Non c’è storia in questo cortometraggio, come non c’è più storia nei luoghi distrutti

di Dino Viani

“Canto 6409” è uno di quei film che nessun cineasta avrebbe mai voluto fare, compreso chi scrive.

Rimane il fatto che il 7 Aprile 2009 – il giorno successivo al devastante sisma aquilano – ero sul campo. Inizialmente non c’era da parte mia la benché minima idea di pensare a un film, o, comunque, di fare qualcosa di importante.
Ero lì come inviato “speciale” di una agenzia di stampa connessa con gli abruzzesi/italiani nel mondo che mi chiedeva di raccontare quella tragedia in maniera diversa da come, sin dal primo momento, si stava narrando sui media, televisivi in particolare.


Forse è stata questa esperienza indiretta a far nascere in me, lentamente, l’idea del film.

Come tutti sappiamo il terremoto dell’Aquila, prima di ogni cosa, è stato un grande evento mediatico. Uno straordinario “spettacolo” a cielo aperto. A torto o a ragione, nel mondo dei tag, il nome del nostro capoluogo ferito era divenuto uno dei più conosciuti al mondo. Una tragedia mediaticamente esplosiva ma, nello stesso tempo, il sistema informativo, nel suo complesso, giocava a nascondino con la stessa. La faceva apparire “bella”. Da subito avevo chiaro in me cosa raccontare e cosa tacere. Soprattutto non volevo fare un film solo sul “terremoto dell’Aquila” di cui, per certi aspetti, non se ne poteva più. A me, come artista, interessava capire l’evento dal punto di vista simbolico, antropologico, metaforico, linguistico. Al netto della tragedia che porta con sé, il terremoto ha un suo linguaggio che ha a che fare con l’arte se per essa intendiamo la capacità di chi esercita questa o quella disciplina in grado di modificare la materia. Il sisma cambia il paesaggio, ingoia, di ogni creatura, vita e memoria. Ancor di più mi interessava indagare sui terremoti della vita, di quelle volte che la stessa ci implode lasciandoci attoniti e impreparati. Ognuno di noi ricorda quella scena straziante di Jacqueline Kennedy piegata sul cofano della Limousine presidenziale nel tentativo, disperato, di rimettere a posto i brandelli di cervello del marito John disseminati sulla carrozzeria.

“Canto6409” è un film, credo, molto sperimentale, su tutto quello che non si vede ma si sente. Su quel dolore silente che scava dentro, come scava per sempre un lutto, la perdita di una persona cara, ecc. La stessa narrazione fa fatica a diventare tale; si sforza, vorrebbe, ma sfugge anche al controllo del suo autore. Non c’è storia in questo cortometraggio, come non c’è più storia nei luoghi distrutti. Questo è il terremoto”, il fatidico momento in cui tutto implode e comunque si cerchi in tutti i modi di rimetterlo a posto mai più tornerà come prima.

Al massimo, da quella esperienza, si possono trarre le conseguenze per un nuovo percorso, come accade in Giappone con il kintsugi, dove le “ferite” vengono sigillate ed esaltate con l’oro. Per realizzare questo progetto mi sono avvalso dell’aiuto e contributo del mio fraterno amico, Emanuel Dimas de Melo Pimenta, con cui ho lavorato secondo i dettami dell’indipendenza dei linguaggi di A. Artaud. Io non sapevo cosa avesse composto. Lui non conosceva cosa avessi girato e montato. Poi ci sono i ricordi di quei giorni infiniti. Del caldo e del freddo. Della paura che si respirava nell’aria a ogni scossa e la voglia, comunque, di tornare a vivere. Affido a tre delle mie impressioni diaristiche la descrizione del climax di quei terribili giorni in cui tra un ciak e l’altro, il film ha preso corpo e, mi auguro, soprattutto anima.

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I Fantasmi nella nebbia

Al Tgr hanno annunciato che gli sfollati del terremoto sono stati alloggiati negli alberghi della costa. Carico la mia bici in macchina e mi dirigo verso Francavilla iniziando la mia ricerca. I marciapiedi e gli arenili sono ancora vuoti, presto qui diventerà un carnaio caotico di gente seminuda, profumi di creme abbronzanti mescolate all’odore delle patatine fritte, pizzette, cocco fresco; marocchini con gli asciugamani e costumi, senegalesi con tamburi ed elefanti di legno, cinesi per tatuaggi e massaggi, olologi, cannocchiali, aquiloni e cappelli con ventoline.

Davanti ad un hotel c’è un piccolo gruppo di anziani che si guarda intorno movendosi con lentezza. Sono loro, piccoli spaventapasseri senza più energie,  narcotizzati come animali a rischio di estinzione e trasferiti in un luogo diverso dal loro habitat naturale.

Una donna anziana è ferma sul marciapiede. Indossa un elegante cappotto in doppio petto blu sopra una vestaglia rosa, ai piedi  le stesse babusce di feltro che usava mio nonno d’inverno per riparare i piedi dal freddo. Vuole attraversare  la strada per andare verso il mare che forse non ha mai visto e che non pensava certo di vedere ormai a questa età. Un piacere di cui avrebbe potuto tranquillamente fare a meno, congedandosi così da questo mondo senza rimpianto: d’altronde i ricordi più belli vengono sempre da sogni irrealizzati. Gli uomini sono seduti davanti ad un tavolo sul davanzale dell’hotel, silenziosamente impegnati in un’improbabile partita a briscola che mi ricorda la scena finale di Blow up di Antonioni. Giocano sommessamente, senza i tipici rumori della cantina, una partita che ormai nessuno ha la necessità di vincere; l’unico scopo è quello di ingannare il tempo che li tiene ombrosi inquilini. La gara più importante l’hanno già persa, nessuno è uscito vincitore, in particolar modo quelli che hanno avuto la fortuna di rimanere in vita. Tutto il resto è già andato. Non hanno più punti da difendere, né nocche delle mani da sbattere sul tavolo ad alta voce con tutte le madonne santissime, cristi in croce e via dicendo.

Quelle mani le conosco, mi appartengono, sono le mani dei miei antenati, della mia gente, di mio padre. Con quelle mani hanno dissodato la terra, seminato i campi, raccolto i frutti, ammazzato gli animali, sgravato le vacche e strappate le mutande alle loro donne ingravidandole. Alla porta dell’hotel si affaccia un bel ragazzo vestito alla moda con una camicia bianca sbottonata sul bavero del doppio petto nero; rimane in piedi camminando avanti e indietro sul pianerottolo mentre parla al telefono ad alta voce. “Qui siamo al completo – esclama con aria appagata – tu quanti ne puoi sistemare ancora? E’ un uomo-dobermann con sopracciglia a punta, palestrato, “gellato”, abbronzato, depilato, asessuato. Negli occhi degli anziani ospiti si legge lo stupore verso quella strana creatura apparsa all’improvviso come un alieno di plastica. Il tempo sui loro volti ha scavato segni indelebili, tracce di un’esistenza minuta vissuta pienamente alla luce del sole e senza mistificazioni, ma al destino questo non è bastato per garantire loro una naturale fine dei giorni, una vecchiaia tranquilla. L’attempata signora attraversa la strada lentamente e va verso il mare. Senza dare nell’occhio mi fermo a poca distanza da lei cercando di proteggerla con discrezione dalle macchine che passano a gran velocità. Cammina a fatica come una lumaca, non si guarda nemmeno intorno, dopo quello che ha vissuto non ha più senso, se fosse investita forse sarebbe finalmente grata alla sorte. Sulla spiaggia è scesa una fitta foschia, dal grigio liquido dell’orizzonte giunge una voce con un chiaro accento aquilano: Ecche Zà Merije, sje vennute pure tu? Lei alza appena lo sguardo in direzione della voce, poi continua per la sua strada senza dire una parola facendosi ingoiare dalla nebbia dissolvendosi nel nulla, come vorrebbe, per sempre.

II Albe spezzate

7 aprile 2009, h 9.30. Decido di partire per le zone terremotate senza una meta precisa. Sento che devo andare con la consapevole frustrazione di non poter fare nulla. E’ una reazione isterica alla paura, come il cane che si mette a correre all’infinito dopo lo scampato pericolo.

Percorro la statale che da Chieti porta a Popoli, tutto intorno è come se nulla fosse accaduto, la vita scorre con i ritmi di sempre. Il cielo sopra di me è azzurro liquido. Il sole cala a picco sulla terra. Il termometro di una farmacia segna 27 gradi. Lungo la strada, ai soliti posti, c’è il porchettaro che vende i panini, il contadino con finocchi e verdure, una donna anziana con mazzetti di primule e violette, e, un signore con piccoli fascetti di asparagi selvatici. E’ primavera, lo si percepisce forte dalla luce e dall’aria che s’impone sul paesaggio ancora un po’ sonnolento, lievi reminiscenze dell’inverno appena passato. All’altezza di Bussi, in un’area riservata, una famiglia fa pic-nic. Attraverso velocemente la galleria e giungo in paese; due ambulanze imbiancate di detriti si dirigono silenziose verso la costa.

La loro improvvisa apparizione rompe l’incantesimo suonando funeste arie dentro di me come una nota cupa che al cinema prelude al tragico, alle scene che mettono paura. Faccio finta di nulla e vado avanti distratto dalla bellezza del paesaggio della Piana di Navelli, ricolma di mandorli in fiore che mi riportano alla Valle dei templi di Agrigento. Trattori giganti solcano la terra con grossi aratri, altri concimano. Le ambulanze impolverate s’ incrociano sempre più frequentemente. All’altezza di Castelnuovo mi fermo. Alla mia sinistra c’è il ristorante “ La cabina “ rinomata trattoria, famosa per i suoi piatti allo zafferano, prodotto tipico di questo altopiano. Alzo lo sguardo, l’edificio è sventrato, imploso, sembra colpito dall’alto da una “bomba intelligente”: travi spezzate come costole, mattoni, pietre, tavoli, fotografie di momenti felici e una lampadina che ondeggia nel vuoto, sola. Svolto a sinistra verso il borgo antico, dove, all’ingresso del paese, una signora anziana sbarra la strada come una sentinella. La donna ha lo sguardo rivolto altrove, nel vuoto e parla a ruota libera pronunciando parole incomprensibili come un relè impazzito. Rimango impietrito a poca distanza da lei e non so che fare mentre imperterrita continua quella litania infinita, impassibile, senza minimamente curarsi della mia presenza. Sembra una casa miracolosamente rimasta in piedi ma crollata dentro.

Parla a bassa voce facendosi domande e riposte in un misto di inglese e dialetto. Ripete spesso Brisbane, Australia; parla della sua home con il prato all’inglese: lu drimmes (dream), lu carre (car)con accento dialettale. In dialetto stretto parla di una nave che parte da Napoli, 1950, i genitori, gli amici di scuola che chiama tutti per nome, e ad ognuno ripete: viste ca successe mo? Fotogrammi da salvare, frammenti di pellicola di un film da rimettere disperatamente insieme quando si è perso tutto e si fa fatica a dire al mondo di esserci stati,  perché ognuno è quello che ricorda. Mi tremano le viscere, la testa mi scoppia, vorrei mettere una mano davanti alla sua bocca per non farla più parlare, oppure scappare ma le mie gambe sono rigide e piantate sull’asfalto. Poco distante da lei, seduto sulle scalette di una casa che non c’è più, un vecchio osserva attonito il via vai frenetico di quelle strane macchine rumorose che da quelle parti sicuramente non si erano mai viste. Le case sono attraversate da lunghe crepe, in lungo e largo, alcune sono adagiate sul fianco, come donne anziane sedute, l’una accanto all’altra, dopo una lunga camminata. Altre squarciate. Si respira un odore di morte, acre, simile all’urina inacidita dei pitali notturni. Oppure di muffa di cantine che non avevano mai visto la luce del sole. Il centro storico non esiste più, secoli di bellezza e di storia ridotto in cumuli di macerie e polvere. Gli elicotteri solcano senza sosta il cielo azzurro: mi sembra di essere dentro un reportage di guerra. Vago tra le macerie di questo luogo fantasma tra le ombre e le anime dei morti che mi parlano, come Ulisse in cerca della voce della madre.

III L’uomo pietra

Vago in macchina da un luogo all’altro lasciandomi guidare dal mio istinto, dagli occhi. Non cerco nulla, non ho bisogno d’immagini spettacolari: carrozzine, orsacchiotti di peluche, l’intero armamentario della retorica televisiva. Giro e basta, come una trottola che non sa darsi pace tra questi paesi che non sono più paesi, queste case che non sono più case, e questi uomini che non sono più uomini.

Sulla strada interpoderale che da Fossa porta a Onna incontro un uomo anziano con un fagotto sulle spalle e un secchio appeso al braccio; appena mi vede arrivare alza il braccio e mi fa cenno di fermarmi. Il tempo di accostarmi e lui, con un movimento perentorio e senza dir nulla, è già in macchina come se quel passaggio gli toccasse di diritto. Si siede cercando una comoda posizione dopo aver sistemato davanti ai suoi piedi il secchio di metallo con le frocelle di vimini dentro e il fagotto di roba. Un boato conferma la chiusura della portiera. L’abitacolo, istantaneamente, si trasforma in una camera a gas, un olezzo fortissimo, come se avessi imbarcato un gregge intero. Per paura di insospettirlo non oso nemmeno aprire un po’ il finestrino per cercare un minimo di ricambio dell’aria. Il mio ospite non dà segni di vita, guarda solo in avanti; alza il braccio all’improvviso quando mi deve indicare di svoltare a destra o a sinistra, poi lo lascia ricadere senza forza sulla gamba con indifferenza, come un peso morto.

Camminiamo per un bel po’ zigzagando nel paesaggio primaverile su strade brecciate che in alcuni punti sono già polverose. Lo osservo attentamente con la coda dell’occhio. Ai piedi ha un vecchio paio di scarponi di cuoio; pantaloni grigi con toppe in ogni angolo stretti, all’altezza della vita, da una cinta fuori dei passanti; indossa una camicia a quadri senza bottoni legata con un grosso nodo all’altezza dell’ombelico, i peli bianchi del petto spuntano come asparagi selvatici attraverso le fessure della maglia di lana. Il suo viso, sbarbato male, s’incupisce all’improvviso emettendo suoni gutturali, strani brontolii soffocati, quando incontriamo le masserie solitarie rase al suolo e ridotte in cumuli di macerie. Sul nostro cammino incrociamo una piccola colonna di trattori che trasportano sui carri quel che resta delle loro case: mobili, materassi, frigoriferi, coperte e pentole; i membri della famiglia seguono a poca distanza con le loro macchine ed il corteo è una via di mezzo tra un funerale e l’uscita della sposa con la dote dalla casa paterna. Finalmente mi fa cenno di fermarmi, scende dalla macchina senza dir nulla, né grazie né tanti saluti.

Davanti a me c’è un grosso slargo, sulla destra una baracca di legno con tetto di zinco, sulla sinistra uno stazzo con un piccolo gregge con una decina di pecore e agnelli che appena lo vedono arrivare iniziano a belare montando un frastuono incredibile insieme ai cani pastore che abbaiano, ai tacchini che fanno la ruota e le papere che starnazzano nel fango: per un attimo mi è sembrato di essere in un quadro vivente di Chagall. L’uomo si dirige all’interno della baracca, poi esce e si lava le mani in una cisterna d’acqua piovana, prende uno sgabello ed entra nel recinto sedendosi davanti alle mammelle di una pecora e inizia a mungere. Non so che fare, vorrei filmare, almeno fotografare, ma lui ogni tanto mi scruta sospettoso. Vorrei salutare e andare, magari, così facendo, potrei provocare una sua reazione, potrebbe a quel punto farmi un cenno per rimanere, qualsiasi ipotesi s’infrange di fronte alla sua solenne immobilità. Assisto alla mungitura delle pecore dal parabrezza della mia macchina come se fossi al cinema. Dopo un po’ esce dal gregge con il secchio pieno di latte e torna di nuovo verso la baracca, poi ancora indietro, entra nello stazzo perdendosi tra le pecore come se cercasse qualche cosa.

All’improvviso lo vedo sbucare con un agnello preso per la pancia tenuto dal braccio sinistro. Tutto il gregge inizia di nuovo a belare incessantemente rispondendo agli appelli dell’agnello che è appeso a testa in giù ad un ceppo improvvisato. I cani sono sdraiati per terra, sonnolenti, i tacchini sono fermi come un picchetto d’onore sull’attenti, l’uomo tira dalla tasca un piccolo coltello a serramanico, afferra il muso dell’agnello e passa la lama sul collo come una carezza. Il sangue comincia a uscire copioso sulla lana bianca cadendo sulla terra scura, il frastuono delle pecore è infernale, l’uomo fa un passo indietro lasciando il muso dell’animale che s’inarca repentinamente sul suo corpo disegnando intorno a sé un cerchio di sangue nell’aria, prima di ricadere esanime.

Tutto il gregge tace, immobile. Gli animali sono uno al fianco dell’altro con lo sguardo attonito rivolto verso la bestiola. L’agnello è scuoiato in  un batter d’occhio con un movimento deciso dall’alto verso il basso, dalla carne nuda evapora una nuvola di fumo. Con un colpo secco di coltello apre l’addome dell’animale lasciando cadere le viscere calde sulla terra, i cani si avvicinano lentamente e iniziano il loro banchetto. Le mandibole possenti frantumano senza fatica le interiora, mentre il loro padrone lava di nuovo il coltello nella cisterna prima di entrare nuovamente nella baracca. Alla radio parlano del terremoto, il corrispondente è collegato telefonicamente da Onna (a poca distanza in linea d’aria da me), ma dal mio punto di vista tutto è diverso e, nello stesso tempo, lontano, irreale. L’uomo esce di nuovo e si siede all’aperto nell’aia, taglia il pane poggiando le fette sul telo aperto sopra le sue ginocchia, prende una caciotta e la divide in spicchi, con la punta del coltello ne infilza uno e alza lo sguardo verso di me.

Capisco che è ora di scendere, mi avvicino con un po’ di soggezione mentre mi porge il pane e il pezzo di formaggio in mano, mi siedo per terra davanti a lui che mi guarda solenne come un Dio antico. Il cielo sopra di noi è azzurro e le nuvole bianche, l’agnello è appeso al sole, l’uomo/pietra non mi incute più timore e la sua presenza mi rassicura, i cani sono sdraiati a poca distanza da noi e si strusciano la lingua sulla bocca, sazi. Tutto è immobile, finalmente.