immutabile in tutti i suoi aspetti, dai metodi politici al linguaggio, sarebbe sbagliato dedurne che l’unica possibilità di rifiuto sia ora per la poesia il movimento continuo, l’inquietudine isterica o l’instabilità programmatica. Così come sarebbe assurdo affidarsi a una poesia impegnata più nel silenzio che nella parola, più nell’ammiccamento che nell’essenziale”.[35] Nell’editoriale del secondo numero, invece, sottolinea che le crisi ricorrenti della poesia d’avanguardia costituiscono “una necessità storica costante, attuata e attuabile in nome del ricambio linguistico. Tam Tam s’innesta in una di queste crisi con il preciso impegno di documentarne la portata e il senso, ma anche con l’obiettivo di suggerire nuove direzioni di discorso”.[36] Il rifiuto della dicotomia impegno-disimpegno e dell’adozione di formule ideologiche per combattere il clima di restaurazione culturale, l’idea di una poesia che si costruisca come metamorfosi oggettiva, la dichiarazione della sua autosufficienza e della risoluzione in organismo consapevole, la messa in discussione di codici prestabiliti in merito a tecniche espressive e valori formali,  la disponibilità ad accogliere gli impulsi provenienti dalle altre arti aprono un nuovo fronte strategico, per molti versi perfettamente in linea con le avanguardie storiche.

Nel nuovo ambiente vengono avviate numerose iniziative editoriali; i libri sono stampati in proprio e, sia pure con innumerevoli difficoltà, dal Mulino viene lanciato un chiaro segnale di indipendenza, mentre le fitte frequentazioni di poeti ed artisti ne rendono particolarmente viva e creativa l’atmosfera. Tra gli ospiti del Mulino, oltre ai fratelli Spatola, Maurizio e Tiziano, e Corrado Costa, proprietario di quelle mura, si incrociano Parmiggiani e Giuliano Della Casa, Vaccari e Xerra, Carlo Alberto Sitta, Giovanni Anceschi, Milli Graffi, oltre ai numerosi stranieri, da Julien Blaine a Paul Vangelisti, da Gerald Bisinger a Jean-François Bory.

In quel clima Adriano Spatola lavora a pieno ritmo su testi lineari, visuali e sonori; cura le sue relazioni, prepara mostre; inventa le sue performance che propone nei principali festival di poesia in Italia e all’estero. Sia pure nella distinzione dei diversi ambiti, le confluenze linguistiche sottolineano pur sempre l’ottica intermediale.

Del resto Adriano Spatola aveva scritto nel suo fondamentale saggio (che per alcuni versi assume il tono di una dichiarazione di poetica e per altri quello di vero e proprio modello strategico, anche se “le poetiche, non appena identificate […] sfuggono a se stesse”[37]): “Verso la poesia totale vuol essere in primo luogo una formula in grado di stabilire la necessità di vedere nel campo della poesia sperimentale non tanto una confusa e frammentaria area in dispersione, quanto la coesistenza di varie direttrici di marcia legate da una fitta rete di rapporti e di scambi”.[38] Rapporti e scambi che costituiscono un dato fondamentale del suo progetto poetico, come del resto era stato per tutte le avanguardie storiche, dal Futurismo al Dadaismo, dal Surrealismo al Lettrismo. In quest’ottica militante Spatola esprime tutta la sua carica utopistica: “Il compito della nuova poesia sembra […] essere quello di rendere sociologicamente attiva una realtà linguistica che rischia di rimanere «privata», senza contatti con il mondo. Il trionfo dei mezzi di comunicazione di massa coincide con un aumento dell’impotenza delle arti, ma può anche rappresentare il banco di prova della loro capacità di rinnovamento”.[39] La necessità di rapporto può, secondo Spatola, essere messa in crisi dai mass media, che però, nello stesso tempo, potrebbero rivelarsi utili alleati. L’intuizione era corretta. Oggi, infatti, ci troviamo di fronte ad una situazione fortemente ambigua, in cui a fronte dei poteri forti della convenzionalità si aprono nuove porte mediatiche di notevole potenzialità creativa. Di fronte alla violenza di questo mondo, subdolo per la sua capacità omologante e reso sempre più forte da un sistema mediatico mistificatorio che non ci aiuta affatto, la poesia, specialmente quando si pone come antagonista, occupa certamente una posizione difficile, ma non rinuncia a quel conflitto permanente, in mancanza del quale perderebbe completamente la sua vocazione e la sua funzione. Anche se non credo si possa più far riferimento a quella che una volta era chiamata poesia civile, non si può mai rinunciare a credere al valore politico della poesia, che si attua in una sorta di conflitto permanente contro l’istituzione e le correnti mainstream che la rappresentano; e non si può rinunciare al continuo ri-cercare contatti, richiamando a sé coloro che aspirano ai valori di libertà e giustizia, che si esplicano proprio nei procedimenti allegorici giocati sul rapporto etica/estetica. Non dobbiamo dimenticare infatti, come ci ha insegnato Benjamin, che la tendenza di una poesia può essere politicamente giusta solo se è giusta anche letterariamente.

A trent’anni dalla scomparsa di Adriano Spatola tante conquiste di allora sono state ormai acquisite e ben digerite dai media. La scrittura verbo-visuale non fa più rumore. Tantomeno scandalizza. Basti pensare alle acrobazie tecnicamente impeccabili della pubblicità televisiva. Ma la lezione di Spatola ci mette in guardia e ci indica che le strade percorribili ancora oggi sono quelle caratterizzate dal forte atteggiamento critico, quelle che considerino a pieno la materialità del linguaggio, che sfuggano alle limitazioni del mercato, che sappiano ben distinguere tra multimedialità e intermedialità, che garantiscano sempre un’alternativa al sistema linguistico istituzionale, nel senso che sappiano costruire il linguaggio, così come diceva Max Bense: scrivere “significa costruire il linguaggio, non spiegarlo”.[40]

Ora, a quasi cinquant’anni dalla prima edizione di questo libro e quarant’anni esatti dalla pubblicazione della seconda edizione italiana, la riproposizione in lingua spagnola, grazie all’interessamento di Juanje Sanz e della sua équipe, ridesta l’attenzione nell’area ispanofona (che annovera tanti significativi artisti verbo-visivi) su un tema in continua evoluzione, ma che solo Spatola ha saputo affrontare con le dovute densità e compiutezza, con sapienza tecnica e con verve polemica. Lo stesso autore scrive in premessa che “la poesia totale si consuma ad una velocità non più commensurabile”. Ciò è vero proprio perché costituisce una dimensione inglobante, fortemente dinamica, frattale, proprio come accade del resto nelle performance dello stesso Spatola, dove il corpo diventa il centro di un campo di forze magnetiche collegate al mondo; ogni battito, ogni pulsazione è un modo di permettere la comunicazione, di favorire collegamenti iper-estetici. Aspetti centrali, questi, dei poemi sonori raccolti nel vinile della Recital e nel CD allegato al volume in corso di pubblicazione per dia•foria. Il corpo del poeta è un tam tam che dissipa energie, che attua un processo di ionizzazione. Ma il corpo non emana semplicemente: è anche recettore degli stimoli provenienti dal pubblico che immediatamente inscrive in se stesso. L’avvenimento performativo è collegato al contesto più di quanto non appaia. Ogni situazione esterna, ogni avvenimento casuale, tutto l’ambiente, che pure è influenzato dalla performance, influisce su di essa, che a sua volta riflette modificando all’istante. È un gioco di specchi operato contemporaneamente dal pubblico e dal poeta che gli si rivolge direttamente, accettando il colloquio e la sfida e procedendo ininterrottamente e instancabilmente verso la poesia totale. Tutto ciò apparirà straordinariamente (e drammaticamente!) evidente nell’ultima performance di Spatola, inclusa sia nel 33 giri della Recital, sia nel CD di dia•foria.


[1] Si tratta di una tecnica combinatoria che Spatola mutua in maniera personalissima da Franz Mon e che, comunque, rientra per altri versi nel corredo tecnico del concretismo internazionale.
[2] Bologna, Sampietro, 1965.
[3] Ruggero Pierantoni, Postfazione al volume di Tonino Tornitore, Scambi di sensi, Torino, Centro Scientifico Torinese,
1988.
[4] In Parola immagine scrittura, a cura di Matteo D’Ambrosio, cat. Seconda Esposizione Nazionale, Urbino, 1978.
[5] Adriano Spatola, Dichiarazione, in Segnopoesia, Centro Culturale d’Arte Bellora, Milano, 1987.
[6] In Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Salerno, Rumma, 1969; poi Torino, Paravia, 1978. Del saggio esistono edizioni in lingua francese e inglese: Vers la poésie totale [presentazione, traduzione e note di Philippe Castellin], Marseille, Editions Via Valeriano, 1993; Toward total poetry [traduzione di Brendan W.Hennessey e Guy Bennet, postfazione di Guy Bennet], Los Angeles, Otis Books / Sismicity Editions, 2008.
[7] Verso la poesia totale, cit.
[8] Ivi.
[9] Ivi.
[10] Parola tra spazio e suono. Situazione italiana 1984,  a cura di Luciano Caruso, Ubaldo Giacomucci, Arrigo Lora-Totino, Lamberto Pignotti, Adriano Spatola; catalogo dell’esposizione tenuta a Palazzo Paolina, Viareggio, 24 novembre – 16 dicembre 1984; Comune di Viareggio, stampa Eurograf, Lucca, 1984.
[11] Ivi.
[12] Di “Bab Ilu”, pubblicata a Bologna, uscirono due numeri nel 1962.
[13] Verso la poesia totale, cit.
[14] Ivi.
[15] Bologna, Tamari Editore, 1961.
[16] Luigi Fontanella, Conversazione con Adriano Spatola, in AA.VV., Adriano Spatola poeta totale. Materiali critici e documenti, a cura di Pier Luigi Ferro, Genova, Edizioni Costa & Nolan, 1992.
[17] Editoriale in “Tam Tam”, n° 2, 1972.
[18] Verso la poesia totale, cit.
[19] Adriano e Maurizio Spatola, Intermedia?, in “Geiger”, n° 5, antologia a cura di Adriano e Maurizio  Spatola, Torino, Ed. Geiger, s.d., ma 1972.
[20] Gilberto Finzi, Poesia in Italia, Milano, Mursia, 1979.
[21] In “Geiger”, n° 5, cit.
[22] Guy Debord, La société du spectacle, Paris, Buchet-Chastel, 1967.
[23] Verso la poesia totale, cit.
[24] Parola tra spazio e suono, cit.
[25]Iperspazio linguistico, in Impaginazioni, San Polo d’Enza, Tam Tam, 1984; già apparso come nota critica al volume di Pietro Aretino, I ragionamenti, Bologna, Sampietro Editore, 1965.
[26] La rivista veniva fondata da Spatola e da Giulia Niccolai nei primi mesi del 1971, ma il primo numero fu pubblicato l’anno successivo.
[27] Luciano Anceschi, Variazione su alcuni equilibri della poesia che san di essere precari, in “Il Verri”, VI serie, n° 1, 1976.
[28] Il carteggio è inedito. Archivio Claudio Parmiggiani.
[29] Lettera del 27/12/1965 [Archivio Claudio Parmiggiani].
[30] Lettera del 07/01/1966 [Archivio Claudio Parmiggiani].
[31] Va’ pensiero (coro), in “Quindici”, n° 13 (nuova serie), novembre 1968; oggi in Quindici. Una rivista e il Sessantotto, a cura di Nanni Balestrini; con un saggio di Andrea Cortellessa; Feltinelli, Milano, 2008.
[32] Quindici, n° 13, cit.
[33] Poesia apoesia e poesia totale, in “Quindici”, n° 16, marzo 1969; ripubblicato in Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Feltrinelli, Milano, 1976; oggi in Quindici. Una rivista e il Sessantotto, cit.; raccolto da Spatola in Impaginazioni, cit.
[34] Poesia apoesia e poesia totale, cit.
[35] “Tam Tam”, n° 1, 1972.
[36] “Tam Tam”, n° 2, 1972.
[37] Verso la poesia totale, cit.
[38] Ivi.
[39] Ivi.
[40] Ivi.