Intanto, davanti al procuratore Guariniello, si alternano i parenti delle vittime di tanti italici disastri, la Moby Prince, la torre nel porto di Genova, Casale Monferrato per l’amianto, l’Ilva di Taranto, L’Aquila e S. Giuliano di Puglia, per il terremoto

di Ilaria Carosi

L’odore del mare, ad un tratto, mi è entrato nelle narici, l’ho sentito distintamente, anche se non lo vedevo. Lo intuisci, il mare, non soltanto perché lo sai. Lo intuisci dalle caratteristiche di alcune persiane, dalle case basse e colorate, dalle biciclette, dai pantaloncini e dalle ciabatte, dal modo di vestire delle persone, quelle che hanno il costume “sotto”, il mollettone in testa e una giornata di spiaggia calcata sopra il viso, insieme agli occhiali da sole.

Quindi, so di averlo respirato, l’ho pensato, per dimenticarmene subito dopo.

Potrebbe essere successo appena scesa dal treno, in stazione, mi fermo a fotografare il cartello blu con la scritta impressa in bianco, quello che campeggia in tutte le stazioni ferroviarie d’Italia. Questa stazione è tristemente famosa, il cartello, solo a guardarlo, mi mette un brivido, malgrado il caldo appiccicoso di un’estate appena iniziata: Viareggio.

L’ho scattata di fretta e male, esattamente come, poi, mi renderò conto di aver fatto con tutti gli altri – pochi – scatti che ho quasi la percezione di aver rubato, seppur in un rispetto di facile intuizione per chi mi conosce. Anche, non solo per questo, di scattare fotografie ho smesso presto. O almeno, ho continuato a farne solo con gli occhi, che non si sono fermati un attimo, continuando a “scattare” istantanee. Una dopo l’altra.

Resto indietro, affretto il passo, uscendo dalla stazione intravedo un manifesto con la scritta “Viareggio non dimentica”. Poi, ci vengono a prendere. Mentre salgo in macchina, lo sguardo cade sul giubbotto catarifrangente adagiato sotto al lunotto posteriore, la scritta stavolta dice: “NO alla prescrizione”.

Intanto, sta transitando un altro treno, con il suo lungo fischio, un suono a metà tra un lamento straziante ed un urlo arrabbiato: “Fan così da ieri”, ci fa notare la nostra accompagnatrice, rispondendo ad una domanda che nessuno di noi le ha fatto ad alta voce. “Così” sarà per tutta la giornata.

In Comune siamo arrivati in ritardo, quando entriamo quello che sta parlando in piedi davanti al procuratore Raffaele Guariniello è l’amico Sergio Bianchi, rappresentante dell’Associazione Vittime Universitarie del Sisma. Sergio, papà di Nicola, studente fuori sede a L’Aquila, lo vedo una volta all’anno, alla “nostra” fiaccolata: il primo abbraccio è per lui. Sento il bisogno di una sigaretta, mentre lui mi chiede se mi sono accorta che, oggi, c’è anche Marinella, sua moglie. Anche loro sono arrivati in treno in giornata e se ve lo racconto è perché possiate cominciare ad incastrare i pezzi di questo puzzle gigante in cui il destino ci ha messi improvvisamente accanto, staccando a ognuno di noi dei pezzi che a meraviglia con noi si incastravano.

Reportage (a cura di Ilaria Carosi)

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Lasciandoci in cambio quegli spazi vuoti che ogni tanto cerchiamo di colmare avvicinandoci e avvicinando le nostre forme frastagliate: a tratti, ci convinciamo possano combaciare, è la stessa illusione che motiva i bambini che compongono un puzzle ad aumentare la pressione delle dita anche quando il tassello giusto non è quello, mio figlio lo fa spesso. Ci illudiamo per un attimo pure noi, nel tempo breve di quegli abbracci, ci illudiamo ben sapendo che i vuoti dei nostri pezzi frastagliati non combaceranno mai con i pieni che, vicendevolmente, ci offriamo. Possiamo spingere quanto ci pare, non funzionerà.

Un’altra boccata di fumo e salsedine e abbraccio Daniela di Viareggio, la mamma di Emanuela, uscita sul balcone, anche lei per fumare. Come è strana questa cosa, penso, respiriamo con un peso sullo sterno, eppure fumiamo tutti o, per lo meno, la gran parte di noi. Anche Gloria la mamma di Matteo, dopo un po’, esce per fumare. E Antonietta, la zia di Davide. E poi Loris, subito dopo averci parlato di sua sorella morta carbonizzata sul traghetto “Moby Prince”. E io me lo guardo, quest’uomo che non conoscevo, guardo le sue ciabatte, i calzoncini e la canottiera rossa con la scritta “verità e giustizia sul Moby Prince” e penso che proprio lui, quest’uomo, non potrebbe essere più simile a me, alcune delle parole che ha detto lui le avrei potute dire io. Perché è questo il dramma, ci diciamo e raccontiamo cose che solo noi possiamo veramente capire ma che vorremmo tanto far capire anche agli altri. È che questo paese ha la memoria corta. Intravedo sul balcone Antonio di S. Giuliano di Puglia, con la sua Morena incisa sopra ad una medaglietta, nei suoi eterni 6 anni.

Intanto, davanti al procuratore Guariniello, si alternano i parenti delle vittime di tanti italici disastri, la Moby Prince, la torre nel porto di Genova, Casale Monferrato per l’amianto, l’Ilva di Taranto, L’Aquila e S. Giuliano di Puglia, per il terremoto.

L’amaro che le sigarette lasciano in bocca, non riesce minimamente a coprire l’altro, quello del disgusto che proviamo. Comincio a sentirmi fuori posto. Succede regolarmente, immagino a me quanto agli altri. E questa sensazione che incarno continuando ad alternarmi tra l’interno della stanza e il balcone – a turno lo facevamo quasi tutti e non di certo solo per il caldo – viene sorretta e amplificata dalla ridondanza delle considerazioni e delle domande che sono poste al procuratore, in una sorta di interrogatorio a parti invertite che lo vede ascoltatore attento e silente.

Sono imbarazzanti certi silenzi. Cosa mai si può rispondere a chi chiede “Giustizia”, se non garantire il diritto stesso a riceverla? Come possiamo considerare equo l’artificio giuridico della “prescrizione”, in casi simili? Quanto ci si può sentire “a posto”, quando intuisci di vivere in un paese che preferisce risarcire le vittime, invece che investire sulla prevenzione e sulla sicurezza?

“Inventatevi qualcosa per Viareggio”, griderà solo qualche ora più tardi Daniela sul palco, a corteo appena concluso. Davanti a lei, oltre alla folla di chi ha voluto esserci, sono disposte ordinatamente 32 sedie bianche, sulle quali sono state adagiate altrettante magliette con i volti stampati delle vittime che sembrano guardarci. La sua “bimba”, Daniela la chiama sempre così, è morta a 21 anni, dopo aver resistito per 42 giorni bruciata al 98%. “Può succedere in qualunque momento”, questo le fu detto quando a notte fonda arrivò al “Grandi Ustionati” dell’ospedale di Pisa. Le dissero di averla addormentata, le dissero di averla “pulita”. Uno dei due medici di fronte a lei piangeva. Non lo puoi omettere il lato umano di queste vicende, non puoi. Perché siamo carne e sangue tutti. E naso, occhi, orecchie, bocca, pelle, nell’amplificata esaltazione di sensi che in questo luogo mi sta accompagnando.

Non te lo puoi dimenticare, il lato umano, quando senti un genitore ripetere “la mia vita è finita”, “vivo solo per avere giustizia”. Si badi bene, giustizia, non un risarcimento; giustizia come accertamento della verità e delle responsabilità, questo si cerca.

E questo, paradossalmente, diventa uno dei più forti legami con la vita. Per alcuni, l’unico scopo.

Intanto, passa un altro treno, con il suo grido di rabbia e dolore. “Sono i ferrovieri che piacciono a noi”, dirà Daniela, quelli che denunciano, con quel fischio, soprattutto l’assenza di adeguate norme di sicurezza.

È diverso il corteo viareggino dal nostro, è diverso e tanto. Non ci sono fiaccole nel buio, è estate, è giorno, perfino. Ci sono persone che sfilano con striscioni che tagliano come un coltello una città viva e ricca di contraddizioni, in questa giornata qua. Ci sono bambini curiosi che chiedono ai padri chi o cosa siamo, ci sono luci nelle vetrine e turisti che parlano a voce alta al cellulare oppure passano in bicicletta tagliando in due – questa volta loro – il corteo. Ci sono soprattutto turisti, a cena sul lungomare. E proprio mentre transito accanto a sfarzosi ristoranti, con la foto di mia sorella attaccata al collo perché mia madre mi ha chiesto di farlo, mi viene spontaneo cercare i suoi grandi occhi abbassando i miei, quasi cercassi in essi un conforto. È in quel momento che stringo ancora più forte lo striscione che sto portando insieme ad Antonietta, Vincenzo e agli alpini di Viareggio che tanto caotico affetto ci hanno dimostrato. E non so più se lo porto oppure mi ci sorreggo, a quei 309 nomi, trascritti in rosso, il colore della rabbia e del sangue. Me lo chiedo, qualche volta, chi sorregga chi.

E poi… poi mi soffermo a guardare un uomo, anche lui ha qualcosa appeso al collo, un bavaglino di carta, di quelli che danno per i brodetti di pesce. E anche lui ha la testa bassa, in quel momento, intento com’è a succhiare la polpa del crostaceo che tiene tra le dita. Tra me e lui soltanto un vetro di plexiglass, vorrei alzasse quello sguardo, vorrei che s’accorgesse di noi… se lo facesse, forse capirei… ma non lo fa, continuo a guardarlo io, quasi fosse un pesce dentro ad un acquario ma non so più chi stia veramente nell’acquario e chi fuori. È come se guardassi contemporaneamente da fuori e da “dentro”. Sospesa tra i vivi e i non ancora morti. Guardo di nuovo Claudia, mi viene pure un po’ da ridere perché c’è un che di grottesco, in tutta la scena. Poi sale una grande angoscia, repentina, improvvisa, tristemente familiare.

Lasciate le luci del lungomare, alla ferrovia si torna, accarezzando con lo sguardo quella che appare come una qualsiasi periferia nazionale, le case semplici, modeste e piene di cura, i gerani e i vecchietti alle finestre, i tricolori alle ringhiere per la nazionale. Alcuni sono stati listati a lutto, con un piccolo fiocchetto nero annodato al centro: segno di una pietas che resiste, insieme a qualche lumino acceso qua e là.

Arriviamo in un grande slargo, un palco, i treni che fischiano, persone che piangono alla proiezione del cortometraggio di 12 minuti che ha ricevuto premi a Cannes e a New York. Poi, la lettura dei nomi. Nome cognome età data della morte. Che non per tutti coincide con il 29 giugno. L’ultima vittima ha lottato fino al mese di dicembre, chissà quante luci nelle vetrine c’erano, a Natale del 2009, a Viareggio.

Partiamo che è notte fonda, non ce lo diciamo chiaramente ma vogliamo andare. Decidiamo all’improvviso, “preferendo” il sedile di un bus al comodo letto che gli albergatori viareggini ci avevano messo a disposizione gratuitamente.

Non andiamo via per ingratitudine, l’ho già detto, siamo sempre un po’ “fuori posto”. Ovunque. Da un lato o dall’altro del pannello di plexiglass, dentro e fuori dall’acquario, non completamente vivi, non ancora morti. Sospesi. Chi più, chi meno.

Il bus parte lento nella notte, un’altra di quelle sempre un po’ troppo lunghe, per “noi”.

Siamo ormai lontani quando, all’improvviso, mi rendo conto di aver dimenticato di andare a vedere il mare.

Viareggio, 29 giugno 2016