L’auspicata Avanguardia torni ad esser calda o quanto meno tiepida. Inoltre sia capace di emozionare restituendoci almeno un pizzico della sublimità annichilita. Solo in tal modo, a nostro parere, una più pertinente “est-etica” avrà modo di affermarsi

di Antonio Gasbarrini

Estetica ed etica, da riformulare concettualmente con “est-etica” in una società cinica, irriconoscibile e complessa come l’attuale – con un trattino che non divide ma cerca di legare indissolubilmente le due facce della stessa medaglia – devono continuare ad attingere una loro perdurante legittimazione al “bello e buono” (kalòs kài agathós) d’ascendenza greco-platonica.

Un “bello e buono” trasmutati ora in cancerogeni “brutto e cattivo”,

che di per sé rappresentano la conclamata negazione di qualsiasi approccio artistico con la realtà.

Un approccio che dalle 82 incisioni de I disastri della guerra (1810-1820) di un Goya, alla monumentale Guernica (1937) di un Picasso o ai cicli visionari d’un Remo Brindisi (anni Sessanta) gravitanti tra le maleolenti pagine dell’aberrante storiaccia nazi-fascista, è riuscito a porre sullo stesso piano etica-estetica-artista-società. Del tutto ribaltato, ad esempio, dalle zdanoviane opere pseudorealiste all’esclusivo servizio d’una (s)facciata propaganda di questo o quel regime. L’arte, quindi, vs., contro, ogni manipolazione edulcorata o neutralmente pseudo-avanguardista di ciò che drammaticamente accade intorno e sotto gli occhi dell’artista.

A cominciare dalle crescenti catastrofi (solo marginalmente dovute ad una Natura matrigna) che stanno minando alla radice, con le ecumeniche disuguaglianze sociali, un utopico umano convivere.

Sono le appuntite, laceranti macerie fisiche e psichiche che continuano ad accumularsi in modo così vertiginoso sotto gli insanguinati piedi del benjaminiano Angelus Novus, ad avallare la profetica, quanto tragica visione del filosofo berlinese: «C’è un quadro di Klee che s’intitola ‘Angelus Novus’. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, al bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

Un malefico progresso che ha azzerato ogni intrigante, sublimizzabile dialogo con la possente Natura aggredita in ogni dove da dis/umane invenzioni, quali si sono rivelate le centrali nucleari.

Quella di Fukushima, coinvolta nello tsunami del 2011, è la sconquassata fotografia di un più che paradigmatico esempio.

E allora: che ne è, ai giorni nostri, del burkiano sublime, reinterpretato in chiave romantica da Kant e riletto in direzione post-moderna da Lyotard? Cerchiamo di dipanare l’intricata matassa, ripercorrendo telegraficamente alcune riflessioni fondamentali dei Pensieri più calzanti in merito.

Il Sublime, o è vertigine, o non è. L’arte d’avanguardia, dopo Duchamp – al contrario – o è fredda, o non è. Solo l’arte retorica (letteraria) secondo lo Pseudo Longino autore del trattatelo Del Sublime (più o meno I sec.) era in grado di dislocare spazialmente e sospendere temporalmente l’animo del fruitore in una catartica dimensione altra: che sta al di là e più su. L’etimologia del corrispondente termine greco, hypsos, come chiarisce Remo Bodei, vuol dire “ciò che è alto”. Quella latina, invece, ha due soluzioni opposte. “sub-limen” (altissimo) e “sub-limo” (sotto il fango). Toccherà nella seconda metà del settecento al Burke prima e a Kant poi, modernizzare il Sublime, ora figlio legittimo degli shock generati dalle scoperte scientifiche dei vari Copernico, Galilei e Newton i quali avevano slargato i precedenti confini dell’universo, rimpicciolendo di conseguenza la terra e, ancor di più, i suoi precari abitanti.

Sarà proprio Kant nella sua Critica del Giudizio a motivare filosoficamente la nuova posizione a-tolemaica e dis-centrata umana: «Noi chiamiamo sublime ciò che è assolutamente grande […] sublime è ciò al cui confronto ogni altra cosa è piccola […] sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei sensi».

Ed è quindi la Natura, nelle sue manifestazioni più eclatanti, la vera suscitatrice d’una sublimità ora “tremenda”, ora “nobile”, ancora “magnifica”. Ed allora: «Chi ha ucciso il Sublime?». Molto probabilmente, da una serie di indizi storiografici, ben due sono stati gli assassini: l’arte d’avanguardia nei suoi esiti più concettuali e minimal e la tecnoscienza.

Sul primo aspetto si è soffermato qualche anno fa, da tutt’altra angolazione, Massimo Carbone nel suo Il sublime è ora, ricollegandosi direttamente al sublime kantiano devitalizzato, però, dall’arte algido-concettuale: «Il Sublime diventa il “nulla” che accade, cioè il Semplice. […] soltanto uno scolabottiglie per Duchamp, soltanto un quadrato bianco per Malevič, soltanto una striscia verticale per Newman. Che sono anche le radici “erranti” del concettualismo e del minimal. Questo Semplice, questo “soltanto” diventano esperienza della loro “impresentabilità”».

La perenne conflittualità tra ragione e immaginazione, l’indicibilità e l’impresentabilità estetica della misteriosa realtà-non-realtà da cui siamo assediati, possono anestetizzare prima ed uccidere poi il congelato, non-più emozionante Sublime? Sì! Senza l’originario ingrediente del dolore e senza pathos (abbiamo chiamato in causa più sopra I disastri della guerra, Guernica ed i visionari  cicli storicizzanti di Remo Brindisi, sovrabbondanti di lancinanti metafore), che ne è dell’umano, d’una intera umanità mai tanto sofferente come ai giorni nostri con i milioni di non-esseri che muoiono ancora per fame, sete e guerre?

E l’arte contemporanea può rispondere solo con l’incestuoso day after di un Post-Human (Jeffrey Deitch) caratterizzato esteticamente dalla messa a nudo delle “sacrileghe” manipolazioni dell’ingegneria genetica teleguidata da quella informatica che quanto prima porranno la parola fine alla evoluzione naturale per dare campo libero a quella artificiale?

Mentre poniamo queste legittime domande, crescenti catastrofi naturali, tecnologiche e perché no, etiche, si stanno abbattendo sulle nostre povere, confuse teste.

René Thom è, senza dubbio, il teorico par excellance della Tc (Teoria delle catastrofi. Naturali, ci permettiamo di aggiungere: «L’idea essenziale che sta sotto la teoria delle catastrofi è l’idea che ogni fenomeno, ogni forma spazio-temporale, deve la sua origine ad una distinzione qualitativa dei modi d’agire del tempo nelle cose. La dinamica, in realtà, non è altro che lo studio del modo d’agire del tempo nei “sistemi”, la teoria dell’invecchiamento»).

Catastrofi inglobabili nell’alveo del Sublime, allorché la “distanza spaziale di sicurezza” (per parafrasare Burke e Kant), ti fa sentire, romanticamente, la maestosa grandiosità d’una possente, indomabile natura selvaggia, senza correre però alcun rischio personale.

Ben altra valenza esistenziale e concettuale ha la preveggenza catastrofista di Paul Virilio, da lui ricondotta ad una “oggettiva responsabilità” di una scienza ed una tecnica contemporanee che oltre a creare disequilibri mortali in quella già instabile Natura, provocano irrimediabilmente disastri aggiuntivi per una semplice rapporto di causa ed effetto: ogni invenzione, ogni innovazione della tecnoscienza, ha nei suoi meccanismi di funzionamento un virus immortale che causerà prima o poi, l’incidente. Per averne la prova, è sufficiente saper attendere.

Nella ipercatastrofe del mare-terre-tsunami-moto giapponese, le direttrici teoretiche di Thom e Virilio, si sono incontrate da un lato, ed aggrovigliate dall’altro con l’avvitamento mortale delle due concomitanti catastrofi di Fukushima (naturale e tecnologica, appunto).

Nel deflagrante hic et nunc dell’11 marzo 2011, è successo di tutto e di più. Anche l’inimmaginabile (per gli scienziati ed i tecnici, ma non per il pensatore francese). Il Sublime filosoficamente ed esteticamente storicizzato, ha subito, secondo noi, un decisivo colpo di grazia.

Per motivare al meglio questa draconiana affermazione basta collegarsi a Internet. Si possono ancora vedere su youtube alcuni mini-cortometraggi che nel concitato commento del cronista e nelle impressionanti immagini di una natura impazzita come una panna montata malriuscita, ci danno più di un indizio sull’inadeguatezza dell’arte contemporanea, digitale in particolare, a presentare l’impresentabile dell’immensamente grande (infinito) e dell’immensamente piccolo (errabonde e zigzaganti particelle quantistiche subatomiche). A cominciare dal colore della tracimante acqua: né bianca, né azzurra, né verde, né marrone. Nera, invece. Per una ragione semplicissima: la sconquassata natura vulcanica dei fondali marini. A seguire con l’apparente annullamento della forza di gravità. Si possono osservare treni, binari divelti, camion: nella loro caotica corsa verso una meta ignota, sembrano barchette di carte mandate allo sbaraglio. Non affondano, a ragione dell’energia propulsiva sottostante. Per non parlare poi delle invisibili, ma altrettanto mortali radiazioni che hanno già avvelenato, e lo continueranno ancora per decenni, terre, acque ed aria. Ebbene. Cosa si può sostenere? Che la simulazione digitale, anche tridimensionale, della cinematografia basata sugli effetti speciali, è ancora una caricatura della realtà nonostante gli entusiastici ohhh! degli spettatori. Di quella poca realtà su cui si è sempre basato il congenito darwinismo progressista della modernità: «La modernità, a qualunque epoca risalga, si accompagna sempre al crollo delle credenze e alla scoperta della poca realtà della realtà, unita all’invenzione di altre realtà» (Lyotard).

Uno degli ultimi crolli delle nostre credenze si riferisce proprio all’extra dimensione spaziotemporale dell’Universo. La poca realtà della realtà, affermano oggi gli scienziati, è dovuta all’accelerazione del moto di allontanamento delle galassie, una dall’altra, e dalla conseguente espansione accelerata dell’intero cosmo. Ma non è finita qui. A fare da propellente sono invisibili entità microfisiche che hanno drasticamente ridotto la quantità di materia (energia) dell’intero macrocosmo conosciuto, al solo 4%. Ed il mancante 96%?. Al momento, in base alle attuali conoscenze astrofisiche e microfisiche se lo contenderebbero le cosiddette materia oscura (23%) ed energia oscura (73%).

A questo punto della ricerca scientifica la vertigine del Sublime kantiano potrebbe prendersi una bella rivincita rispetto alla sua eclisse sinora tratteggiata.

Tornando al terremoto nipponico, i chilometri e chilometri dei muri di contenimento rivieraschi per proteggersi da eventuali tsunami, sono stati sopravanzati e distrutti.

L’errore capitale è dovuto al fatto che la valutazione dell’altezza massima raggiungibile dalle onde anomale, si era basata sulle frequenze statistiche del passato. Anche le centrali nucleari sembravano sicure ed al sicuro. Ma così non è stato. La catastrofe ti colpisce personalmente (oggi t’insegue mediaticamente), all’improvviso. Il caso sembra trionfare. Studiandolo bene, però, ci si accorge di una serie di leggi sottostanti a questo o quel fenomeno.

Per capirne qualcosa di più Paul Virilio ha messo in campo intellettualmente, con una serie di saggi (molti dei quali tradotti in italiano) ed alcune mostre esplicative, una robusta architrave: il Museo dell’accidente.

Museo teorizzato nel saggio Le musée de l’accident (1986), riproposto poi nella raccolta Un paysage d’événements (1996) e “visualizzato”, ancora, nella Rassegna Ce qui arrive (2002-2003, alla parigina Fondation Cartier). Il tema, va detto per inciso, è stato approfondito ed ampliato con l’altra pubblicazione L’Université du désastre (2007). Circa la configurazione del museo, poi, in questa rassegna l’accident è stato declinato al plurale (Musée des acciddents): accidenti naturali, industriali, aerei, deragliamenti, inquinamenti, naufragi e, dulcis in fundo (si fa per dire), accidenti volontari come gli atti terroristici che stanno sconvolgendo qualsiasi tipo di convivenza civile in ogni parte del mondo.

Rifacendosi direttamente alle distinzioni aristoteliche tra accidente e sostanza (che qui non è il caso di riproporre) Virilio snocciola una serie di accidenti-incidenti legati allo sviluppo delle “protesi” tecnologiche, così che con l’invenzione della nave si è “creato” il naufragio; con la macchina a vapore, la catastrofe del deragliamento; con l’aviazione la catastrofe aerea e via di seguito. L’inizio della saggezza può ben cominciare mettendo a nudo la strettissima correlazione esistente tra accidente e sostanza, anziché dissimularla. Nel patrocinato anti-museo viriliano si dovrà: «exposer l’accident pour ne plus s’exposer à l’accident». Esporre fisicamente o virtualmente l’accidente-equivale ad esporre l’inverosimile, l’inabituale e pertanto l’inevitabile. Nell’anti-museo non c’è più spazio per esporre qualcosa, bensì solamente la cattiva coscienza di ciò che è scomparso o è destinato a scomparire (l’ “esthétique de la disparition”).

Nella rassegna Ce qui arrive, a suo tempo curata alla parigina Fondation Cartier, una serie di installazioni, filmati, colonne sonore, fotografie ecc. costituiscono una sorta di memento mori degli inevitabili ed inevitati crash (dai disastri atomico di Černobyl e terroristico delle Twin Towers di New York, alle devastazioni sismiche – San Francisco – e via dicendo).

Leggiamo insieme, su internet, alcuni passi delle “avvertenze” di Virilio: «L’accelerazione subita dalla velocità, implica l’accidente e la generalizzazione progressiva di eventi catastrofici che influenzano non solo la realtà del momento, ma causano ansia e angoscia per le future generazioni. Dall’incidente all’accidente, dalle catastrofi ai cataclismi, la vita quotidiana diventa un caleidoscopio. Davanti a questo stato di fatto, d’una temporalità accelerata, un’esigenza s’impone su tutte: quella di esporre l’accidente del tempo». Nelle due sezioni de La chute e la Quantità inconnue Virilio ha esposto “l’accidente del tempo” proposto da un team di artisti internazionali (una quindicina) con installazioni, video, film, fotografie, musiche ecc. la maggior parte delle quali rese possibili, e mi corre l’obbligo di rilevarlo, proprio dalla tanto deprecata evoluzione-involuzione informatica.

A titolo d’esempio possiamo notare come l’artista tedesco Wolfgang Staehle che vive e lavora a New York abbia ripreso casualmente in diretta l’attentato dell’11 settembre mentre una delle tre webcam con cui stava proiettando scorci urbani di New York sulle pareti di una galleria dal 6 settembre (e continuerà fino all’11 ottobre) è diventata inconsapevolmente il testimone on real time dell’immane tragedia. I sempre più frequenti e veementi accidenti-incidenti danno purtroppo ragione a Virilio. A conferma possiamo commentare il filmato di Andrei Ujica che nell’intervista alla giornalista russa Svetlana Alexievitch e allo stesso Virilio pone una serie di domande mentre scorrono le scabrose immagini delle vittime di «Černobyl che è la prefigurazione di un accidente globale che incorpora, ingoia l’avvenire del mondo».

Perché sino a qui si è sostenuto che Virilio è una non-smentibile Cassandra? Il cataclisma naturale-tecnologico di Fukushima ne è la cartina di tornasole. In questa immane tragedia, e lo si è sostenuto sin’ora, il Sublime si è eclissato. Per le vittime e per i sopravvissuti. Ma, soprattutto, per chi non potrà forse mai più innocentemente ammirare, anche se intimorito, la “potenza analogica” della Natura con la mediazione visuale della tecnologia.

Per contrastare efficacemente la perdita di senso d’un malvivere generalizzato, nonché per avversarlo esteticamente con un azzeramento radicale del quieto vivere instaurato dai tanti, troppi “post”, la ricerca artistica contemporanea dovrà dotarsi di un nuovo “Statuto ontologico dell’Avanguardia”. Ripartendo magari da alcune ulteriori sollecitazioni viriliane incontrabili in uno dei suoi più recenti libri: L’Université du désastre. In queste illuminanti pagine dopo aver ribadito come tutti i mali della tecnoscienza derivino da un’accelerazione senza limiti fisica (es. mezzi di trasporto) e microfisica (es. acceleratore di particelle) impressa al tempo con relativo annullamento dello spazio (ciò che era vicino è diventato lontano e viceversa) tant’è che può parlarsi di un tempospazio concentrazionario, mette ancora una volta in evidenza la nostra paranoia da catastrofe dovuta sempre a quelle invenzioni portatrici di sciagure su sciagure (inquinamento climatico, incidente nucleare, mutazioni genetiche, pandemie..). Da qui l’idea forte d’istituire un centro di ricerca mondiale sui disastri, che sia in grado di creare dei veri e propri anticorpi. Nella fattibile “Università del disastro” le presunte conquiste scientifiche e tecniche saranno “vivisezionate” per far emergere, anticipandoli e neutralizzandoli, gli inevitabili “accidenti della conoscenza” dovuti non già ad errori, bensì ad autentici successi nei settori delle biotecnologie e delle nanotecnologie.

Un solo augurio. L’auspicata Avanguardia torni ad esser calda o quanto meno tiepida. Inoltre sia capace di emozionare restituendoci almeno un pizzico della sublimità annichilita. Solo in tal modo, a nostro parere, l’innovativa “est-etica” avrà modo di ri/affermarsi. E, senza alcun rimpianto per le archeo-avanguardie storiche (da rispettare al massimo, anche se hanno fatto il loro tempo) o neo-neo, troppo spesso sfiorite, come le rose, ne “L’espace d’un matin”….

* Una parte del presente testo, opportunamente “ritoccata”, è stata pubblicata negli Atti del VII Convegno di “Tracker Art” (Termoli, 2011).