L’odio e la ferocia non circolano solo nel web o nei canali televisivi ma dilagano nel mondo dell’arte in maniera oscena

di Francesco Correggia

Tutte le epoche storiche sono state caratterizzate da uno slancio in avanti verso il progresso per poi cadere in una specie di declino, in un abisso temporale, in una regressione. In genere queste cadute sono accompagnate da urti e scontri violenti, come guerre, rivoluzioni. Alla fine di tali conflitti e dopo aver pagato un prezzo alto di morti, di vittime, di perseguitati senza ragione, sembra tornare la normalità.

L’essere umano si rimbocca le maniche e torna a progettare e costruire il suo futuro con mitezza e alacrità.

L’epoca di oggi a differenza del secolo scorso sembra caratterizzata da un’apparente e prolungata pace.

I conflitti sono limitati e regionali e anche se altre minacce si manifestano in maniera cruenta, come il terrorismo o una guerra nucleare, sembra che niente possa metterci in pericolo. Siamo invece in una condizione di sospensione. Anche se nessuno di noi pensa che stiamo percorrendo una strada di non ritorno tuttavia sentiamo che qualcosa non funziona. C’è qualcosa d’imprevedibile che non riusciamo a comprendere.

Una moltitudine di persone transita da un paese all’altro cavalcando l’onda del turismo di massa. Un turismo fatto di cellulari, selfie che ondeggia rumoroso sulla terra, sui monumenti, sulla storia, devastando il paesaggio. Tutto nel nome della produzione felice, della pianificazione aziendale turistica, della globalizzazione, dei mercati. Ciò accade mentre aumenta la povertà e i perseguitati politici, i migranti cercano rifugio nei paesi dove la ricchezza si concentra sempre di più. La democrazia sembra la loro unica speranza. Migliaia di migranti trattati come animali muoiono in mare. Non riusciamo più a vederli, li dimentichiamo anche se la televisione e i media digitali ne danno notizia. Come risponde l’essere umano al disastro ambientale, alla sparizione degli ideali, alla povertà, al rigurgito nazista, all’intolleranza e alla violenza? Con disperazione felice sembra la risposta. Senza esserne del tutto cosciente l’essere umano risponde con disinvoltura, facendo finta di niente, continuando a fare quel che faceva, ma in maniera più istintiva, più aggressiva. L’istinto di conservazione sembra avere la meglio e si mostra in tutta la sua potenza con ferocia. Esso si mostra in tutta la sua evidenza senza che ce ne accorgiamo.

L’uomo reagisce all’insicurezza e all’instabilità, alla massificazione incontrollata, all’iperproduzione coatta, alle morti causate dall’egoismo senza darsi pena per l’altro che sta ai margini delle strade. Camminiamo, viaggiamo, compriamo, indifferenti al dolore che ci circonda. Non ci curiamo della sofferenza degli altri che pure stanno accanto a noi. L’odio e non la compassione domina il nostro pianeta. l mezzi di comunicazione, i social net work, il web, i portali non fanno che aumentare il tasso di odio che come un’onda anomala si riversa sulle parole, sulle azioni, sui comportamenti. Esso dilaga a dismisura e sfocia nella ferocia con cui l’essere umano sfoga la sua ira, il suo malessere. Per avere successo bisogna avere una buona dose di cinismo ma soprattutto occorre mostrare o esercitare il proprio dominio sopprimendo l’altro. Il denaro, le tecnologie, il capitalismo finanziario si ergono davanti a noi come un mostro. Il nuovo sovrano è il denaro e l’espansione finanziaria che rendono lo stato non più  un apparato che esercita il potere politico ma come un Leviatano.

Nel libro di Thomas Hobbes il Leviatano, il potere assoluto appare come un gigante costituito da singoli individui che esercita un totale controllo sui sudditi. Il gigante che appare nel frontespizio del libro di Hobbes regge in una mano una spada, simbolo del potere temporale, e nell’altra il pastorale simbolo del potere religioso. Trasposto all’oggi, i due poteri potrebbero rappresentare quello economico-finanziario e quello della fede nella società capitalistica dei consumi. Entrambi uniti in un’unica mostruosa creatura. Questo potere sovrano si espande senza alcuna misura e viene esercitato con ferocia. Per mantenere la sua forza esso ha bisogno di sudditi  e non di essere pensanti. I cittadini si trasformano in clienti/debitori che bisogna blandire e indirizzare, una moltitudine che ancora non è giunta a chiamarsi popolo. Occorre dire che la ferocia non è solo esercitata dall’alto verso il basso ma anche dal basso verso l’alto. Oggi sembra essere tornati ai tempi di Hobbes, la differenza consiste nel fatto che non è con il popolo che abbiamo a che fare ma con la moltitudine. Essa prende la sua rivincita, caratterizzando tutti gli aspetti della vita associata: costumi e mentalità del lavoro postfordista, giochi linguistici, passioni e affetti, modi di intendere l’azione collettiva. E’ una sfida nuova che ci costringe a ripensare le nostre categorie. Sebbene il termine “molti” indica un insieme di singolarità contingenti che fa emergere aspetti positivi, è la potenza con cui la moltitudine si accompagna che fa scattare la ferocia. Ci si comporta con ferocia per accaparrarsi quel che rimane, comprare di più, alimentare il desiderio, nutrirsi con ingordigia, celebrare i fasti del commercio, del turismo i riti degli sconti che a un dato segnale scattano come per incanto. Tutti corrono a comprare, perfino le illusioni fanno parte della nostra spesa quotidiana. Le strade sono invase da una  moltitudine straripante in preda a un fremito di gioia godereccia nel portare a casa un prodotto scontato mentre la menzogna domina la rete e il mondo.

L’etologia, la scienza che studia il comportamento animale, ci dice che l’insieme degli elementi di base del comportamento animale e umano è costituito da fattori innati: sequenze motorie, pulsioni e segnali scatenanti dalla cui integrazione, a livelli sempre più alti, sorgono le funzioni superiori come l’apprendimento. L’aggressività appare essenzialmente spontanea, una pulsione primaria profondamente radicata e pertanto non coercibile. La rimozione degli oggetti su cui essa si dirige non porta quindi alla sua eliminazione, anzi, poiché ogni movimento istintivo, se privato della possibilità di sfogo, ha la proprietà di rendere tutto l’organismo animale inquieto e di fargli ricercare attivamente gli stimoli che innescano quel movimento, l’aggressività e con essa la ferocia sono per principio non estirpabili per mezzo di interventi sull’ambiente. Inoltre, la ferocia sembra aumentare nel mondo animale e anche nel nostro quando non si è più sicuri, quando non ci sono più spazi, quando aumenta il pericolo, quando si è prossimi all’estinzione. Inoltre un abbassamento del valore di soglia degli stimoli innescanti, in un ambiente in cui siano rimosse le sorgenti di frustrazione, può dirottare l’impulso aggressivo su oggetti che in condizioni normali non lo avrebbero scatenato. La ferocia dunque si mostra anche quando le cause scatenanti sono nascoste o rimosse. Essa appare una categoria concettuale del mondo contemporaneo, un comportamento ineluttabile che si accompagna all’instabilità individuale prodotta dai mezzi d’informazione. Mentre la potenza  come principium individuationis, categoria dell’umano agire ci mette in condizione di lottare, di reagire alle avversità, di superare gli ostacoli, la ferocia invece scatta con gratuità, non solo come reazione alla vulnerabilità e al pericolo che l’uomo oggi deve sopportare, quasi un modo per esprimersi ma come negazione dell’altro, eliminazione morale e fisica di chi ci dà fastidio, di chi ci fa pensare, ci impedisce di comprare e di esistere come cliente felice.

Slides (a cura di Francesco Correggia)

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Mentre la forza può essere una dimensione estetica di rivolta che si fonda sul ribaltamento di paradigmi precedenti, la ferocia è l’eliminazione di chi è scomodo, di chi non serve, di chi è inferiore. Essa è reazionaria; non ribalta le antiche consuetudini come poteva essere un tempo ma riconsolida meccanismi, codici già esistenti sia sul piano della logica culturale sia su quella del mercato. Siamo tutti sottoposti al regime feudale della comunicazione globale ed è qui che s’insinua la ferocia, con la quale pretendiamo di diventare visibili. Non più persone, appunto, ma individui invisibili che vorrebbero diventare visibili e potenti nel mondo della visone integrata e tecnologica. Siamo diventati tutti, insieme alle altre cose, paesaggi, cieli, mare, terra, immagini che circolano in rete, così ci ha trasformato la pianificazione aziendale del controllo integrato.

L’odio e di conseguenza la ferocia hanno invaso il mondo dell’arte. Tutto il suo meccanismo di produzione, diffusione, circolazione si fonda ormai sul riconoscimento dell’artista, sulla sua nomea, sulla forza del mercato. Le stesse capacità mediatico/comunicative dell’artista diventano prioritarie rispetto al significato dell’opera e all’opera stessa. Il suo valore commerciale assume un aspetto prevalente diventando un affare, un qualcosa su cui lucrare. Nello spasmo commerciale l’opera perde il suo lucore e si trasforma in conflitto, in sfida. Tra gli artisti si scatenano rivalità e gelosie inconsuete. Intendiamoci: questo accadeva anche nel passato, anche se ciò avveniva all’interno di meccanismi professionali codificati, non come ora quando la rivalità si è trasformata in meccanismo distruttivo, in odio verso l’altro pur di arrivare al successo. Si potrebbe pensare a una ragione anarchica, ad un recupero di una dimensione pre-individuale che prescinde dall’interpretazione e da qualsiasi codice. Non è così. L’anarchia dell’artista è un’altra leggenda messa su dal mercato. La vera anarchia consiste proprio nelle forme e nel modo con cui l’artista concepisce la sua opera, tra norma e antinorma, teoria e prassi, seduzione e rivolta e non individualismo esasperato che ha davanti a sé il nulla e la tomba.

Perfino l’outsider art, etichetta molto in voga oggi, non ha niente a che fare con la propensione anarchica dell’artista che viaggia su altri livelli e neppure con la non arte. La svolta Fringe, come scrive nel libro L’arte espansa Mario Perniola (grande pensatore ed attento interprete delle cose dell’arte purtroppo scomparso di recente) consisterebbe nel fatto che tutto è incluso e tutto può divenire opera: le aziende agricole gestite come opere d’arte totale, le composizioni grafiche multisensoriali, i rituali, gli oggetti appartenenti al regno del sacro per popolazioni distanti, gli scarti, i rifiuti, le performances, i film, le idee, i concetti. È ovvio che se tutto è arte niente lo è. Sparisce la dialettica fra il dentro e il fuori. Anche chi non ha nessuna storia e consapevolezza può far parte della cosiddetta tribù dell’arte, basta un semplice gesto. Non è una logica inversa e rivoluzionaria ma un conformismo rovesciato. Le Istituzioni culturali, le strutture museali per l’arte contemporanea che dovrebbero garantire un minimo di distinzione fra l’opera d’arte autentica e quella che non lo è favoriscono la confusione. L’imparzialità e l’oggettività che dovrebbero governare queste Istituzioni viene meno.

Assistiamo a un proliferare di mostre inutili come scrivono Tomaso Montanari e Vincenzo Trione nel loro pamphlet Contro le mostre. Le scelte dei musei dell’arte moderna e contemporanea sottostanno  alla logica del potere politico e del meccanismo fringe. Si confonde la storia con l’attualità. La pretesa sarebbe quella  di far comprendere le opere d’arte del passato mettendole a confronto con il presente, con ciò che è fuori, mescolando tutto in una generalizzazione senza precedenti. Si tratta di una forzatura, di un deliberato atto di violenza sull’opera d’arte. A prevalere è l’indistinto e non il senso dell’opera, il suo significato, la sua fragranza poetica. Anche se dell’opera non si hanno più tracce per il prevalere dell’atto dell’artista sull’opera, occorre dire che la medesima deve essere  restituita alla sua integrità e avere rispetto della sua storia e del contesto in cui è stata messa-in-opera. Così una delle finalità di un museo istituzionale che sarebbe quella di far comprendere al più ampio pubblico l’opera d’arte (sia quella storica sia quella contemporanea) e di rendere riconoscibili le differenze e le contiguità fallisce miseramente.Trionfa la mercificazione nel nome della  libertà di espressione. Nel film The Square di Ruben Ostlund il grottesco dell’arte contemporanea appare in primo piano. La distanza fra la vita reale e il museo che segue una vita propria è messa in evidenza. La crudeltà appare da una coltre di perbenismo ed investe lo spettatore che diventa vittima sacrificale di una celebrazione di un’arte che deve solo provocare, imporsi senza curarsi dell’altro. Qui l’atto dell’arte si fa portatore di uno scambio simbolico dove la ferocia gratuita sostituisce la donazione di senso.

I Direttori e i curatori che si succedono alla guida di musei importanti dell’arte moderna e contemporanea impongono le proprie stravaganti idee sull’arte e su come debba essere osservata e compresa badando soprattutto alla comunicazione e al marketing. Le commissioni scientifiche che dovrebbero operare scelte oggettive, dare pareri secondo criteri trasparenti, inoppugnabili e leggibili sui progetti, sulle mostre, sui libri da presentare sono invece in preda a valutazione poco scientifiche e di parte. Quel che è peggio è che alcuni personaggi  di tali commissioni non hanno mai scritto un libro e forse hanno letto poco. Varrebbe la pena di chiedere a ognuno di questi saccenti esperti: dove sono i tuoi libri? Costoro che come statue di sale fanno parte di commissioni che dovrebbero garantire l’imparzialità e il rigore di così nobili Istituzioni non hanno alcuna competenza eppure governano le scelte di queste Istituzioni con il loro sì o il loro no. Chi li ha chiamati a quel compito così importante? Da chi sono stati selezionati e secondo quali criteri? Il criterio è sempre lo stesso, quello della gestione politica, dei favori, dell’amicizia, degli scambi. Così sembra tutto normale; si favoriscono i più potenti, quelli conosciuti, gli artisti cui non si può dire di no oppure l’outsider, immacolato, considerato puro e ingenuo. La santa alleanza tra il potere costituito dalle logiche politiche, le Istituzioni museali dell’arte contemporanea e gli outsider sembra costituirsi come potere sovrano.

L’odio e la ferocia non circolano solo nel web o nei canali televisivi ma dilagano nel mondo dell’arte in maniera oscena. Gli oppositori, coloro che pensano e non si fanno sottomettere facilmente, la cosiddetta critica ora tanto odiata e prima osannata, gli artisti che pensano e scrivono sono messi al bando, essi devono essere eliminati, isolati, ignorati. Le riviste e i periodici che pubblicano notizie e articoli sull’arte contemporanea non fanno che da cassa di risonanza alla mediocrità delle mostre aumentando la distanza fra la banalità e il pensiero sull’arte, la sua pratica riflessiva, l’estetica come prassi umana di libertà. Tali riviste non fanno che riproporre la standardizzazione, l’andar per arte senza sapere in quale direzione e con quale vista. È un circo della menzogna fatto di fiere, aste pubbliche e televisive, rassegne importanti e meno importanti che s’impone con violenza nascondendo ed eludendola la vera essenza dell’arte. Le mostre abbondano senza alcuna misura, senza criteri, teorie, ricerche: nessuno si preoccupa della loro validità, della loro coerenza storico-critica. Siamo costretti ad assistere senza poter reagire a questo scempio. Questa ferocia espositiva e la censura per chi la pensa in maniera diversa divorano la semenza dell’innovazione e del cambiamento.

Questo purtroppo è lo scenario dell’arte in questo bellissimo paese. L’unico modo per reagire alla ferocia con cui la commercializzazione dell’arte svaluta, ottunde, riduce a brandelli il mondo dell’arte sarebbe una svolta teorica, una prassi dell’arte che origina dalla sua dimensione ontologica, dal suo porsi come riflessione, come possibilità etica di riconoscimento dell’opera e sua interpretazione. Sono sempre  gli artisti  che non ambiscono a riconoscimenti  immediati, ma  hanno a cuore il senso del fare dell’arte, a dover dare delle risposte e a individuare  con le loro scelte e le loro opere un sostanziale cambio di rotta.