Ad un certo punto del libro, le voci interiori dei passi nel cortile del carcere, si cristallizzano visivamente in frasi circondate da ferro spinato

di Anna Maria Giancarli

Nel maggio 2015 Cumhuriyet, il maggiore giornale turco di opposizione, lancia uno scoop esclusivo, che smaschera il coinvolgimento diretto della Turchia nella questione siriana, attraverso un video che mostra un tir dei servizi segreti turchi che trasporta in Siria un carico d’armi pesanti, destinate alle forze di Al-Qaeda e Isis.

Can Dündar, direttore del giornale, viene arrestato, con l’accusa di spionaggio e divulgazione di segreti di Stato e condotto a Silivri, cittadella di reclusione per oppositori politici, voluta da Erdogan, dopo la sua salita al potere.

Questo il contenuto del libro “Arrestati”* di Can Dündar, che ho voluto riportare dalla prima di copertina come materia informativa prima di iniziare qualche riflessione sulla sua vicenda personale e sul suo itinerario di resistenza per rivendicare il diritto alla libertà di stampa.

Ovviamente, mi sono sentita al suo fianco, ma non posso nascondere che, immediatamente, ai miei occhi, è apparso l’orrore di centinaia e centinaia di bambini ‘arrestati’ ogni anno in Palestina, di notte, bendati, abusati, torturati e segregati dagli Israeliani.

Per chi ha una visione del mondo solidale, civile ed umana non è tollerabile l’indifferenza del cosiddetto mondo occidentale che, con vergognosa ipocrisia, protegge col proprio silenzio chi opera simili crimini in quella parte del medio oriente che può essere assunta a simbolo emblematico di ingiustizie.

Reportage di Paolo Perna

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Scrivere la verità, come diceva Brecht, può essere particolarmente rischioso e, anche Can Dündar, è la dimostrazione di questo pericolo, che si accentua in certe fasi storiche, come quella attuale, in cui il mondo, non c’è dubbio, sta andando pericolosamente a destra.

Ogni potere, da sempre, predilige la menzogna o “le parole della tribù”, di cui a suo tempo parlava Mallarmé, per il mantenimento dello status quo dei propri profitti e per sopprimere qualsiasi critica o dissenso che li metta a repentaglio.

Purtroppo va registrato che in questa modernità “liquida”, direi ormai “gassosa”, nonostante le straordinarie opportunità epocali di informazione offerte dalle tecnologie, le modalità del pensiero intelligente sostano al grado zero, perché è stata bandita, ad arte, la dimensione critico-dialettica, che consente l’analisi, la riflessione, il giudizio etico e politico sugli eventi.

Pertanto, domina una visione della realtà dove tutto è uguale a tutto ed al suo contrario, un’abitudine al disimpegno verso le responsabilità; domina la confusione, la mediocrità linguistica, mentre i poteri costruiscono tali schiavitù dall’apparenza democratica.

La voce di Can Dündar ci ricorda, invece, che è imprescindibile la lettura dei fatti attraverso la ragion critica e, di conseguenza, l’assunzione di responsabilità personali nei confronti della collettività.

“Ho scritto questo libro”, dice l’autore, “durante la reclusione e l’isolamento per quattro mesi, consumando tre penne e tre quaderni in due mesi, con la vista di un muro giallo, sulla branda di ferro del piano superiore della cella, sognando il giorno in cui sarei uscito”.

Nonostante tutto, si ritiene tra i prigionieri più fortunati, di fronte alle migliaia di vittime in prigione da anni in Turchia e a chi ha dato la vita nella lotta per la giustizia, ai dimenticati in ogni angolo delle galere, in un paese dove il potere sopprime sempre di più le libertà.

Can Dündar, con la sua scrittura “amica”, di cui fa l’elogio in alcune pagine del libro, intende denunciare con un atto di lucida resistenza, tale situazione, cosciente che, come ricorda George Orwell, “nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”.

Per il nostro autore scrivere assume il significato di testimonianza, di dilatazione del tempo nel futuro, di produzione d’informazione libera, di sostegno morale che innesca la forza ed il coraggio di combattere.

Panagulis, rinchiuso in una “cella-bara”, privato di tutto, scrisse col suo sangue e dialogò con uno scarafaggio, per conservare se stesso e la fiamma dei propri ideali.

Far crescere dentro di sé la capacità di introspezione e di ribellione per affermare uno stadio più avanzato di umanità, ancora così lontano, è anche per Can Dündar l’imperativo categorico a cui sottostà la sua volontà.

Ad un certo punto del libro, le voci interiori dei passi nel cortile del carcere, si cristallizzano visivamente in frasi circondate da ferro spinato, divengono grumi di coraggio e riflessioni per affrontare la durezza della detenzione. Intanto, azioni simboliche come la “veglia della speranza”, cortometraggi, traduzioni dei messaggi dal carcere in varie lingue, la riunione di redazione di Cumhuriyet davanti alle porte di Silivri, l’uso di internet, raggiungono ogni angolo del globo, raccontando l’arresto dei giornalisti e facendo crescere la mobilitazione in loro favore.

Lo stesso Can ammette che la sua capacità di resistenza cresce con l’aumento della solidarietà internazionale, espressa in tante forme, e con l’arrivo di centinaia di lettere, vagliate per il visto, colme di affetto e venate di pessimismo per la condizione del paese e per la richiesta di due ergastoli nei suo confronti.

In attesa delle fasi del processo, a Silivri Can divide la cella, dopo un mese di reclusione, con il suo amico giornalista Erdem Güll, che si rivela la persona migliore per condividere quella costrizione che ha fine con la decisione della Corte Costituzionale, che dichiara illegittima la richiesta di arresto dei due giornalisti.

Finalmente le porte della prigione si aprono e Can scrive una lettera a Erdogan, nella quale lo ringrazia per la possibilità loro concessa di avvertire il mondo dell’autoritarismo crescente in Turchia e per la solidarietà innescata, in seguito alla sua azione repressiva, nei suoi confronti e del suo giornale non omologato, da lui diretto.

In attesa della sentenza nel processo in cui era imputato con il suo amico, Can subisce un attentato fisico, oltre a quello giuridico di condanna.

Nel frattempo, in Turchia si verifica il 15 luglio 2016 un tentativo di colpo di Stato, in conseguenza del quale Erdogan sfrutta l’occasione per aumentare ulteriormente l’oppressione. Migliaia di giornalisti vengono arrestati, decine di giornali e siti internet vengono chiusi, le libertà civile vengono sospese.

La sua vita in grave pericolo, in questo clima, spinge Can all’autoesilio in Germania, dove fonda il portale d’informazione turco-tedesco “Özgürüz”, in attesa del processo d’appello.

“Arrestati”, il libro denuncia-testimonianza di Can Dündar è, quindi, un tassello che si aggiunge al grande affresco di lotte, di resistenze, di opposizioni alla negazione delle libertà e dei diritti, purtroppo in continuo “stato di emergenza” in troppe parti del mondo.

Noam Chomsky, docente di linguistica, acuto conoscitore delle dinamiche del potere, lucido profeta dei mali che affliggono le nostre società, afferma in “Così va il mondo” che esiste “una battaglia costante tra quanti si rifiutano di accettare il dominio e l’ingiustizia e coloro che cercano di costringere le persone ad accettare”; ed ancora che “se il popolo non accetta la situazione, per i governanti è la fine”.

È un invito, questo, all’opinione pubblica a lottare per il “bene comune”, per divenire cittadini consapevoli e contribuire, come Dündar, alla costruzione di una società più umana.

*[edizioni Nutrimenti, Roma 2017]

 

NOTA REDAZIONALE

Il libro “Arrestati” del giornalista-scrittore Can Dündar recensito da Anna Maria Giancarli, è stato presentato a L’Aquila dall’autore nel corso di un incontro pubblico promosso da Amnesty International all’Università dell’Aquila. In tale contesto veniva realizzato dal writer DESK il murale documentato nel reportage. Ispirato sia alla personale e familiare vicenda umana di Dündar, che alla degenerazione tirannica in corso in Turchia. Questa la nota critica stesa dal nostro Direttore, pubblicata sul quotidiano “Il Messaggero Abruzzo”.

Un murale per i diritti umani e per la libertà di stampa

È una targa bilingue apposta da Amnesty International Gruppo L’Aquila a ricordare il messaggio solidaristico inglobato dal writer DESX (al secolo l’architetto Luca Ximenes) nel suo “fresco murale” realizzato con colori acrilici a Coppito: “Alla famiglia Dündar e a tutti coloro che lottano per i diritti umani e la libertà di stampa in Turchia e nel resto del mondo”.
Opera propedeutica, nonché  grata ed affidabile testimone, dell’intenso incontro avuto nella Facoltà di Medicina con il giornalista-documenarista turco Can Dündar, attualmente in esilio in Germania. A chi voglia approfondire le sue tribolate vicissitudini esistenziali legate ad un nobile mestiere inviso al tiranno di turno (reclusione, attentato, condanna a circa 6 anni di carcere, ritiro del passaporto alla moglie, ecc.) si consiglia di leggere il suo più che ben scritto ed avvincente libro “Arrestati” recentemente tradotto in italiano. Amare pagine che, insieme alla sua sfida “penna in mano e viso aperto” lanciata al repressivo regime erdoganiano, gli è valso il riconoscimento del premio “Anna Politkovskaja” (la giornalista russa assassinata a Mosca, mentre rincasava, giusto il 7 ottobre di undici anni fa), appena conferitogli nella cerimonia d’apertura del Festival ferrarese promosso dalla rivista “Internazionale”.
Sul fosco scenario politico-istituzionale turco va così ad interagire il dipinto-denuncia di Desk (ad occhio e croce circa 30 x 2,5 metri, con un modernizzante impaginato dal calibrato mix stilistico realista-concettuale) il quale snoda il suo impattante racconto visivo sulla grigiastra superficie-spazio delimitante un marciapiede con la scritta d’apertura “L’amore è resistenza. Non desistiamo mai”, tratta dalle pagine finali del libro-calvario dundariano. La rossastra, sbrindellata bandiera turca con stella e falce di luna, s’inerpica poi, quasi fosse un serpente velenoso dalle mille spire, per aggredire occultati volti sul cui sfondo s’intravvedono fantasmatiche architetture. Solamente nella parte centrale, dove campeggiano in sequenza ravvicinata i 3 ritratti di una stravolta Ege (moglie) e di un orgoglioso Dilek (figlio) della riunita famiglia, il divorante rosso da’ un po’ di tregua, lasciando sopratutto in pace il sereno volto rischiarato da un accennato sorriso ed il pungente sguardo di Can. Suggella il tutto la ben augurante scritta a caratteri cubitali su sfondo azzurrato “Libertá di stampa in Turchia e nel mondo”.