Tutto il lavoro laboratoriale che abbiamo svolto negli ultimi venti anni in Italia e all’estero, persegue l’obiettivo di facilitare la comunicazione e la comprensione come base per la promozione della salvaguardia dei diritti umani, della giustizia, dell’uguaglianza e della libertà, beni comuni irrinunciabili per una vita dignitosa

di Cam Lecce e Jörg Christoph Grünert

Janana Summer Encounter, Broumana, Libano, settembre 2006

Osama aveva 17 anni ed era seduto di fronte a noi, nel circle time che Moataz[i] aveva organizzato, mentre raccontava, con lo sguardo perso nel vuoto, dei suoi compagni saltati in aria nell’ambulanza della protezione civile durante la guerra appena conclusa. Lui insieme ad altri volontari, amici suoi, su due ambulanze erano andati a soccorrere dei feriti dopo un bombardamento dell’aviazione israeliana nel sud del Libano; appena dopo aver caricato i feriti, mentre si accingevano a ripartire, l’ambulanza accanto alla sua fu colpita da un missile e uccise i suoi amici. Il cerchio, il circle time, era stato predisposto affinché chiunque potesse raccontare la propria esperienza durante la guerra[ii]. Il modo di raccontare di Osama ci aveva molto colpito perché si evinceva uno stato di grande shock, e nonostante Moataz insistesse nel chiedergli di esprimere i suoi stati d’animo, lui non riusciva a raccontarsi e ripeteva solo l’accaduto. Una tristezza indicibile pian piano cadde su di noi e un nodo chiuse la nostra gola, sconquassando la nostra emotività.

La guerra era finita da 15 giorni, e il Centro Al Jana/Arcpa di Beirut[iii], nonostante le difficoltà, in extremis e nell’urgenza era riuscito ad organizzare il Janana Summer Encounter, convinto della necessità di non saltare l’appuntamento annuale del meeting internazionale di promozione, scambi, aggiornamento e formazione sui linguaggi artistici, multimediali, olistici e socio-culturali per operatori che lavorano nei campi profughi palestinesi e nelle aree svantaggiate ed emarginate della regione.

Così aveva chiesto a noi operatori internazionali di essere presenti a Broumana per attivare il campus residenziale al quale partecipavano circa 150 persone.

Il mattino seguente Osama era tra i partecipanti al nostro workshop sulla tecnica di costruzione, manipolazione e drammatizzazione dei burattini. Osama con dedizione e solerzia iniziò a costruire il suo personaggio-burattino, un soldato israeliano, ci disse. Mentre lavorava era ombrato, taciturno, distante, atomizzato, ma si applicava con ardore, costruiva il suo burattino con dovizia di particolari, chiedeva ed imparava a realizzare con precisione i tratti somatici per imprimere l’espressione al volto, tagliava la stoffa e cuciva il buratto, il costume del burattino, usava ago e filo con disinvoltura, sceglieva la lana per fare i capelli, ritagliava le sagome delle mani da un cartoncino, fino al giorno in cui il suo burattino doveva essere animato per dare vita al personaggio nella storia inventata collettivamente. Osama doveva diventare il soldato israeliano. Ci guardò incredulo ed ebbe una istintiva reazione di rifiuto, netta e decisa: non poteva diventare, neanche per finta, colui che rappresentava il male assoluto.

Non chiedevamo di fingere di essere, ma di diventare, di passare attraverso l’essere altro da sé rimanendo se stesso: il burattino è sempre un favoloso “artista” pronto ad assorbire qualsiasi proiezione senza ferire ed esporre il proprio “demiurgo”. Per un attimo tememmo che volesse abbandonare il workshop, ma poi per la prossemica e l’ascolto attivo, aspetti fondamentali di un workshop creativo per la “grammatica” di empatia profusa e creatasi nel gruppo, Osama, fiducioso, si lasciò andare. Animò il suo terrificante personaggio nei gesti, con la voce, con le azioni. Un fragore di applausi salutò la sua esibizione… Esausto, madido di sudore, terreo in volto chiese di andare a dormire. Dormì tutto il pomeriggio, la notte e il giorno seguente. Per la prima volta dopo tanti giorni di lavoro insieme, Osama venne da noi, fra amici.

Intanto Jörg aveva preparato grandi fogli di carta, colori a tempera, pennelli e li aveva sistemati nella stanza accanto al laboratorio. Osama per un intero giorno rimase in quella stanza dipingendo su quei fogli con gesto spontaneo e liberatorio. Andò via prima del previsto, prima della fine del laboratorio, timidamente ci ringraziò e ci salutò con un sorriso, finalmente vero.

Dopo il workshop del Janana Summer Encounter concordammo con il Centro Al-Jana (avevano chiesto a tutti i trainers internazionali presenti di dare disponibilità a spostarsi nelle zone di emergenza) di trasferirci nel campo profughi palestinese di Rashidiye, a sud del Libano, vicino al confine con Israele per un workshop con i bambini del Centro Al Quds Youth. Così per alcuni giorni abitammo in quel campo riscontrando, con inevitabile sgomento come quei bambini fossero segnati dalla estrema povertà e dal trauma subito nei giorni della guerra. Solo quando iniziammo le attività manipolative la loro compulsività si placò un po’. Disegnavano i personaggi e poi costruivano i burattini: mettevano i capelli o la proboscide, cucivano a mano il buratto e i loro personaggi prendevano forma. L’attività manuale, come una magia, riusciva a donare loro momenti di tregua e calma. E in un clima più disteso la loro felicità era immensa.

Urgente era la necessità di insistere sullo scarto di riconoscibilità, “l’invisibile”, significante “del laboratorio creativo” in quanto esso non produceva grandi opere o spettacoli. L’urgenza era quella di partecipare e affermare ciò che accadeva durante lo svolgimento di queste pratiche vissute contemporaneamente da noi trainers e dai partecipanti in Libano e non solo, in quanto la nostra attività si esplica anche qui in Italia con un intenso lavoro di prevenzione primaria e formazione in ambito socio-educativo attraverso mezzi e metodi del teatro, dell’arte e dei nuovi linguaggi multimediali nelle scuole di ogni ordine e grado, all’università e in differenti luoghi ed ambiti. Abbiamo voluto cominciare da un esempio per tentare una riflessione sull’orizzonte del nostro “fare” laboratorio. Gli esempi e le descrizioni posseggono il valore della concretezza. Possono fungere anche da paradigmi, ma possono anche togliere l’attenzione dalla temperie della questione, indirizzare lo sguardo su presupposizioni di entità differenti.

L’esempio di Osama e dei bambini di Rashidije descrive quanto sia possibile, con un laboratorio, attivare le capacità resilienti[iv] delle persone e delle collettività sottoposte a grandi traumi e stress derivanti da contesti quotidiani multiproblematici, da guerre, catastrofi naturali etc. Ciò è anche “misurabile” attraverso i monitoraggi e le relazioni che in ambito sociale parlano di questo.

Pensiamo che la dimensione del “laboratorio” scavi e prospetti anche oltre, al di là degli effetti terapeutici in senso lato del “laboratorio”, che non può e non intende minimamente sostituirsi a forme, o intendersi come surrogato, di (psico)-terapia. C’è semplicemente da raccontare una storia.

L’incontro con il Centro Al-Jana/Arcpa di Beirut [v]

La nostra storia artistica e di solidarietà con i profughi palestinesi in Libano inizia nel 2002, quando il compositore Piotr Lachert, in veste di direttore artistico del festival di musica contemporanea “Kamerton”, chiese a Jörg di presentare un environment in cui fosse visibile la sua ricerca con le sculture sonanti.

Così nacque “SON…ora”[vi], spettacolo-performance [di Jörg Grünert con Cam Lecce (attrice), Paola Caranchini (danzatrice), Michelangelo Del Conte (musicista), Carmine Ianieri (musicista) e Jörg Grünert (performer)], il cui testo drammaturgico liberamente ispirato alla testimonianza di Jean Genet “Quattro ore a Shatila”, racconta il massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila a Beirut nel 1982. Ci fu immediatamente chiaro, entrando nella materia del massacro di Sabra e Shatila e della questione dei profughi palestinesi, che si dovesse anche organizzare un progetto artistico-pedagogico di divulgazione e solidarietà, sia per approfondire la drammaturgia (esigenza dell’arte in sé), sia per il peso di diventare testimoni di una situazione che è ancora viva. Tuttora irrisolta è la questione dei profughi palestinesi, con il colonialismo, l’apartheid e il genocidio strisciante israeliano-sionista nei loro confronti. Tutto ciò getta una pesante ombra sui diritti umani, il diritto internazionale, nonché sulle responsabilità storiche e odierne della politica, ma anche della società civile mondiale per le conseguenze disumane dei palestinesi, la dignità e il vivere di chiunque. Accogliendo Jean Genet dovevamo raccogliere il filo della sua testimonianza e continuare. Coincidenza volle che, sempre nell’autunno del 2002, invitati a seguire le giornate del festival Feux-lieux, presso il Théatre du Radeau a Le Mans, Francia, ci trovammo a partecipare ad una interessante sezione di “atelier di parole” dedicata alla questione israelo-palestinese. Il fatto singolare era che a discuterne fossero registi, artisti, attori, scrittori, filosofi, intellettuali, insieme con il pubblico presente. Subito dopo fu inevitabile e fondamentale metterci in contatto con Stefano Chiarini, giornalista ed esperto di Medioriente e della questione palestinese.

“SON…ora”, performance di Cam Lecce e Jörg Christoph Grünert

Questo slideshow richiede JavaScript.

Finalmente nel 2004 nasce il progetto “La Linea di Pace” rivolto soprattutto ai giovani. Il progetto coinvolge le scuole secondarie tra le Provincie di Pescara e Teramo e le università di Chieti, Pescara e Teramo. Per la prima edizione era prevista la presenza della regista Mai Masri[vii], ma all’ultimo momento non riuscì a raggiungerci e in sua sostituzione ci propose di ospitare Moataz Dajani. Moataz accettò di buon grado anche perché aveva piacere di presentare in anteprima nella nostra regione e in Italia il libro “Vorrei Essere un Uccello”, libro fotografico realizzato con le foto scattate da circa 30 bambini tra i 9 e i 14 anni dei campi profughi palestinesi di Shatila e Bourj Al-Barajneh di Beirut.

Il libro era il compimento di un progetto triennale che prevedeva un percorso di apprendimento attivo e di prevenzione al disagio sociale. Il progetto dava la possibilità ai partecipanti di fare una ricerca storica e culturale sulle loro comunità, riflettere sulle loro vite ed esprimere le loro preoccupazioni, speranze e desideri da un punto di vista speciale: quello dei foto-video-reporters e giornalisti. Per l’occasione Moataz espose anche le foto che illustravano il libro e due video-documentari girati sempre dai bambini e dai ragazzi all’interno del progetto. Materiali narrativi molto intensi.

Questa circostanza ha fatto sì che approfondissimo con Moataz una conoscenza reciproca scoprendo una forte convergenza etica sul senso della ricerca artistica in relazione diretta con il sociale. Su invito di Moataz abbiamo iniziato i pluriennali viaggi di scambio e di formazione delle pratiche artistiche e pedagogiche in Libano. Il Centro Al Jana si avvale della presenza e del contributo continuo di operatori provenienti da diverse parti del mondo e promuove attività di apprendimento attivo e di formazione in riferimento al pensiero dell’educatore brasiliano Paolo Freire[viii] che individua la pedagogia come processo di auto-emancipazione. Le attività comprendono tutti i linguaggi artistici e si realizzano attraverso laboratori, rassegne, festivals, incontri, etc. Il Centro è in network con molte organizzazioni locali e internazionali, biblioteche e collabora con molte Municipalità sul territorio libanese.

Le attività sono preziosi percorsi di prevenzione al disagio sociale, per facilitare la comunicazione, la gestione del conflitto, il problem solving, la community building. Mirano a tenere viva la memoria storica e a salvaguardare, principalmente per le nuove generazioni, l’identità culturale di appartenenza, a diffondere la cultura del popolo palestinese. Pertanto, risultano essere di grande conforto per gli anziani, per dare senso e significato a esistenze quotidiane che si distinguono, oltre che per precarietà e disoccupazione, per l’assenza di diritti civili e legali, l’insufficienza di servizi sanitari ed educativi, per emarginazione e una grande sindrome di ospedalizzazione.

Janana Summer Encounter (2004-2011) [ix]

Tra il 2004 e il 2011 abbiamo partecipato come trainers di pedagogia teatrale ed artistica a questo campus internazionale di promozione, scambi, formazione e aggiornamento sui linguaggi artistici, olistici e socio-culturali rivolto a giovani operatori, educatori, insegnanti, artisti e studenti appartenenti alle diverse organizzazioni e associazioni palestinesi e libanesi ed anche a singoli partecipanti in network con il Centro Al-Jana.

Ogni anno circa 120-150 persone per 7-10 giorni partecipano al meeting e tra questi circa 15 sono i formatori/trainers provenienti da diversi paesi e continenti del mondo. La strutturazione delle attività prevede la prima giornata dedicata ai saluti di benvenuto, alla conoscenza e presentazione dei workshop e alla scelta degli stessi da parte dei partecipanti con festa serale; poi, nei giorni successivi, ogni mattino ci si incontra tutti nella Meeting Room dove si svolge la “mela”, l’assemblea plenaria nella quale si condividono questioni, argomenti, giochi che i partecipanti, i trainers e l’organizzazione propongono. Successivamente iniziano le sessioni dei workshop del mattino; quindi si pranza insieme e dopo si avviano le sessioni pomeridiane degli incontri di approfondimento con presentazioni e dibattiti. A seguire si dà il via alle sessioni pomeridiane dei workshop, e, dopo la pausa cena, ci sono in programma eventi artistici con concerti, proiezioni di film etc., per arrivare infine all’ultimo giorno del meeting dedicato alla presentazione delle attività svolte nei laboratori.

Ogni anno il Janana Summer Encounter sceglie un tema intorno al quale vengono progettate le attività dei workshop per rispondere alle richieste e alle necessità che emergono nelle riunioni mensili effettuate tra le associazioni in network con il Centro Al-Jana, per cui anche noi abbiamo sempre progettato workshop che rispondessero alle tematiche indicate.

Hanno partecipato ai nostri laboratori gruppi misti per genere e componenti religiose oltre che palestinesi e libanesi; spesso anche partecipanti provenienti da diverse altre nazioni. Negli anni abbiamo ricevuto moltissimi feedback da parte dei partecipanti che hanno riutilizzato nei loro posti di lavoro, nei loro iter formativi e professionali i nostri saperi.

I laboratori “Giochiamo a diventare” (2004) e “Il libro vivente” (2008 e 2009) propongono un processo esperienziale dedicato a bambini di età evolutiva tra i 5 e 10 anni per esplorare le temperie emotive dei quattro elementi archetipici, la coordinazione psico-motoria, l’uso extra-quotidiano del corpo; per sperimentare riformulazioni grafiche, segniche e testuali dei sentimenti e delle emozioni; per inventare fiabe da drammatizzare e narrare con il linguaggio del corpo, e, nel “Libro Vivente”, per imparare come raccogliere tutto questo materiale per illustrare e scrivere libri auto-prodotti. Osserviamo che tra i partecipanti c’è grande emozione e fierezza a mano a mano che aumenta la comprensione di ciò che stanno compiendo. A conclusione delle giornate di formazione nella Meeting Room il nostro gruppo di allievi presenta il lavoro realizzato, riscontrando un notevole plauso.

Il laboratorio “Il Corpo e La Maschera” (2005 e 2010): ovvero la maschera quale mezzo espressivo ancestrale. Il disvelarsi, coprendo il volto con la maschera, è rivolto agli adolescenti, ai giovani e agli adulti ed ha come focus il linguaggio corporeo. È un processo espressivo che facilita la scoperta del corpo come strumento di comunicazione e di relazione, di riappropriazione della sensibilità emotiva e sentimentale. Rompendo così le barriere invisibili e le corazze del corpo irreggimentato dalle convenzioni sociali. Il laboratorio promuove anche lo sviluppo della manualità e della strumentalità, la scoperta e la valenza dei linguaggi non verbali nel significato che assumono nella vita quotidiana.

È stato interessante scoprire che la maschera è assente nella cultura mediorientale odierna, sia come mascheramento, sia come mezzo espressivo. La maschera come mezzo espressivo non consente il gesto quotidiano, ha una sua “grammatica”, una mimesica del tutto particolare che confronta il performer con la sua propriocezione, con il proprio sé corporeo e psicotonico in modo spontaneo e ineluttabile. È stato commovente osservare i partecipanti superare qualsiasi tabù o convenzione sociale durante il workshop. Specialmente durante le improvvisazioni teatrali che richiedevano spontaneamente un contatto tra femmine e maschi non consentito nella cultura musulmana, e di come abbiano mantenuto questa libertà nello spazio estetico protetto del palcoscenico presentando la drammatizzazione intimamente legata alla loro condizione esistenziale e culturale.

Il laboratorio “La tecnica della costruzione dei burattini e la loro manipolazione” (2006 e 2011): il burattino costruito con materiale riciclato è un altro percorso di promozione dello sviluppo delle intelligenze multiple e della dimensione socializzante. Sostiene l’espressione dei sentimenti e dei pensieri dei bambini i quali trasferiscono nel personaggio-burattino i loro vissuti quotidiani. Vissuti che spesso, invece, restano inespressi producendo ansia e timori e che riescono a trovare voce attraverso il transfert psicomotorio e transizionale nel burattino. Permettendo così all’orizzonte creativo dei partecipanti di intervenire per trovare soluzioni e/o dare stimoli per superare paure, traumi e problemi.

Inoltre il laboratorio sostiene lo sviluppo della lingua e della scolarizzazione facendo scoprire come le regole della grammatica siano necessarie per creare le narrazioni delle storie dei burattini facendo sperimentare come esse si trasformino, nel linguaggio dei burattini, in dialoghi e azioni sceniche. E ancora, lavorare con materiali riciclati, oltre ad avere il vantaggio di poterli reperire ovunque, sensibilizza alla problematica ambientale donando una nuova vita ai materiali inerti che nel processo creativo diventano personaggi espressivi.

Il laboratorio “Ti ricordi di Gurdulù: mezzi e tecniche di teatro di strada” (2007) lo abbiamo progettato su richiesta del Centro Al-Jana per andare incontro alla loro necessità di promuovere iniziative di teatro di strada al fine di facilitare l’incontro su temi importanti con le comunità che sono tendenzialmente escluse dalle programmazioni culturali. Durante il laboratorio i partecipanti hanno sperimentato modalità attoriali e di narrazione, per apprendere come rappresentare fiabe e storie, soprattutto per l’infanzia. Si sono misurati con gli stilemi del teatro di strada ricercando nella mimesica e nella gestualità la caratterizzazione dei personaggi.

Non è stato facile per chi non ha la tradizione della Commedia dell’Arte tirare fuori da sé aspetti grotteschi e buffoneschi da tradurre poi in sentimenti, emozioni e in azioni sceniche simboliche. Una circostanza straordinaria si è realizzata durante questo workshop: un’esperienza di cui siamo molto fieri in quanto siamo riusciti a far confluire in un unico percorso drammatizzato due attività laboratoriali distinte. Coronando in tal modo un desiderio che insieme alla musico-terapeuta di Birmingham Nancy Evans (anche lei presente al Janana Summer Encounter, da anni collaboratrice del Centro Al-Jana), inseguivamo da tempo. Siamo restati più che soddisfatti della spettacolarizzazione itinerante di strada che ha visto protagonisti i giovani musicisti del workshop di Nancy e i giovani attori del nostro workshop narrare insieme la storia dal titolo “Il Governatore e il Saggio” negli spazi aperti dell’High School di Broumana, attraversando alberi, cornicioni, aiuole, strade, finestre. Per di più con persone plaudenti.

Janana Spring Festival – Festival del Teatro di Strada Itinerante (2007-2009) [x]

Primavera, la settimana della Pasqua ortodossa, 2007. Il tempo che passa vedendo andar via le maschere e i personaggi festosi. L’ultima immagine che abbiamo del campo profughi di El-Qassmyeh, a sud del Libano, è quella di una bambina che ci guarda andar via ciondolandosi e strusciando la bocca sul bordo arrugginito di un cassonetto dell’immondizia, con quel fare innocente e universale dei bambini che amano avere in bocca qualcosa da succhiare. Poco prima, mentre ritiravamo i costumi, i trampoli e le maschere, un bambino ci aveva chiesto di essere caricato nel bagagliaio per venire via con noi, così come ce lo avevano chiesto altri nel campo profughi di Mar Elias a Beirut e a Tripoli. Non scorderemo mai i bambini delle associazioni Scouts dei campi profughi di Beddawi e di Naher El Bared, così disponibili a farsi guidare ad occhi chiusi in una onda di mani nelle mani che si lasciava trasportare lungo i sentieri chiassosi del piccolo parco, di fronte al porto vicino all’ingresso della città vecchia. Seduti sull’autobus, che si accingeva a ripartire dal campo di El-Qassmyeh, guardavamo i bambini ancora eccitati, sbalorditi e storditi dalla nostra presenza, persi tra gli echi del fragore portato arrivando allegri e chiassosi e ora quasi confusi nel vederci andar via abbandonati al niente delle loro esistenze in questo minuscolo campo che neppure risulta tra i 12 ufficialmente registrati dall’Unwra in Libano.

Spring Festival 2007-2009 (Workshop – Spettacolo – Parata)

Questo slideshow richiede JavaScript.

Abbiamo partecipato al “Janana Spring Festival” per 3 anni. Il Centro Al-Jana si è avvalso della nostra esperienza di teatranti e di animatori di strada per implementare laboratori dedicati al festival all’interno del quale abbiamo partecipato anche in prima persona alle grandi parate itineranti momenti clou del festival con i nostri trampoli e le maschere.

Il laboratorio “Tecniche di teatro di strada e tecniche di teatro immagine”, realizzato nei campi profughi palestinesi di Mar Elias (Beirut) e Beddawi (Tripoli) nel 2007, è stato un primo passo nella promozione del teatro di strada tra gli operatori socio-culturali dei campi.

Nel 2008 il Centro Al-Jana ci ha chiesto di progettare un laboratorio di teatro di strada che affrontasse la problematica della gestione creativa dei conflitti. Così abbiamo ideato il laboratorio “Tecniche di teatro di strada e conflict resolution” che si è svolto presso l’Unesco Palace di Beirut. Dalle attività è nata la fiaba di strada “La Figlia del Re” presentata nelle tappe del festival. Coniugando alcune tecniche del racconto con metodologie teatrali di strada, la fiaba narrava il conflitto di genere e intergenerazionale di una principessa e del re suo padre che non voleva una donna come ‘successora’ al trono. Giungeva a lieto fine grazie agli interventi dei bambini che in interazione con gli attori dovevano risolvere degli indovinelli.

Nel 2009 abbiamo realizzato il laboratorio “Costruzione di grandi burattini di strada, e drammatizzazione della fiaba palestinese: Il gatto e il latte”, attività svolta nel campo profughi di Mar Elias a Beirut. Il laboratorio è stato interamente dedicato alla produzione di uno spettacolo per il festival. Essendo focalizzato su tecniche differenti “artigianali”, i partecipanti hanno prodotto grandi pupazzi di strada indossabili, di grande effetto scenografico. Hanno sperimentato la difficoltà di rappresentazione della fiaba, a causa del controllo delle battute e della gestione coreografica e vocale dello spettacolo. Gli applausi però hanno compensato qualunque sforzo.

Jörg Christoph Grünert – Opere

Questo slideshow richiede JavaScript.

Collaborazioni altre con il Centro Al-Jana

Nel 2009 oltre a partecipare al “Janana Summer Encounter” e al “ Janana Spring Festival” con i bambini che frequentavano le attività del programma “Friday Art Club” presso il Centro Al Jana a Beirut, abbiamo realizzato il workshop “Giocare con l’arte: l’autoritratto”, attività espressiva dedicata alla scoperta auto-percettiva e alla dinamica psico-motoria del dipingere e del disegnare esplorando un percorso autobiografico (2009).

Nel 2013 abbiamo partecipato al progetto “Community Public Art” per la realizzazione di un Murales all’interno del Memoriale del campo profughi palestinese di Bourji el Shamali a Tiro, monumento che ricorda il massacro avvenuto durante l’invasione israeliana del 1982.

Sempre nel 2013 abbiamo presentato la drammaturgia “SON…ora” presso lo spazio d’arte Zico House a Beirut in occasione del 31° anniversario del massacro di Sabra e Shatila, evento organizzato dal Centro Al Jana/Arcpa in collaborazione con il Comitato Internazionale Per Non Dimenticare Sabra e Shatila.

Durante la manifestazione è stata proiettata la performance integrale con una voce fuori campo che raccontava l’evoluzione dallo spazio scenico all’impegno solidale internazionale, oltre a presentare dal vivo una sintesi della stessa performance con la collaborazione in scena dell’attore/musicista Tarek Bashashe. Diversi spettatori del campo profughi di Shatila hanno chiesto la parola per ringraziare delle emozioni vissute. Tra questi vi erano anche testimoni oculari del massacro.

Nel corso degli anni numerosi sono stati gli incontri e gli scambi con altri artisti in Libano che ci hanno regalato una grande esperienza di conoscenza culturale e di solidarietà.

Grazie al Centro Al Jana abbiamo conosciuto la sociologa Mona Abboud, membro e consulente dei monitoraggi di molte loro attività. La dottoressa Abboud è responsabile della biblioteca e project-manager al Liceo Franco-Libanese Verdun di Beirut. Nel 2013 e nel 2014 siamo stati invitati, tramite lei, per tenere brevi seminari dal titolo “Il Corpo e la Maschera” rivolti agli studenti che seguono le attività di teatro a scuola. Nel 2014 abbiamo realizzato in sua collaborazione presso la biblioteca di Ankoun il laboratorio “Animazione di un racconto con il linguaggio del corpo e costruzione del libro che lo illustra” rivolto ai bambini e ragazzi che frequentano la biblioteca.

Una prima prospettiva del laboratorio come scambio culturale internazionale [xi]

Beirut e il Libano sono una voragine emotiva che ti porti addosso e che cammina dentro te con le eco del traffico, i rumori, gli odori, i sapori, il caos nelle strade, l’apparire improvviso di case e palazzi stile liberty o di antica costruzione, che subito scompaiono dietro edifici di cemento che come ragni circondano ed occupano gli spazi delle città e del paesaggio che, inconfondibilmente mediterraneo, somiglia tanto all’Abruzzo: mare, colline, alta montagna con i suoi altopiani.

Il Libano apparentemente diviso secondo appartenenze religiose è in realtà preda di patteggiamenti e giochi di potere. In questi anni di soste in Libano ci siamo innamorati di tutti quelli che abbiamo incontrato: dallo staff di Al-Jana alle persone che abbiamo conosciuto attraverso loro; dai partecipanti ai workshop ai loro amici e parenti. A questa positiva atmosfera hanno fatto da contrappunto i miseri, intricati, sporchi, abbandonati campi profughi palestinesi: popolati da donne, vecchi, bambini, giovani ed adulti. Ogni volta ci siamo e ci sentiamo profondamente impotenti di fronte alle macerie dove, nonostante il poco disponibile per vivere, le comunità cercano di tenere alto il profilo della dignità e del decoro tra case che spesso non bastano per tutti, fili elettrici volanti, tubature fatiscenti, fogne sversate lungo le strade, insalubrità generale. Resta l’immensa e per niente scontata ospitalità di questi profughi. Restano i volti dei bambini sorridenti, unica possibilità per richiedere con forza la salvaguardia della dignità e il rispetto dei diritti umani: questi volti e questi sorrisi ci chiedono di continuare, alla stregua di come perseverano loro con la lotta politico-culturale intrapresa per la sopravvivenza[xii].

Le domande da porre e porsi sono: perché il “laboratorio creativo” è una necessità artistico-culturale e contemporaneamente un’esigenza indispensabile per una comunità che vive in uno stato di emergenza continua, di miseria, degrado, traumi di guerra, senza diritti né futuro in cui i bambini fin da piccoli si auto-consapevolizzano sentendosi spacciati? Perché sia noi che Moataz Dajani e Al-Jana pensiamo che le attività artistiche siano fondamentali in questi contesti di esilio, di totale emarginazione e guerra? Perché il pensiero comune occidentale in situazioni del genere reagisce con il senso dell’aiuto materiale e di assistenza (pur necessario ma non sufficiente), percependo il sapere immateriale come accessorio?

La consapevolezza di chi è nato e sa di essere in una situazione drammatica da generazioni senza vie di uscita (quando sarà risolta la questione palestinese rispettando i loro diritti e la loro dignità?), con l’imperativo della resistenza a tutti i costi al fine di mantenere una comunità integra salvaguardando memoria storica e senso etico d’una intera popolazione , pone anche altre questioni. Per questo il lavoro sociale, culturale e, in modo particolare il lavoro artistico, diventano determinanti. Come affrontare un’esistenza continuamente oscillante tra disperazione esistenziale e speranza necessaria? Ed è questo il punto decisivo: il lavoro su se stessi, praticando la cultura con se stessi, è la dinamica privilegiata per innescare nell’individuo la propria tendenza emancipatoria. Resilienza e capacità ad utilizzare le proprie abilità e facoltà intellettive, corporee, comunicative, sono i termini di questo contesto.

La nostra esperienza nei workshop con i giovani palestinesi e libanesi sottolinea la dimensione del sé e dell’ “ecologia mentale” (Bateson) o “ecologia dell’uomo[xiii]” (Grotowski), l’importanza della visione. Per questo abbiamo scelto, per le occasioni in cui ci viene chiesto, di relazionarci con una potente metafora visiva: la “Zattera della Medusa” di Théodore Géricault. Siamo tutti come quei naufraghi i quali vivono un processo partecipativo che permette al singolo, insieme agli altri, di navigare nelle avversità e nelle tragedie continue con piena consapevolezza e fierezza: sapendo di essere esuli comunque.

Così diventa più chiaro per quali ragioni il “laboratorio creativo” (essendo “arte”) porti dritto dritto alla sfera del sociale nel ri-creare e nel garantire i “beni relazionali[xiv]” i quali, nello “spazio estetico”, danno vita ad un luogo specifico con abitanti specifici in un tempo protetto di auto-formazione. Questi abitanti sono artisti/attori e spettatori di se stessi, autori di una visione, di una idea di sociale che prende forma in una processualità artistica che Joseph Beuys ha definito “scultura sociale” rielaborando termini come “arte” e “creatività” nel loro senso antropologico ed emancipatorio nel continuo divenire di una “società ecologica”.

Vogliamo anche sottolineare l’aspetto personale, umano, diretto, relazionale che dispiega la reciprocità dello scambio libero ed aperto. Il tesoro che abbiamo ricevuto in questi lunghi anni di cooperazione con il Centro Al-Jana e i partecipanti ai workshops, è veramente grande: aver potuto offrire i nostri saperi artistici e il feedback vissuto, esperire una possibilità concreta di solidarietà, il dono di appartenenza e di amicizia, e, infine, anche l’opportunità di aver scoperto aspetti e dettagli sul nostro stesso lavoro divenuti importanti e preziosi.

La Cooperazione Italiana / Ministero degli Affari Esteri d’Italia/Utl di Beirut

Negli anni di lavoro e permanenza nel Libano abbiamo preso contatto con la Cooperazione Italiana. Nel 2009 abbiamo realizzato il workshop “Ifigenia, Glauce e le altre”, attività di 150 ore di formazione per prevenire e contrastare la violenza contro le donne e le disuguaglianze di genere nei campi profughi e tra le comunità libanesi, attività di formazione promossa nell’ambito del programma “Prevenzione della violenza contro le donne nei campi profughi palestinesi (PAVAW)” rivolto a operatrici socio-culturali delle associazioni ed organizzazioni femminili palestinesi e libanesi. Obiettivo del laboratorio era una formazione professionalizzante attraverso le tecniche e le metodologie del teatro sociale per assumere buone pratiche per analizzare i contesti e le barriere invisibili che generano violenza contro le donne, per la gestione dei conflitti interpersonali e sociali e per sapere utilizzare il teatro come mezzo di sensibilizzazione presso le comunità.

Le attività miravano dapprima a rendere consapevoli le operatrici delle proprie modalità comunicative, per poi acquisire, in virtù anche del loro vissuto, conoscenze teoriche e competenze creative: una sorta di alfabeto che sviluppava la capacità di riconoscere gli indicatori comunicativi e meta-comunicativi con cui analizzare i contesti e i bisogni per intervenire in situazioni di disagio e/o conflitto tra i generi, accogliere le vittime nei centri simil-antiviolenza, elaborare strategie per il superamento delle barriere invisibili. Il laboratorio è stato un crescendo continuo partendo dalla propriocettività personale e affinando l’osservazione della comunicazione, approfondendo le barriere invisibili che generano la violenza contro le donne e la discriminazione di genere, sia in senso ampio, sia nella specificità delle comunità a cui appartenevano le partecipanti.

Dal laboratorio è nata “La Storia di Rahel”, una scrittura scenica collettiva che racconta di una bambina e del suo divenire donna e di come vengano trasmesse su di lei, attraverso l’educazione, i vissuti, i modelli socio-educativi, i pregiudizi, gli stereotipi, i luoghi comuni (ossia le barriere invisibili) che generano i comportamenti discriminanti nella famiglia, scuola, comunità, società, tramandanti la discriminazione di genere e la violenza. “La storia di Rahel” è stata presentata presso il Babel Theatre e l’Unesco Palace a Beirut, l’Auditorium Safadi Foundation a Tripoli e nel campo profughi El Buss a Tiro. Distaccarsi dalla dimensione di questo workshop e dalle persone con cui abbiamo vissuto un tempo così intenso, intimo, doloroso e forte emotivamente, non è stato semplice. Nel 2010, di ritorno in Libano, abbiamo fatto una reunion con tutto il gruppo. Siamo rimasti soddisfatti nell’apprendere che per molte di loro, specialmente le palestinesi, la formazione avuta con noi abbia agevolato anche un avanzamento nella carriera professionale.

Nel 2014 all’interno del progetto internazionale “Città amiche dei bambini”, promosso sempre dalla Cooperazione Italiana/Ministero degli Affari Esteri d’Italia/Utl di Beirut e anche dal Ministero degli Affari Sociali del Libano (MOSA) nell’ambito del Programma MOSAIC-MAECI, abbiamo realizzato il workshop “Teatro, Interazione, Comunità” nei Municipi di Bebnine-Akkar e Rachaya Al Wadi. Finalità del progetto era quello di promuovere la cittadinanza attiva e partecipata dei minori alla governance attraverso le tecniche del teatro sociale. Gli obiettivi erano quelli di facilitare l’espressione dei sentimenti e delle emozioni dei minori per promuovere abilità comunicative per formulare proposte nei Consigli Comunali dei Bambini. Partecipavano al progetto i minori che erano già parte del progetto generale avviato nei mesi precedenti nei comuni. A Bebnine hanno partecipato anche alcuni bambini dell’Orfanotrofio “Dar Al Aytam Al Islamiya”. Abbiamo strutturato un percorso in cui tutti potessero vivere l’esperienza di essere protagonisti delle narrazioni con cui hanno drammatizzato i temi urgenti da proporre e discutere nei Consigli Comunali dei Bambini. Il percorso di teatro è stato occasione per i minori di sperimentare su se stessi le modalità espressive e le tecniche di comunicazione per la gestione del conflitto e il problem solving da utilizzare in seno ai Consigli Municipali quando dovranno discutere le proposte che presenteranno ai sindaci e agli adulti. L’eloquenza con cui i partecipanti hanno espresso con le drammatizzazioni e con i loro commenti le loro necessità di cittadini insieme alla richiesta di comprensione dei loro bisogni e problemi fa ben sperare in un futuro più luminoso rispetto al presente. Ci auguriamo che gli adulti li ascoltino.

Riflessioni e prospettive sul laboratorio creativo

Il teatro e i linguaggi artistici sono ampiamente riconosciuti come mezzi capaci di attivare la dimensione socializzante dell’essere umano necessaria per sviluppare conoscenza, comunicazione e competenza. Riconosciuti dalle scienze sociali, dalla moderna psicologia e da istituzioni come l’Unesco. I partecipanti alle attività sono protagonisti dell’azione creativa, drammatica e artistica. La processualità che i metodi e le tecniche della pedagogia teatrale e artistica mettono in atto promuovono la condizione del percepire, dell’ascolto attivo e dell’interazione, facilitano lo sviluppo dell’intelligenza fisica, emotiva e sociale, sostengono lo sviluppo del livello culturale che ciascun individuo possiede. Scriveva Raffaele Laporta: «[…] l’educazione è un processo auto-educativo ed emancipatorio […] che consente all’individuo di sottrarsi all’apatia, all’egocentrismo e al disimpegno sociale, sviluppando un carattere necessario a diventare membri attivi e creativi di una società». Il percorso esperienziale favorisce la dialettica relazionale, porta ad approfondire la conoscenza di se stessi a sviluppare capacità di osservazione e di cooperazione in riferimento ai contesti indagati. Dice Eugenio Barba, antropologo teatrale: «[…] Quel che conta nel teatro, è rivelare delle relazioni, è mostrare la superficie dell’azione e insieme il suo interno […] così il training è l’esercizio del comunicare, del mettersi in grado di allacciare rapporti con l’esterno, lavorando in libertà, in una situazione in cui non ci si sente più divisi fra l’intenzione e l’azione. È un processo che scava canali di comunicazione, un gioco di pazienza per inventarsi la propria lingua, per scoprire la propria logica. Questa “intelligenza fisica” permette all’attore di conquistare una autonomia personale, una libertà d’azione che attraverso il processo creativo su uno spettacolo diventa azione sociale, pubblica». Augusto Boal chiama coscientizzazione la strada che creativamente recupera risorse contro l’oppressione, la violenza e per l’umanizzazione degli esseri umani. Bruno Munari[xv] sosteneva che «gli individui creativi sono individui capaci di realizzare se stessi nella società in cui vivono», e Gianni Rodari «per conoscere ed imparare bisogna saper immaginare».

La pragmatica del “laboratorio creativo” e dei linguaggi espressivi etico-estetici consente un intervento ad ampio raggio – spaziante dalle tecniche di sensorialità del corpo, alla comunicazione verbale e non verbale; dalla drammatizzazione alla libera creatività; dalle funzioni cooperative alla mediazione dei conflitti; dalla liberazione dei significati per la comprensione reciproca alla convivenza inclusiva; dalla compensazione socio-affettiva per il riorientamento da deprivazione al reinserimento operativo sociale ed a tecniche di bellezza gestuale della mimesica a cui le persone vengono educate, per far esprimere valori etici di solidarietà nelle relazioni tra persone coinvolte nel gioco mimetico al fine di fare esprimere autenticità di conoscenza, apprezzamento e rispetto reciproco – che si rivela un efficace mezzo per la relazione di aiuto fornibili ad una varietà di casi già sperimentati. Eccone alcuni esempi: dalla dispersione scolastica all’empowerment delle abilità cognitive, affettive e sociali; dall’orientamento agli studi e al lavoro, alla prevenzione e tutela dalla violenza e dalla marginalità; dalla integrazione multiculturale alla compensazione delle asimmetrie nei legami familiari; dalla scoperta della identità personale agli atteggiamenti pro-sociali di gruppo; dal recupero degli svantaggi alla prevenzione del disagio; dall’inclusione delle minoranze linguistiche all’emancipazione dei diritti di cittadinanza; dalla mediazione dei conflitti alla cooperazione internazionale; dalla formazione di operatori socio-culturali alla trasmissione delle relative buone pratiche; dalla promozione di dialogo tollerante all’empowerment delle capacità interne; dalla gestione del problem solving alla community building; dall’assunzione di decisioni responsabili alla salvaguardia dei diritti umani; dal potenziamento della resilienza, delle capacità e delle attitudini, alla abilità progettuale creativa; dalla innovazione divergente alla sostenibilità ambientale.

I laboratori di pedagogia teatrale ed artistica così come li intendiamo e li pratichiamo sono un accadimento particolare nel panorama delle possibili “oggettivazioni artistiche”, poiché i partecipanti non producono “risultati” come spettacoli, opere, etc., ma quello che “producono” è l’esperienza che vivono coloro che ne prendono parte. La cui oggettivazione è la processualità del percorso esperito nel laboratorio ed il cui “risultato” o “prodotto” che si realizza resta all’interno del laboratorio, riguardando soltanto i partecipanti stessi: “l’opera” si conclude nella elaborazione della sua stessa processualità. Da qui la multidimensionalità dei processi di pedagogia teatrale ed artistica che li rendono adattabili ad una varietà di richieste a cui rispondono per rendere omaggio alla intrinseca passione per l’essere vivente nella difesa e rivelazione della sua fragile dignità.

Questi processi fanno sperimentare ai partecipanti la dimensione propriocettiva[xvi] e percettiva del sentire intimo, l’espressività corporea, le potenzialità dei linguaggi multipli promuovendo un processo di auto-formazione sensibile ed estetico per cogliere come avvenga il passaggio dall’esperienza alla conoscenza, dal processo di apprendimento delle tecniche e delle pratiche all’acquisizione dei saperi da transitare ed impiegare quali mezzi creativi nell’agire quotidiano e nei contesti lavorativi.

L’ambito del sociale diventa perciò una dimensione elettiva, poiché nella sua processualità il laboratorio riesce a contemplare obiettivi e finalità riferiti agli indicatori pedagogici, psico-sociali, sociologici. La forma e il contenuto artistico coincidono con l’ambito elettivo quale matrice da elaborare: ovvero la scoperta delle risorse personali e sociali, l’autostima, l’autonomia, il riconoscimento dei legami emotivi significativi, l’empatia per le reti sociali di appartenenza. Il tutto, per diminuire l’aspetto negativo del contingente esistenziale sostenendo soluzioni creative davanti alla sofferenza e ai distacchi. Ciò è anche importante per la formazione e la sensibilizzazione artistica indispensabili per reclamare il diritto alla cultura, così come fissato da insopprimibili diritti umani.

Poiché le attività svolte attraverso giochi, esercizi, improvvisazioni etc., entrano nello schema corporeo della persona, assumendo una “grammatica” che scava e va oltre, non si può pensare al laboratorio soltanto con funzioni utilitaristiche all’interno della società, o dal punto di vista delle programmazioni sociali. Il laboratorio è luogo della formazione dell’essere umano e la sua energia può essere considerata principio individuationis. Il laboratorio dispiega il valore della creatività intrinseca all’anthropos e nello stesso momento la sostiene. Il laboratorio come visione artistica pratica la visione di un altro approccio alla formazione tout-court della persona e delle comunità, prefigurando intese “altre” riguardo alla biosfera dell’essere umano.

Sappiamo che noi siamo i nostri corpi; sappiamo che senza il nostro essere bios non possiamo esistere. Nonostante questa ineluttabile verità troppo spesso nella prassi della vita quotidiana lo scordiamo facilmente e volontariamente sotto la pressione della normalità. La pratica del laboratorio elude il quotidiano, il quotidiano delle convinzioni e convenzioni, delle irreggimentazioni, dei comportamenti e delle corazze muscolari, essendo in grado di destrutturarle. I vissuti possono rivisitarsi liberi dai giudizi, costrizioni e paure, per rinvenire, nel proprio schema corporeo, la dimensione di corpo/mente non scisso, aperto alle suggestioni delle intelligenze multiple che lo presiedono.

Tutto quanto appena affermato è una posizione guidata dalla passione che abbiamo nei confronti della pratica del laboratorio. Quindi è una posizione parziale, che si muove in bilico perché implica i termini arte e vita nello stesso istante. Ma dovrebbe essere altrettanto chiaro che la pratica del laboratorio come “opera d’arte” è critica e crisi dell’individuo formato e della processualità degli iter delle formazioni. Perché si dovrebbe altrimenti intraprenderlo? La sua dimensione è quella del gioco e come ogni gioco si gioca seriamente con le sue regole e processualità, la sua posizione è quella del non-potere, non si afferma e non si impone, solo si fa.

Tutto il lavoro laboratoriale che abbiamo svolto negli ultimi venti anni in Italia e all’estero, persegue l’obiettivo di facilitare la comunicazione e la comprensione come base per la promozione della salvaguardia dei diritti umani, della giustizia, dell’uguaglianza e della libertà, beni comuni irrinunciabili per una vita dignitosa. Per questo abbiamo continuato a studiare coniugando saperi e conoscenze. Elaborando una metodologia integrata capace di favorire un apprendimento attivo intuitivo, emotivo, sensoriale, energetico, e non solo logico-razionale come avviene principalmente sotto la pressione dello status quo, da vivere in prima persona, per poi riuscire ad estrapolare dall’esperienza vissuta dei saperi da trasporre nella vita reale e di cui disporre a seconda dei contesti e delle circostanze. Usare i linguaggi artistici essere-diventare-arte è un metodo per integrare saperi teorici scoprendo come applicarli a sostegno delle basi e dei principi che regolano la vita fisica, biologica e sociale degli individui rivelando dinamiche e relazioni presenti nei contesti e negli ambiti in cui si agisce. Percorsi che rendono la persona più competente con se stessa sapendo a quali risorse e intelligenze emotive, cognitive e sociali attingere per aiutarsi e aiutare per trasformazioni e cambiamenti.

Siamo fortemente convinti che chiunque decida di lavorare nell’ambito del sociale, per svolgere la propria funzione di facilitatore capace di ascolto attivo, debba avere una necessaria conoscenza propriocettiva e consapevolezza delle proprie capacità comunicative e dei processi meta comunicativi. Questa autocoscienza di come ci si senta nel vivere le emozioni e i sentimenti in relazione all’altro consente di predisporre un atteggiamento empatico di accoglienza e una prossemica adatta alle situazioni che al contempo garantisce capacità di gestione della propria pragmatica comunicativa e aiuta non capitolare allorché si è travolti dalle difficoltà.

Nel contesto dell’arte

All’interno e nei dintorni dell’impegno laboratoriale-artistico e del progetto “La Linea di Pace” sono nate molte opere d’arte e spettacoli-performance.

Oltre “SON…ora” (di cui abbiamo parlato precedentemente) sono stati prodotti “Non sparisco dalla terra” (2005) e “GAZA” (2012). “Non sparisco dalla terra” è un reading di racconti e poesie arabo-palestinesi, di e con Jörg Grünert e Cam Lecce, musica Michelangelo Del Conte, consulente letterario Wasim Dahmash, già docente di lingua e letteratura araba all’università di Cagliari, saggista, traduttore e attivista della questione palestinese. Il recital è dedicato alla straordinaria atmosfera della poesia e della letteratura palestinese (poco conosciute), arricchita dalla colonna sonora di Michelangelo Del Conte che dal vivo accompagna la voce recitante di Cam Lecce e l’action painting e la performance di Jörg Grünert curatore anche dell’allestimento scenografico realizzato con opere ad hoc.

“GAZA”, nasce dall’incontro con gli attivisti dell’ISM[xvii] Italia Alfredo Tradardi e Diana Carminati: si confronta con il massacro della popolazione gazawi del 2008/09 avvenuto con l’operazione “Piombo Fuso” ad opera delle forze armate israeliane. Il testo drammaturgico è liberamente tratto dalla testimonianza oculare di Vittorio Arrigoni, attivista ISM, e dalle liriche di Ibrahim Nasrallah e Samih Al-Qasim, poeti palestinesi. “GAZA” e “SON…ora” non mettono in scena il massacro direttamente come un simulacro, perché si tratta di materiale non rappresentabile. Non solo per il nostro senso morale di rispetto per le vittime e il ripudio a rappresentare sadici assassinii e oppressori, ma anche perché riproducendo un qualsiasi massacro, per quanto elaborati possano essere gli effetti speciali, la rappresentazione rimarrà sempre un fatto ridicolo e aberrante davanti alla realtà. Fare teatro politico o civile è per noi una questione di coerenza tra arte e vita.

Per questo “GAZA” e “SON…ora” non costituiscono la rappresentazione dei massacri, bensì la risonanza particolare della testimonianza; non denuncia, ma un sentire, un posizionarsi concretamente. Far sentire allo spettatore l’oscenità dell’indicibile dolore, orrore … significa per noi creare l’espressione della partecipazione: performers confinati nella gabbia dello spazio/tempo/scena affrontano interiormente l’oscenità diventando testimoni di sé stessi. Tutti gli spettacoli-performances sono sorretti o costruiti attorno gli environments scultorei e installativi di Jörg, sculture ed installazioni che vengono esposte anche singolarmente nelle mostre.

“GAZA”, performance di Cam Lecce e Jörg Christoph Grünert

Questo slideshow richiede JavaScript.

Di recente elaborazione sono l’opera d’arte/installazione scultorea-video “Mare Nostrum”[xviii] affrontante il dramma dei rifugiati, le “Barche”, la serie pittorica “Inside” ed “Exile”.

Nel 2010 abbiamo allestito la mostra con catalogo e testo critico di Rolando Alfonso “Automatismi Residui”[xix] all’Ex-Aurum di Pescara, con una doppia personale di Jörg Grünert e il pittore libanese Elie Abou Samra.

Nel 2011 al Museo delle Genti d’Abruzzo a Pescara, nell’ambito del progetto Il Teatro Sociale e l’Educazione alla Pace e ai Diritti Umani”, è stata la volta della mostra Diari della notte” e l’organizzazione del Convegno “Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani”, da cui è scaturita la pubblicazione “Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani – Night Diaries – Gli Acquarelli libanesi 2004-2011 di Jörg Christoph Grünert”. Nella manifestazione erano in esposizione per la prima volta fotografie e un video sui laboratori svolti in Libano, nonché gli acquerelli[xx] di Jörg realizzati durante le nostre permanenze mediorientali. Annota Jörg per gli acquerelli: «[…] E dopo un giorno di lavoro artistico con i palestinesi la notte. Le candele, la carta, gli acquerelli. La carta non è uno spazio vuoto, è uno spazio che richiede concentrazione, non permette sbagli, è pregiata aspettando arte. Nella notte, in solitudine, nella lontananza più possibile da questa stella, mi immergo nel me stesso affidandomi ai miei occhi e alle mie mani per far emergere la materia dei sentimenti. Negli anni di lavoro con i palestinesi sono nati decine e decine di acquerelli che mi hanno dato la possibilità di ripensare e riaprire nuove vie nel mio lavoro artistico e una chiarezza: sono un esule, senza casa, con una via da percorrere in favore della terra. La terra mi chiama come chiama la loro terra con Mia madre di Mahmud Darwish: “Ho nostalgia del pane di mia madre / del caffè di mia madre / della carezza di mia madre / ho nostalgia. / Cresce l’infanzia in me / e m’innamoro della vita / ché dovessi morire avrei vergogna / del pianto di mia madre. / Prendimi, / dovessi ritornare, / potessi un giorno tornare, / scialle per la tua frangia, / copri le mie ossa con erba / fatta pura al tuo passo / legami / con una ciocca di capelli / con un filo dell’orlo della veste / ché io diventi dio. / Divento dio se tocco / il tuo cuore. / Mettimi, / dovessi ritornare, / legna nel fuoco tuo / corda al terrazzo di casa. / No, non so stare senza / la preghiera del tuo giorno. / Sono invecchiato, rendimi le stelle dell’infanzia / fammi tornare / come tornano gli uccelli / al nido della tua attes


[i] Moa’taz Dajani è scultore, pedagogo, direttore artistico e coordinatore del Centro Al Jana/Arcpa (Arab Resource Center for Popular Arts) di Beirut, Libano, http://www.al-jana.org, con cui collaboriamo dal 2004. Il Janana Summer Encounter è una delle iniziative organizzate dal Centro.

[ii] L’attacco israeliano in Libano 2006 è durato 33 giorni e ha causato 1.191 morti di cui il 40% bambini e 4.409 feriti e menomati, 974.184 sfollati, 30.000 case, 95 ponti e 70 strade distrutti, 3 aeroporti colpiti tra cui quello internazionale, diverse autostrade, 4 porti, 22 dighe, diverse centrali elettriche e relativi luoghi di rifornimento (con la fuoriuscita nel Mare Mediterraneo di 30.000 tonnellate di petrolio), più di 20 centrali del gas e relativi luoghi di rifornimento, fabbriche, depositi, fattorie, scuole, ospedali, stazioni radio e televisive, chiese e moschee.

Il Libano (indipendenza dalla Francia nel 1943) è una terra segnata dalla guerra: le guerre civili post-coloniali del 1958 con l’invasione anche di 10.000 marines statunitensi per mantenere al potere il governo filo-occidentale, e, del 1975-1990 (con oltre 100.000 morti) in cui la Siria stabilì de facto un ruolo decisivo sulla politica libanese fino al 2004, anno in cui l’esercito di quel Paese si ritirò. Le invasioni israeliane del 1978 e 1982 arrivate fino a Beirut (tristemente noto è il massacro del campo profugo palestinese di Sabra e Shatila) con le quali fu occupato il sud del Libano fino al 2000. Occupazione combattuta dalla resistenza libanese nota con il nome di Hezbollah. La tensione nel sud del Libano ha causato la guerra israelo-libanese del 2006. Il Libano è anche una terra segnata dalla presenza dei rifugiati palestinesi dal 1948 (circa il 10% della popolazione) dopo l’espulsione forzata dalla loro terra di Palestina dalle milizie sioniste (poi esercito israeliano. Con una superficie di 10.452 km2 (pressoché identica a quella dell’Abruzzo, pari a 10.763 km2, con circa 1.300.000 di abitanti) era abitato da circa 4.500.000 persone fino al 2011, prima dell’arrivo massiccio dei rifugiati siriani scappati dalla guerra. Fonti ufficiali parlano di circa 1.250.000 esuli siriani (per i libanesi si tratta di almeno 2 milioni) presenti sul territorio. Si stima che attualmente (2016) nella regione siano presenti ben 6.000.000 di abitanti.

[iii] Il Centro Al-Jana, associazione no-profit di Beirut nata nel 1990, sviluppa ed elabora un lavoro di supporto ai rifugiati palestinesi e alle comunità emarginate libanesi per la salvaguardia della loro cultura, al fine di favorire relazioni di crescita, comunicazione e solidarietà tra i popoli. I profughi palestinesi presenti sul territorio libanese giunti alla quinta-sesta generazione di esuli, vivono soprattutto dislocati in 12 campi profughi ufficialmente riconosciuti dall’Unwra, l’Agenzia dell’Onu che si occupa del loro sostentamento, e in altri conglomerati non ufficiali. Se le condizioni materiali e di sopravvivenza sono sempre state precarie e molto svantaggiate, attualmente con l’esodo dei rifugiati palestinesi scappati dai campi profughi siriani per sottrarsi alla guerra, la condizione dei campi profughi palestinesi in Libano è al collasso e a rischio costante di emergenza umanitaria. Da sempre sono carenti infrastrutture indispensabili quali le condutture idriche, elettriche o il sistema fognario, con un insediamento abitativo che non riesce ad accogliere tutti, oltre alla rilevante mancanza di ambulatori sanitari, distretti ospedalieri, asili nido, scuole, etc.. Nei campi la soglia di povertà si attesta mediamente intorno al 65%. Una legge restrittiva negava, fino giugno 2005 (allorché è stata abolita), lo svolgimento di circa 70 mestieri aggravando ulteriormente la persistente condizione di disoccupazione. I profughi palestinesi detengono il primato di esilio temporale più lungo al mondo: i primi di essi sorsero in Libano, Cisgiordania, Giordania, Siria, Egitto (Striscia di Gaza) nel 1948, e a tutt’oggi si calcola che sparsi nel mondo siano circa 5.000.000.

[iv] B. Cyrulnik – E. Malaguti, Costruire la resilienza, Erickson, Trento, 2005.

[v] Un primo report sulle nostre attività nel Libano è stato pubblicato su Teatro e Storia, Annale n°29, edito da Bulzoni, Roma, 2008, pp.399-423, articolo “Teatro Didattico nei Campi Profughi Palestinesi in Libano. Report” di Cam Lecce e Jörg Grünert con una nota di Raimondo Guerino, e Teatri delle Diversità, rivista teatrale europea, n.32/33, 2005, pp.15, articolo “Come il Centro Al-Jana insegna ricerca creativa agli animatori” di Cam Lecce e Jörg Grünert. Leggibili su http://www.depositodeisegni.org/index.php?option=com_content&view=article&id=91&Itemid=163.

[vi] Vedi su youtube https://youtu.be/czYkzRcgiQI?list=PL0C344ECE3A9B5FE3, https://youtu.be/5x4mXFLL-GM

[vii] Mai Masri è tra le cineaste più impegnate e conosciute nel Medioriente. Figlia di un palestinese di Nablus e di un’americana del Texas. La sua famiglia era a Beirut quando nel 1967 l’esercito israeliano occupò Gaza e Cisgiordania, e a lei come ad altre migliaia di palestinesi fu impedito di tornare in Palestina. Laureatasi alla San Francisco University, dirige e produce film che hanno vinto premi ovunque: sono stati programmati da oltre 100 televisioni di tutto il mondo. Con il regista Jean Chamoun ha fondato le case di produzione MTC e Nour Productions.

[viii] P. Freire, La pedagogia degli oppressi”, Mondadori, Milano, 1971; nuova edizione: EGA, Torino 2002; ID, L’educazione come pratica di libertà, Mondadori, Milano, 1973.

[ix] Una documentazione video sulle attività svolte in Libano è visibile su youtube al link: https://youtu.be/lhV3Demd_FA?list=PL2C46F51246F1457A

[x] Il Janana Spring Festival itinerante di Primavera è organizzato dal Centro Al Jana in collaborazione con Child Friendly Libraries. Coinvolge circa 57 Ong in network, biblioteche, associazioni, organizzazioni civili, scuole e municipalità libanesi. Si svolge durante le vacanze da scuola della Pasqua ortodossa, a cui aderiscono tutte le comunità confessionali del Libano. Offre appuntamenti di svago e avvenimenti di vario genere creativo, annunciandosi nei luoghi con un imbonitore speciale: “un autobus” da cui, come le carovane dei commedianti dell’arte, scende poliedrica una chiassosa quanto allegra compagnia di clown, acrobati, trampolieri, musicisti, teatranti e… tanto divertimento.

[xi]Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani. Atti di una mattinata di studio – Night Diaries – Gli Acquarelli libanesi 2004-2011 di Jörg Christoph Grünert”, a cura di Cam Lecce e Jörg Grünert, con testi di Cam Lecce, Jörg Grünert, Raimondo Guerino, Ezio Sciarra, Rolando Alfonso, edizioni Tracce, Pescara, 2011. http://www.depositodeisegni.org/index.php?option=com_content&view=article&id=91&Itemid=163.

[xii] Visitando i campi profughi diventa immediatamente chiaro perché tutti vorrebbero trasformarsi in uccelli e volare via liberi. Sorti come luoghi temporanei di accoglienza per l’ emergenza a seguito della Nakbah, la catastrofe, sono a tutt’oggi (2016) paragonabili a carceri a cielo aperto da cui è molto complesso muoversi, specialmente per i giovani, per via dei documenti, poiché moltissimi sono dotati solo di una tessera di riconoscimento rilasciata loro dall’Unrwa. (dal libro di Ilan Pappe, storico israeliano, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, 2008, stralciamo alcuni frammenti (cap. n.11 pagg. 280-281): «[…] L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite stabilisce che sia permesso ai profughi che lo desiderano di tornare quanto prima alle loro case e vivere in pace con i loro vicini e che un compenso debba essere pagato per le proprietà di coloro che abbiano scelto di non ritornare e per la perdita o il danno alle proprietà che, nei principi della legge internazionale e secondo giustizia, dovrebbero essere riconosciuti dai governi e dalle autorità responsabili. Risoluzione ONU 194 (III), 11 dicembre 1948. […] A metà del 1949, le Nazioni Unite intervennero per cercare di rimediare ai cattivi risultati del piano di pace del 1947. Una delle prime decisioni errate dell’ONU fu quella di non coinvolgere l’Organizzazione Internazionale dei Rifugiati (IRO), ma di creare un’agenzia speciale per i profughi palestinesi. Dietro la decisione di mantenere l’IRO fuori dalla questione c’erano Israele e le organizzazioni ebraiche sioniste all’estero: infatti lo stesso ente aveva assistito i profughi ebrei in Europa dopo la seconda guerra mondiale e le organizzazioni sioniste erano molto attive per impedire a chiunque di fare ogni possibile associazione o anche solo un confronto tra i due casi. Inoltre, l’IRO raccomandava sempre il rimpatrio come prima opzione alla quale i profughi avevano diritto. Fu questo il motivo per cui fu costituita nel 1950 l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e per l’Occupazione (UNRWA). Tale agenzia non si occupava del ritorno dei profughi deciso dalla Risoluzione 194 dell’ONU il dicembre 1948, ma […] era intesa come un’organizzazione che si occupava in generale dei problemi quotidiani dei profughi. In tale situazione il nazionalismo palestinese riemerse rapidamente, concentrandosi sul diritto al ritorno, ma cercando anche di subentrare all’UNRWA nel campo dell’educazione e persino in quello dei servizi sociali e medici. Spinto dal forte impulso di prendere in mano il destino del popolo palestinese, questo nascente nazionalismo fornì alla popolazione un nuovo senso di orientamento e di identità dopo l’esilio e la distruzione che aveva vissuto nel 1948. Questi sentimenti nazionali trovarono una propria rappresentanza nel 1968 nell’OLP, la cui base era costituita dai profughi e la cui ideologia si fondava sulla richiesta di un risarcimento morale e concreto per i danni che Israele aveva inflitto al popolo palestinese. L’OLP e gli altri gruppi che si dedicavano alla causa palestinese dovevano confrontarsi con due atteggiamenti di rifiuto: quello dei mediatori internazionali di pace che decisamente accantonavano, o addirittura eliminavano del tutto, la causa e le preoccupazioni palestinesi da ogni futuro accordo di pace; e quello, categorico, degli israeliani di riconoscere la Nakba e di sentirsi responsabili, legalmente e moralmente, della pulizia etnica compiuta nel 1948 […]».

[xiii] Raimondo Guarino, Teatro Sociale e Lavoro su di sé. Elementi di riflessione, in Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani… op. cit., pp. 17-25.

[xiv] Ezio Sciarra, La vocazione del teatro sociale, in Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani…, op. cit., pp. 27-34.

[xv] Bruno Munari, Il Laboratorio per bambini a Brera – giocare con l’arte , Zanichelli, Bologna, 1981.

[xvi] Propriocettività è un termine introdotto dal medico e neurofisiologo C.S. Sherrington per descrivere gli ingressi sensoriali che originano, nel corso di movimenti guidati centralmente, da particolari strutture, i propriocettori. La loro funzione principale è di fornire informazioni di retroazione sui movimenti propri dell’organismo; in altre parole di segnalare, istante per istante, quali siano i movimenti che l’organismo stesso sta compiendo.

[xvii] L’ISM http://palsolidarity.org/ è un movimento non-violento palestinese nato nel 2001 per opporsi all’occupazione israeliana, per sostenere e rafforzare la resistenza popolare e per promuovere e rivendicare i diritti dei palestinesi (diritto del ritorno dei profughi, eguaglianza politica e sociale dei palestinesi-israeliani, decolonizzazione dei territori occupati etc.) a cui si sono affiliate organizzazioni di supporto da diversi Paesi del mondo. Sempre da una prospettiva non violenta diverse organizzazioni civili palestinesi nel 2005 hanno lanciato la campagna internazionale BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) e boicottaggio accademico-culturale (PACBI) in riferimento al movimento di boicottaggio che ha contribuito in modo determinante a porre fine al sistema di Apartheid del Sudafrica.

[xviii] Vedi su Vimeo https://vimeo.com/133551873

[xix] Catalogo visitabile su http://issuu.com/jorg-christoph-grunert/docs/_aut.res.jorg/5?e=0

[xx] Rolando Alfonso, Nuova Gestalt. Gli acquerelli libanesi di Jörg Grünert , in Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani…, op. cit., pp. 36-46.